Re Lear

1972

«Strehler prova Re Lear»: è la scritta che appare su cinque locandine affisse all’ingresso del Piccolo a ricordare alla città che il regista, dopo quattro anni di assenza, è di nuovo nel suo teatro per portare in scena uno dei massimi capolavori di Shakespeare.

Fino ad allora considerato “irrappresentabile”, per Strehler invece «è teatro, è teatro purissimo, emblematico, è vita, è tutto». Una tenda circense (le scene, così come i costumi, sono di Ezio Frigerio), con i suoi tiranti conficcati nel suolo, delimita uno spazio che contiene in sé diverse valenze: perché quello spoglio, grigio parterre dove anche la segatura può trasformarsi in un fango scuro, in cui ci si muove a fatica e dove a fatica si lavora, a vista, per montare e smontare precari praticabili, può essere, allo stesso tempo, una landa desolata battuta dalla tempesta, un luogo in cui sembra trionfare l’aridità disumana delle passioni degli uomini, del conflitto dei loro interessi, della follia dei loro egoismi, ma anche uno spazio astratto, cosmico, in cui avviene una rappresentazione che, in fondo, ci riguarda e ci rispecchia.

In questo teatro-mondo, fra pochissimi elementi scenici – dove uno sgabello diventa trono, le quattro assi di una botola prigione, uno spiazzo da rodeo o una reggia – Strehler ha dunque messo in scena Re Lear (che in questa impostazione scenografica deriva direttamente dal Gioco dei potenti) non soltanto come una grande tragedia sulla natura umana, sulla contrapposizione generazionale, come un archetipo dell’universale, ma anche come un potente flusso di immagini dove la parola si fa visione. Tutti i personaggi, nel corso di questo intenso viaggio, diventano diversi da ciò che erano all’inizio, a partire da Cordelia, la figlia diseredata di Lear, interpretata dalla stessa attrice – Ottavia Piccolo – che veste i panni del Matto, quasi suggerendone l’interscambiabilità nella grazia leggera e demente, insensata e tenera. «Il Fool – afferma il regista – è la “persistenza” di un bene che è stato cacciato via».

Personaggi e interpreti

Lear Tino Carraro
Kent Carlo Cataneo
Gloster Renato De Carmine
Edgar Gabriele Lavia
Edmund Giuseppe Pambieri
Scozia Cesare Ferrario
Cornovaglia Orlando Mezzabotta
Francia Franco Patano
Borgogna Enrico Carabelli
Il matto Ottavia Piccolo
Cordelia Ottavia Piccolo
Regan Ivana Monti
Goneril Ida Meda
Oswald Fulvio Ricciardi
Vecchio servo Corrado Sonni
Primo servo Eugenio Masciari
Secondo servo Gabriele Villa
Terzo servo Sergio Salvi
Capitano Franco Sangermano
Primo gentiluomo Franco Ferri
Secondo gentiluomo Gilfranco Baroni
Terzo gentiluomo Ernesto M. Rossi
Primo cavaliere Jackie Basehart
Secondo cavaliere Pierparide Tedeschi

Scene e costume di Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi
Registi assistenti Carlo Battistoni, Enrico D’Amato, Lamberto Puggelli
Movimenti mimici di Marise Flach

Testo di William Shakespeare
Traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Piccolo Teatro, 6 novembre 1972

Riprese

1972-1974

Nel dicembre 1972 lo spettacolo è a Trieste.

Dal gennaio del 1973 Re Lear va in scena a Prato e Torino, per poi tornare nuovamente a Milano (questa volta al Gratosoglio, sotto al tendone di Teatro Quartiere); in autunno è invece a Prato e a Pavia.

In alcune recite il ruolo di Edmund è interpretato da Orlando Mezzabotta; quello di Cornovaglia da Sergio Salvi; quello del Terzo servo da Franco Patano.

In dicembre ritorna sul palcoscenico del Piccolo Teatro con la seguente distribuzione:

Lear Tino Carraro
Kent Carlo Cataneo
Gloster Renato De Carmine
Edgar Antonio Fattorini
Edmund Carlo Simoni
Scozia Cesare Ferrario
Cornovaglia Orlando Mezzabotta
Francia Franco Sangermano
Borgogna Francesco Talotta
Il matto Ottavia Piccolo
Cordelia Ottavia Piccolo
Regan Ivana Monti
Goneril Ida Meda
Oswald Fulvio Ricciardi
Vecchio servo Corrado Sonni
Primo servo Eugenio Masciari
Secondo servo Guido Gagliardi
Terzo servo Sergio Salvi
Capitano Alberto Firotto
Primo gentiluomo Franco Ferri
Secondo gentiluomo Gilfranco Baroni
Terzo gentiluomo Ernesto M. Rossi
Quarto gentiluomo Pierparide Tedeschi

Milano, Piccolo Teatro, 14 dicembre 1973

Nel 1974 lo spettacolo è a Bergamo, Berlino, Amburgo, Stoccarda, Francoforte, Monaco, Vienna, Ginevra, Zurigo, Genova, Reggio Emilia, Ferrara, Modena, Ravenna, Como e Milano.

In alcune recite il ruolo di Edmund è interpretato da Umberto Ceriani; quello di Francia da Franco Patano; quello di Goneril da Anna Saia; quello del Terzo servo da Giulio Trevisani; quello del Capitano da Ernesto M. Rossi; quello del Primo gentiluomo da Franco Sangermano; quello del Terzo gentiluomo da Pierparide Tedeschi.

1977, 1979

Lear Tino Carraro
Kent Franco Alpestre
Gloster Renato De Carmine
Edgar Antonio Fattorini
Edmund Giuseppe Pambieri
Scozia Luciano Virgilio
Cornovaglia Orlando Mezzabotta
Francia Franco Patano
Borgogna Agostino De Berti
Il matto Ottavia Piccolo
Cordelia Ottavia Piccolo
Regan Anna Rossini
Goneril Lia Tanzi
Oswald Fulvio Ricciardi
Vecchio servo Ottavio Fanfani
Primo servo Augusto Zeppetelli
Secondo servo Massimo Ghini
Terzo servo Giulio Trevisani
Capitano Ernesto M. Rossi
Primo gentiluomo Franco Sangermano
Primo cavaliere Mauro Righi
Secondo cavaliere Sandro Roberti
Terzo cavaliere Andrea Tidona
Quarto cavaliere Giulio Luciani

Parigi, Théâtre de l’Odéon, 2 novembre 1977

Lo spettacolo va poi in scena a Milano, Cremona e Prato.

Il 5 e il 6 ottobre 1979 una registrazione televisiva in due parti dello spettacolo, con la regia di Carlo Battistoni, è trasmessa dalla Rai su Rete due.

Strehler ne parla

La più remota tragedia di Shakespeare

Non trascurare nel Lear un dato di fatto: la “favola” di Leir-Lear per Raphael Holinshed [1529-1580] è datata nel 3105 dalla nascita del mondo. In Israele regnavano Giuda e Geroboamo.

La tragedia è stata mantenuta da Shakespeare in una lontananza alle soglie del tempo, non fuori tempo, ma non storicizzata. In tale modo si ottiene una “astrazione” delle situazioni senza però perdere del tutto una “connotazione storica” possibile: cioè storia di uomini in un certo tempo. Solo che il tempo è remotissimo.

La più remota tragedia di Shakespeare; notare che non a caso si parla qui di Dèi e non di Dio.

Non portarla nel vuoto.

Non farla diventare un pretesto storico.

È certo che la prima scena ha come nucleo un love-test di fama popolare: la figlia o le figlie che dicono o non dicono di amare il padre come il pane e il sale.

Evidentemente dunque: un rituale a senso unico, con soluzione stabilita a priori. Esso serve a “dare una forma” a un atto pubblico, con la “rappresentazione” dell’ubbidienza dei figli ai padri e quindi dei giovani ai vecchi.

Come tutti i rituali, essi non possono essere né mutati né tantomeno capovolti. Essi seguono una loro logica simbolica di gesti e parole.

Il fatto che insistessi sul carattere di prologo della prima scena, nel suo nucleo, di “cosa data a priori”, ha dunque un suo fondamento preciso. Non è una “recita” per divertire Lear, non è un’invenzione di Lear o una sua bizzarria. È un “fatto” che si deve fare e che sanziona praticamente la sua abdicazione.

Lo sconvolgimento di Lear è quello dell’officiante che vede il blasfemo, che si avvicina all’ostia e la sputa per terra. È incredulità ed è orrore e smarrimento. E altro.

Le reazioni sono a senso unico, sebbene di tipo diverso secondo i diversi caratteri. Quello di Lear reagisce come reagirebbero tutti, nel fondo, ma con il suo particolare modo: ira, maledizione, grida, collera, ecc. ecc.

Cordelia insomma spezza tutto un giro rito-costruzione storica e “senza avere avvertito”, di colpo, inattesa!

È chiaro che in questa versione la posizione di Kent diventa ancora più difficile. Kent si oppone alla violenza del re, certo, ma deve sapere che il re “ha ragione”.

Forse non si aspetta nemmeno lui che Cordelia spezzi il nodo, ma non si aspetta nemmeno che il re “prenda così sul serio” l’atto di Cordelia… Però…

La storia potrebbe essere raccontata così: il vecchio Re Lear, deciso ad abdicare e delegare il potere alle sue figlie e per esse ai loro mariti e dividere fra di esse il suo regno, decide la spartizione e la solenne cerimonia che sanzionerà l’avvenimento. A questo scopo viene usato il rituale del love-test, pubblicamente.

Egli spiega l’antefatto della spartizione e poi pone le domande rituali alle tre figlie. Le prime due rispondono come devono, con atto di sottomissione completa. La terza, la più giovane, si ribella alla “forma” rituale, che le appare vuota e inutile. Il vecchio re, di fronte allo scandalo e di fronte al grave attentato alla sua regalità, al sistema stesso su cui poggia il suo potere e lo Stato, disereda la figlia e la dà in sposa al re di Francia che se la porta via, all’estero.

Problemi di scena e spettacolo: è possibile “realmente” la soluzione «terra di fango trafitta dai raggi di un sole freddo e abbacinante», intuita come “visione” formale?

I problemi sono di ordine innanzitutto tecnico. Trovo sempre maggiori difficoltà in questo senso, a prevedere una possibilità vera.

Il fango che io intendevo (lo sto precisando ora) non era una “palude di sabbie mobili”, non era un “acquitrino”, non era una “superficie” piana (liquida e quindi piana). Era una “cosa impastata di fango” (Shakespeare, Hamlet: «Ed io creatura impastata di fango…») e sangue. Morte e possibilità di vita. Grumo palpabile in cui si stampa l’orma umana, non in cui affonda l’orma umana. È importante non ai fini tecnici-plastici. Ma ai fini ideologici-poetici. La desolazione di un pianeta “senza amore”, di una terra desolata e deserta di amore, di un vuoto nel freddo dello spazio deve presupporre una “immanente possibilità di vita”. La morte e la nascita al tempo stesso. Sono gli “attori” che dovrebbero (e non sapranno nella favola) sapere “farla umana” questa terra disperata e desolata. La terra-scena lo consentirebbe: è pronta, quanto è deserta e atroce, tanto è piena di vita latente e di felicità umana possibile, se gli attori che la calcano sono o saranno capaci di crearla, suscitarla, difenderla e farla vivere, questa “vita umana”.

Il “fango” mi appariva, dunque, una “materia” abbastanza compatta (non liquida). Una materia umana inventata in un piano vastissimo.

L’aspetto della scena dovrebbe essere, come base, teatrale, cioè luogo di teatro, dove si può fare teatro. E questo contrasta in un certo senso con lo spazio planetario, il vuoto primordiale.

Perché, per “noi”, cosa è “teatro”?

È tavola di palcoscenico, legno, carta, corda. È un piano con tavole di legno: o lunghissimo, in prospettiva (è il nostro sistema più usato, anche troppo), o con “il legno” in altre composizioni. È comunque un legno antico, chiodi, botole che si aprono sul mistero; è shakespearianamente «questo O di tavole sconnesse», questo «guscio di noce» e «mal levigato palco» e via dicendo. L’immagine elisabettiana-shakespeariana arriva fino a noi, modificata ma, come materia base, la stessa. L’idea del teatro occidentale (ma non solo, perché come è il teatro orientale? Anch’esso tavolato di legno, levigatissimo, lucido, sacrale nella sua asetticità, passerella a sinistra che lo collega col fondo sala, telai di carta di riso, il pino dipinto nel fondo: vedi scena del Nō) è questa, è dentro di noi, fino a oggi, anche se probabilmente sta per essere modificata per un lontano futuro.

Come può accordarsi l’una immagine, questa, con l’altra, quella del pianeta-terra (come pianeta-luna), distesa, su fondo nero-viola, di materia, terra fango sabbia, frammento di roccia, polvere, lava o altro?

Questo il punto iniziale, mi pare, per un discorso concreto.

Dagli appunti di regia, 1972 – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati, con tagli, all’interno del programma di sala di Re Lear, regia di Giorgio Strehler, stagione 1972/73; successivamente anche in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, il Saggiatore, 2022

Cordelia, il Fool e Lear

Cordelia da tempo ha capito di quale stampo sono fatte le sorelle e i rispettivi mariti, ha capito che la decisione del re è errata, che i tempi sono ormai maturi per un’altra forma di vita e di rapporti e che grave pericolo correrà il padre stesso quando realizzasse il suo desiderio.

La figlia più giovane sceglie al tempo stesso il momento più giusto e quello più errato per significare al padre il suo pensiero. Ma ella non è una politica, è una “sentimentale” con un forte carattere, propenso all’introversione, e, con ogni probabilità, al tempo stesso irriflessiva e testarda come il padre. In Cordelia esistono alcune qualità e difetti del padre e sono proprio questi che, in un dialogo che spezza la calma del rituale del love-test, rendono insanabile il contrasto tra i due.

Basterebbe un poco più di umiltà da parte di Cordelia, un poco più di flessibilità politica, un poco più di capacità di spiegare a parole i sentimenti più profondi per chiarire, forse, l’equivoco. Ma i due, troppo simili in fondo, si allontanano sempre più.

Il re è convinto che la mancanza di Cordelia alle formule del love-test nasconda una reale mancanza di amore e, nel tempo stesso, sia la manifestazione della più aperta ribellione ai suoi voleri e, insieme, ai voleri della legge che è come è sempre stata.

L’atteggiamento di Cordelia è ribelle, pericoloso per l’unità politica del suo disegno. Deve andarsene. E la scaccia senza terre né dote. Se la prenda il primo che vuole. Nel caso specifico: il re di Francia. Costui accetta di sposare ugualmente Cordelia privata di ogni bene (a differenza di Borgogna, che rifiuta). Probabilmente per due ragioni che collimano, in questo caso: affetto o amore verso Cordelia e ragione politica, in quanto un matrimonio con la figlia ripudiata e che è stata privata della sua parte di regno potrà forse essere in futuro una “ragione di Stato” per intervenire negli affari del regno di Britannia. Si vedrà col tempo. 

Il Fool che sparisce alla fine del terzo atto cosiddetto, comunque al centro quasi della tragedia? Perché? Se c’è un perché. Ma il perché che si cerca non è logico ma poetico. Lear è al massimo della cecità. È solo con se stesso. Perché il Fool lo lascia per sempre? (per noi è “per sempre”).

Comunque, l’ultimo gesto del Fool non è la sua battuta famosa: «E io andrò a dormire a mezzogiorno» (cioè assolutamente fuori tempo). Indicazione di una morte prematura. A. C. Bradley [1851-1935] pensa addirittura che si sia ammalato per la pioggia e il freddo e che si senta male!

Il Fool esce «portando con Kent e Gloster» il corpo inerte del vecchio Lear. È questo corteo che segna la fine della sua parte. Ed è naturale che la didascalia non shakespeariana faccia parte della logica dell’azione fin dalla prima rappresentazione. Quindi è valida.

C’è poi la battuta di Kent, indiretta, per il Fool che “suggella” un rapporto di tenerezza tra lui e il vecchio. È un epitaffio comunque, per il ruolo, la figura.

Bisogna partire probabilmente dalla fine.

Resta sempre un punto interrogativo, tra tanti altri, da svelare.

Nei miei primi appunti c’è un’indicazione del tutto intuitiva: Fool-Cordelia. Quando sparisce Cordelia appare il Fool, quando il Fool sparisce riappare Cordelia.

Ciò è evidente, ma di per se stesso non giustifica un’identificazione di Cordelia col Fool. Certamente crea una “premessa”, come dire, di strano malessere, di coincidenza che “risulta” più scenica che letta. Non di più. Più tardi soccorre una citazione del Bradley, che presuppone che tale sparizione-apparizione duplice sia dovuta al fatto che, al tempo di Shakespeare, l’attore che impersonificava Cordelia recitasse anche la parte del Fool. Bisognerebbe controllare tale affermazione: su quali basi è nata, dai registi? (non credo); dalla tradizione? (non mi pare); da quale notizia allora?

Dall’altra parte, Lear non è una tragedia così “piena” da richiedere doppioni in gran numero. Tuttavia, una spiegazione relativa potrebbe essere il fatto che ragazzi adatti a recitare le parti di Cordelia, Regan e Goneril non dovevano essercene molti (le parti di giovani donne in Shakespeare sono sempre limitate, anche per questo evidentemente).

Tre ragazzi in tre parti femminili, dunque. Tutti sfruttati. Se, a questo punto, il testo richiedeva un ragazzo (boy) per il Fool, poteva essere naturale doppiarlo o pensare a una metodologia di palcoscenico per farlo. Qui nasce però il problema dell’età del Fool. Era necessario che il Fool del Lear fosse giovane (boy). Si potrebbe continuare con le congetture “di necessità” all’infinito.

Giova piuttosto esaminare altre congetture, poetiche, e controllare se esse possono avere un senso.

Qui si entra in un mondo oscuro, di sensazioni sfuggenti, di sensibili intuizioni che possono sfiorare l’immaginifico, l’elucubrazione intellettualistica e altro.

Una cosa mi pare però certa: c’è qualcosa di misterioso in questo legame, inesistente in apparenza, tra il Fool e Cordelia. Lo si sente e non si spiega. Persino il Bradley parla di un Fool che «ama Cordelia e che è rimasto a soffrire quando Cordelia è andata via». Il Fool è il Fool di Cordelia, più che di Lear.

In un certo senso appare che il Fool è un “prolungamento” della presenza di Cordelia. Per Bradley, in termini naturalistici caratteriali, «il povero Fool che tanto amava Cordelia» (vedi battuta) è un “ragazzo” non del tutto pazzo, ma…

O il Fool fa sentire di più l’assenza di Cordelia? Infatti, i suoi primi argomenti-lazzi-rimproveri sono gli stessi di Cordelia: il vecchio re sbaglia, è pazzo. Perché non prende la berretta del pazzo? Le due figlie sono diverse da quelle che crede (ecco la frase di Cordelia) e si riveleranno presto per quello che sono.

La verità però più segreta, per me, è questa: il Fool è la “persistenza” di un bene che è stato cacciato via.

C’è nel legame Fool-Lear una tenacia profonda e inesprimibile di affetti, di complicità e anche di “tenerezza”, a un certo punto. E poiché il “bene” – per noi – era quello di Cordelia cacciata, come per altro verso quello di Kent cacciato anch’esso, ecco che il Fool “tiene luogo” di questo bene in altro modo. È il bene rimasto, il rapporto “umano” rimasto e che rimarrà. Appunto la persistenza.

A questo scopo mi farei una domanda retorica ma illuminante: ammettiamo che il Fool non sparisca, misteriosamente, e che continui a stare vicino a Lear. Che lo segua anche nel “dopo”.

Cosa avverrebbe, cosa potrebbe fare, quali sarebbero i rapporti suoi con Lear? Per quanto ci pensi, non riesco a vedere dei rapporti praticamente possibili.

Prendiamo una scena: quella del risveglio di Lear con Cordelia, e le seguenti. Potrebbe esserci il Fool e, se sì, cosa dovrebbero fare o dire? Nessuno mai potrà tentare di inventare ciò che un poeta non ha fatto. Ma si può tentare di seguire una traccia plausibile di presenza. Non c’è posto per il Fool dopo la “pazzia” di Lear. E non erra chi dice che il Fool sparisce quando ha portato Lear alla pazzia. Il suo ruolo finisce lì. Non solo, però.

Il fatto è che il Fool serve a Lear “solo” in fase negativa del personaggio Lear, come commento alla sua negatività. Non può servire quando il personaggio Lear riemerge dal buio ed è nuovo, cioè opposto a quello che fu. In questo caso il Fool dovrebbe diventare l’opposto anche lui di quello che fu. Un Fool che, “come prima”, commenta e irride e parla e canta e spiega, per enigmi e giochi, non più “la follia” di Lear, l’errore di Lear, il disumano di Lear, ma il suo umano, la sua saggezza conquistata, il suo amore ritrovato?

Impossibile. A un Lear nuovo, il Fool dovrebbe trasformarsi in un fatto nuovo, probabilmente tutto comprensione, dolcezza, tenerezza, affetto, trepidazione (ciò che noi sentiamo che è “sotto” al Fool, ma assume veste variopinta prima). E poiché ciò non è possibile, o almeno non pare possibile, ecco che il Fool deve sparire. Non c’è più bisogno di lui, ma di un altro termine d’affetto e di presenza. Cioè Cordelia.

Lo so che tutto ciò – e lo dicevo – è sfuggente, è “sensibile” quasi, o peggio. Ma resta inoppugnabile il fatto che:

a) il Fool accompagna Lear nella sua disgrazia-follia-cammino di conoscenza e lo accompagna come “presenza”, se non femminea, certo “non virile”;
b) la presenza “virile” la dà Kent (anche se travestito: «Chi sei tu?» dice Lear; «A man» risponde Kent).

Il problema Fool-Cordelia è certo uno dei più enigmatici, pazzeschi problemi che mi sia stato dato di incontrare. Tanto strano da domandarsi se esso esista o non sia invece un parto di fantasia…

Mi viene di farmi un altro gioco del pensiero: poniamo che l’attore (boy) fosse lo stesso. Cosa poteva succedere nella rappresentazione shakespeariana? I doppioni non erano poi così comuni, né usati per parti “importanti” o per due parti importanti. Mi pare che la “convenzione” di questo genere non fosse una delle tante convenzioni in uso nel tempo. Come non lo è con i Comici dell’Arte.

Non ce n’è bisogno, del resto. Tutto è combinato e sufficiente per l’organico della compagnia.

Il pubblico doveva “riconoscere” nel Fool Cordelia e, alla fine, viceversa? Probabilmente riconosceva solo qualche cosa, alcuni timbri di voce, qualche caratteristica “inalienabile” e niente di più, tanto i personaggi sono lontani. Ma doveva forse riconoscere un “legame” misterioso, impalpabile.

Dagli appunti di regia, 1972 – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati, con tagli, all’interno del programma di sala di Re Lear, regia di Giorgio Strehler, stagione 1972/73; successivamente anche in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, il Saggiatore, 2022

La tempesta e la “rinascita” di Lear

La luce è immobile, da diluvio universale, chiarissima, lancinante, trafiggente. Come la luce di un lampo interminabile o arrestatosi nel momento della scintilla. Poi buio. Poi un altro, a lungo. Scandito nel vuoto, a intervalli. Nudo, nella luce impietosa di un fulmine che non si spegne.

Il problema della tempesta è un problema acustico terrificante. O semplicissimo, trovata la chiave.

Il punto più difficile di ciò è il risveglio di Lear. La musica che accompagna il risveglio di Lear. Due soluzioni iniziali. L’oboe elisabettiano, solo, che “risillaba” accanto a Lear (invisibile, ma vicino e vero) un tema sommerso. O un suono di voci umane calme, piano, lontano; col pericolo che diventino metafisiche, o voci del sogno di Lear o altro.

Grande impressione per il quarto atto, ma soprattutto, in modo sconvolgente e inaspettato, per la scena del “risveglio” di Lear con Cordelia.

Dopo “la tempesta” di Lear, la follia degli uomini, la cattiveria, il sangue e il dolore, appare una incredibile pace. Lear si risveglia, anzi sta risvegliandosi. Ed è qui che è avvenuto il “capovolgimento”, qui la conquista della “verità” che è al di là delle cose.

Chi parla è ancora Lear, ma al tempo stesso un altro: parla con acutezza e soprattutto con un’infinita tristezza; lui che non ha mai conosciuto il distacco, la tristezza, la malinconica contemplazione della vita.

È un monologo lento, calmo, sereno, direi, da un “altro mondo”.

L’effetto è stupendo, drammaticamente perfetto. È stato scelto il momento giusto perché avvenga. È “un colpo di scena” di una grandezza assoluta, perché semplice, perché logico, perché naturale, perché poetico, perché drammaturgico, perché…

Non ci sono problemi per la realizzazione. Semmai uno iniziale, quello della musica, dell’attesa. Ma anche questo meno, risolto il problema del “dove” e “come” stanno Lear e Cordelia, il “luogo” drammatico (è sdraiato Lear? Certamente, non può non esserlo. Ma: su un letto grande o altro? O per terra? Dovrebbe a mio avviso essere per terra, rinascere dalla terra come un “neonato vecchissimo”. Se è “per terra”, cosa ha sotto? Se ha sotto qualcosa, non è più “per terra”!).

Il resto è semplice, fino all’uscita di Lear che se ne va solo, nel vuoto. Ma non piange, non si dispera, sorride quasi e scuote un poco la testa in un “no” misterioso mentre esce e fissa per un attimo gli “altri”.

Cordelia che aspetta il risveglio di Lear. La “carezza” sulla fronte per liberarla dai bianchi capelli, “il pallido elmo”. Le parole di Cordelia sembrano dedicate a un “altro uomo”.

Cioè sono un “anticipo” di quello che Lear ci apparirà tra poco. Ma non lo sappiamo. Questo è genio. Si potrebbe pensare che, per Cordelia, Lear sia apparso un poco “sempre” così, vecchissimo e tenero. Forse Cordelia con l’occhio del cuore ha visto sempre la “bontà” di Lear, che è al di là della sua collera e del suo dispotismo.

Sempre la scena del risveglio di Lear. Un’immagine lancinante: un uomo vecchissimo come un bambino appena nato da un sonno di morte, bianco e diafano, le mani raccolte, piccole unghie incredibilmente trasparenti, nel grembo di una giovanissima quietamente seduta, composta, che gli accarezza lenta i capelli, li scosta dalla fronte piena di crepe azzurre come vene sottilissime. Il gesto dolcissimo, il sorriso, la tenerezza, la pena, l’amore, la pietà per la vita che ritorna, che riaffiora. Il vecchio ha le ginocchia piegate, i pugni quasi stretti, e respira appena. Poi apre gli occhi e fissa quelli

della giovane. Il vecchio è il padre. La giovane è la figlia. Il padre che rinasce alla vita (la più vera di sé) dalla figlia che l’ha “amato sempre”. La figlia-madre, eternamente.

Il cerchio della vita e delle età che si chiude in un gesto. In un atto d’amore.

Alla fine, quando Lear porta dentro Cordelia, Cordelia è nelle sue braccia: l’idea di un fantoccio rotto, un fantoccino pallido, esangue, dal viso bianco bianco. Lear la porta proprio come un fantoccio, quasi facendogli trascinare le punte dei piedi per terra, tenendolo abbracciato, al petto, con fatica perché pesa, nonostante tutto. I piedini sfiorano il fango e qualche volta strisciano lasciando una riga più lunga.

L’avanzata è faticosa. Poi, sul davanti (al centro? più avanti ancora? sulla passerella dopo aver tirato giù Cordelia-fantoccio morta?), la lascia andare a terra, scomposta, e la guarda in ginocchio, come un bambino antichissimo che guarda il suo giocattolo rotto. Con curiosità. Qui arriverà la battuta: «My poor Fool is hanged».

Oppure, durante le battute di Kent, Lear avrà incominciato a toccare il fantoccio-Cordelia, a darle piccole scosse, ritirandosi per vedere l’effetto del colpo, tirandola poi per le braccine, poi sollevando un braccino per il polso, in alto, piegandolo un poco e poi lasciandolo.

Il braccino ricade morto e resta. Lear allora, proprio alla battuta, in ginocchio, accucciato, ha un lampo. La fissa, si allontana col busto, si riavvicina lentissimo con le palme a terra, fissando Cordelia faccia a faccia, e mormora, adagio, con orrore tenerissimo, al di là del male: «Ti hanno impiccato, povero Matto mio!».

E furiosamente se la stringe al cuore, mentre le braccine inerti dondolano nel ritmo di una straziante ninna nanna, perduta, immemore.

Dagli appunti di regia, 1972 – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati, con tagli, all’interno del programma di sala di Re Lear, regia di Giorgio Strehler, stagione 1972/73; successivamente anche in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, il Saggiatore, 2022

Il solo modo di fare Re Lear è come Shakespeare lo ha scritto

Anche questo Re Lear sarà un Versuche – una ricerca –, un tentativo, per dirla con Brecht, perché fa parte del mio modo di affrontare un testo il non potere arrivare al primo giorno di prove con la mia bella regia in tasca, precisa e programmata come il progetto di un edificio. Il lavoro teatrale è ricerca: ricerca che non solo non termina quando si passa alla fase realizzativa (quando si cominciano le prove), ma che non termina neppure quando le prove finiscono, perché anche l’incontro dello spettacolo con il pubblico è una ricerca, e insegna e chiarisce tante cose, anche se molte – purtroppo – serviranno ad altri spettacoli: a tutti gli spettacoli a venire, meno che a questo.

Re Lear è: un’antica leggenda; un archetipo tragico; una tragedia elisabettiana in cinque atti; un dramma familiare; uno scontro generazionale; una lotta per il potere; l’analisi di un cammino di conoscenza; una tragedia individuale; e – per fermarmi alle prime sommarie etichette – una diagnosi esistenziale. E anche dell’altro. Allora, lo spettacolo sarà tutto ciò che di questo sopravviverà alle più particolareggiate analisi del lavoro teatrale; meno – cioè – quello che cammin facendo risulterà superfluo e implicito nel testo o che non saremo stati capaci di estrarre dal testo.

Ma “più” tutto ciò che quella stessa ricerca porterà a scoprire di nuovo. In ultima analisi, il Re Lear esiste in natura: lo ha scritto Shakespeare ed è di dominio pubblico, leggibile da tutti; se chiedo a me stesso “come fare” Re Lear la risposta più vera è semplicissima fino alla tautologia: se il regista è un interprete cosciente, il solo modo “possibile” di fare Re Lear è di farlo (o tentare di farlo) come lo ha scritto Shakespeare, conservandogli l’infinita e indefinibile complessità delle sue implicazioni. Sempre riferito a un rapporto dialettico – come cioè se fosse stato scritto oggi con un pubblico di oggi (e non usando i facili mezzi dell’attualizzazione plastica e visiva o della tecnica retoricamente gestuale a copia di moduli altrui come spesso avviene).

Tutto ciò in un’epoca in cui – e lo dico con tristezza o indignazione o meraviglia anche – molto spesso pare che il teatro sia ritornato, e ripeto “ritornato” (perché storia vecchissima che credevo superata per sempre), a essere un “pretesto” per evoluzioni drammatiche degli interpreti non più interpreti, ma “pseudo poetici demiurghi”, non tanto dissimili dai mostri sacri del teatro ottocentesco all’italiana. Come se tutta l’esperienza che è partita da Copeau per arrivare a Brecht (e in mezzo, quella di noi, teatro europeo dopo la seconda guerra mondiale) non fosse quasi servita a nulla.

[…] Ecco, di fronte all’orgoglio fanatico di questa presunzione, Lear sarà affrontato con l’umiltà orgogliosa e orgogliosamente responsabile dell’interprete e nient’altro. Un interprete teso a capire e trasmettere quello che può e sa insieme ai suoi compagni di lavoro, interpreti anch’essi, anch’essi docili o indocili strumenti dei poeti, della poesia che si fa sul palcoscenico per altri, attraverso di noi ma che oltrepassano noi, che è “là” e che resta. A teatro, alla fine, solo i poeti restano.

Cento lavoratori intorno a Shakespeare, “Sipario”, ottobre 1972

Un testo che ora sento di dover fare

Mi chiedo: il problema della vecchiaia (in un mondo – il nostro – nel quale la vecchiaia è un problema), il problema dell’ingratitudine, quello dell’incomunicabilità, quale peso hanno avuto nella scelta che ho fatto? Ma sì: non nasce tutto per l’impossibilità di Cordelia e Lear di comunicare, di un padre e di una figlia, al di là dei formalismi e delle convenzioni. Il fatto è questo, vedi: mentre ci sono testi che per anni ho sognato di fare e di cui oggi poco mi importa, mi trovo attratto ora da un testo cui non avevo mai pensato e che sento di dover fare.

[…] Il Lear si può raccontare come parabola di un re, tra due figlie cattive e una buona. Si può raccontare come conflitto di potere su un regno, prima unito, poi smembrato in tre, poi in due, poi di nuovo riunito. Si può raccontarlo come scontro generazionale. Come dramma personale di un uomo che si lascia travolgere dall’ira, impazzisce dal dolore, e si pacifica nella purificazione. Addirittura come storia psicanalizzabile dei rapporti di un uomo con sua figlia.

[…] «Homo homini lupus»: questa è forse la tragedia di Shakespeare in cui più abbondano i paragoni tra l’uomo e gli animali. Trabocca ancora di quei sentimenti o atteggiamenti che noi (per liberarcene? per comodo?) definiamo “animaleschi”: l’uomo non si è ancora liberato dalla belva o – in termini biblici – non si è ancora liberato del tutto dal fango con cui è stato creato. La sua vicenda si svolge perciò su una pedana “labile” di umanità, di superiorità al fango; non sufficiente a far dimenticare le origini, neppure sufficiente a impedire che una scossa distrugga le precarie conquiste sulla strada dello sviluppo umano e sociale e riprecipiti gli uomini nel fango, in cui giaceranno o dal quale faticosamente, strisciando, ricominceranno a salire.

Strehler si confessa: perché proprio Re Lear, intervista di Carlo Mezzadri, “Gazzetta di Parma”, 20 ottobre 1972

Rendere chiara tutta la misteriosa ambiguità di Re Lear

Quando pensai di fare il Lear, ero partito da un altro Lear, non quello di Shakespeare. Mi avevano detto di leggere il Lear [1971] di Edward Bond, me ne avevano parlato come di un capolavoro. Non mi sembrò tale, a dire il vero. Dopo averlo finito mi andai a rileggere ancora una volta Shakespeare. Lasciamo stare i confronti. Pensai soltanto che in Shakespeare, per noi gente d’oggi, c’era molto di più. Però pensai anche, subito: fossi matto a fare il Lear di Shakespeare, non ci penso nemmeno. Fossi matto a rompermi le ossa per un testo che sembra il più impossibile da mettere in scena. Impossibile perché è una di quelle opere dove c’è tutto e non sai da che parte incominciare, come la Nona Sinfonia, Il flauto magico, il Faust o la Divina Commedia. A forza di pensare che non lo avrei mai fatto, finii per farlo.

No, non più il perfezionismo delle prove interminabili […]: è stato uno spettacolo preparato in tempo normale, con mezzi normali. No, non credevo di vedere la coda al botteghino per questo Lear. Però quello che accade nemmeno mi stupisce. Senza che nessuno avesse fatto calcoli, il Lear è l’evento giusto che arriva al momento giusto. A Milano, e forse anche altrove, al teatro in questo momento si chiede qualcosa di ben preciso. Se vai giù in teatro, vedrai che in platea sono quasi tutti giovani. A teatro vogliono qualcosa che li riguardi, ma anche qualcos’altro: cercano spiegazioni fatte non soltanto con la cronaca o la provocazione. Cercano anche il silenzio in un mondo di rumore: e il teatro è fatto anche di silenzio. Cercano una parola chiara che sappia essere anche profonda: oggi siamo troppo abituati a pensare che l’oscurità sia da sola una garanzia di profondità, oppure che la chiarezza sia sempre la tara dell’ovvietà. Riuscire a render chiara, cioè comunicabile, tutta la immane e misteriosa ambiguità del Lear è lo scopo dal quale sono partito. Non so se ci sono arrivato. Mi ha colpito la reazione di uno spettatore, un industriale di quelli che a teatro ci vanno sì e no una volta l’anno. Dice che non solo non si è annoiato, ma ha capito tutto. E aggiungeva: «Se ci fosse stata in scena una colonna del Seicento o una sedia del Trecento, mi sarei scocciato di sicuro. Invece, senza trono e senza roba antica, i personaggi “si capiva sempre dove erano”». Trovo questo straordinario in uno spettacolo dove i personaggi non erano mai in un posto verosimile, e per sfondo e cielo c’era solo un tendone. Forse per questo il Lear attrae la gente. È uno spettacolo che arriva in profondità senza montare in cattedra.

San Giorgio dei Teatri, intervista di Renzo Tian, “Il Messaggero”, 9 dicembre 1972

Il teatro è il più bel mestiere del mondo

Cari amici!

Questa sera si conclude il nostro Lear.

È un capitolo della nostra vita che si chiude per tutti noi che l’abbiamo conquistato giorno per giorno. E ciò è successo, si può dire, a ogni spettacolo del Piccolo, perché sempre ciò che abbiamo fatto è stato qualcosa di umanamente impegnato, qualcosa che ha richiesto la partecipazione intera di ciascuno di noi. Non, dunque, la nostalgia del sipario che si chiude dopo uno spettacolo, ma il distaccarsi anche dolorosamente da qualcosa di molto grande che ci ha accompagnato per un tratto della nostra strada.

Non credo che questo nostro Re Lear ritornerà mai più sulle nostre scene, ma il Lear di William Shakespeare, quello sì, ritornerà innumerevoli volte ancora sui teatri del mondo per indicare la continuità della poesia di cui noi possiamo soltanto essere, con cuore onesto e severità di intenti, gli interpreti. Vorrei che questo Lear lasciasse in voi una traccia, soprattutto che riuscisse a farvi vivere il teatro che incontrerete domani, meglio e più profondamente di prima. Insomma, che la memoria di questo capolavoro a cui vi siete accostati vi aiutasse a scegliere meglio nella vostra vita di uomini e di attori. Non sono venuto in questi giorni perché sto provando Il ratto dal serraglio alla Scala e anche perché il mio cuore ormai deve essere tutto nella Tempesta. Non avrei avuto la forza di rivedere questo passato e questi fantasmi in questo momento. L’altro giorno però, affacciandomi e scorgendo la luce lancinante di un quadro, e Renato e Antonio che giravano in tondo, e poi la loro immagine nel video (molto bella, mi pare), ho sentito un grande vuoto dentro e anche rabbia che tutto sia sempre tanto labile e transeunte nel teatro, che non si possa stare più insieme, che non si possa continuare di più insieme. Molti di voi però li rincontrerò presto, altri più tardi. Gli attori del Piccolo si rincontrano sempre. Comunque ricordiamoci sempre che siamo tutti dentro allo stesso cerchio magico, che facciamo esattamente tutti le stesse cose dovunque facciamo teatro. E diciamoci che, nonostante tutto, il teatro è il più bel mestiere del mondo, anche se il più disperante.

Un abbraccio fraterno a tutti per volerci bene,

Giorgio

Lettera dattiloscritta e firmata, datata 21 gennaio 1978 – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Documenti

Franco Sangermano. In prova con Strehler

13 settembre 1972

Strehler è un uomo di molte parole; la sua “presentazione” durante le prove a tavolino si può descrivere fenomenologicamente come un fluxus ininterrotto di suggerimenti, ricordi, enunciati teorici, monologhetti privati, in un continuo accavallarsi di autorettifiche e persino di autosmentite fulminee. A poco a poco, con l’abitudine, la sua voce forma una specie di alveo entro cui fluisce la prova, al limite un basso continuo frequentemente spezzato dal mordente dei richiami più diretti. Insomma, la parola e il pensiero sono in lui simultanei, “pensa ad alta voce”.

È interessante vedere come Strehler non voglia occuparsi di un problema alla volta, ma tenga contemporaneamente presenti questioni testuali, soluzioni scenografiche e costumistiche, indicazioni recitative.

Però le frequenti e lunghe interruzioni impediscono agli attori di impadronirsi subito delle necessarie modifiche; non si può certo dire che Strehler faccia lavorare i suoi attori a orecchio! Gli preme di più far loro afferrare determinati principi e concetti. In compenso pare smontato quando sente alcuni interpreti “porgere” timidamente in prima lettura. Altre caratteristiche del lavoro di Strehler: sorprendente capacità di improvvisare scenette e monologhi di sostanza analoga a quella dei luoghi testuali di ardua spiegazione; sua forza di concentrazione interiore, quando si chiude per qualche attimo cercando di ricordare (o trovare) un’intonazione, stimolando l’attenzione di tutti nell’attesa della scoperta; nella lettura, stacchi e attacchi di eccezionale precisione, specie nei finali “in levando”; sua fiducia nell’argomento più impressionante per far colpo in quel momento sull’attore: per spiegare un attacco di Edmund («thou Nature») inventa lì per lì che gli elisabettiani davano del thou soltanto a Dio (!).

 

17 settembre

Come tutti gli artisti e i critici che hanno la capacità e hanno avuto la possibilità di misurarsi nella pienezza delle proprie prerogative con la totalità dei problemi e delle tendenze del proprio tempo, anche in Strehler è manifesto un viaggio di andata e ritorno; l’andata consiste nel progressivo completamento e affinamento delle capacità tecniche ed espressive personali, il ritorno si configura come una scelta e un vaglio, una decantazione e una ricerca di essenzialità. Penso alla Duse (anche in questo fu un caso limite), che ebbe un analogo travaglio e, come Strehler, ebbe anch’essa chi riteneva preferibile la sua tarda fase, più rarefatta e testamentaria, e chi sempre le rimproverò l’abbandono di gran parte della sua ricca tastiera di mezzi espressivi.

 

20 settembre

Strehler lavora con gran gusto a risolvere le mille piccole confusioni e complicazioni inevitabili nelle scene d’insieme; è visibile la sua gioia di questa applicazione tipicamente “artigianale”, in cui ha modo di mettere a frutto il suo occhio sempre attento ai minimi particolari e il suo imponente bagaglio di mestiere. Enuncia, a un certo punto, una sua teoria secondo la quale le entrate “nobili” e “amorose” dovrebbero avvenire, quando possibile, dalla sinistra del pubblico; questo perché sarebbe latente in tutti noi una maggior sensibilizzazione emotiva della nostra attenzione sul lato sinistro. Questa curiosa concezione ha effettivamente dei corrispettivi in alcune credenze popolari; è noto, per esempio, che la fede nuziale si porta all’anulare sinistro perché anticamente si riteneva che la vena di quel dito fosse in collegamento più diretto di ogni altra col cuore.

 

27 settembre

Strehler ha già impostato almeno un momento bellissimo e geniale: l’arrivo al capanno di Tom dei cinque flagellati dalla tormenta, che si tengono per mano formando una catena, in una luce da finimondo. Come è ovvio per chi ha visto molti suoi spettacoli, Strehler impiega magistralmente l’illuminazione, specie per quanto riguarda la coscienza e la resa dei vari piani di profondità. Tutto lo schema della sequenza è di grande bellezza e rigore. È un tipico esempio dello stile strehleriano “maturo”, che ad azioni “a tutto campo” ne alterna altre discretamente lunghe, ospitate in porzioni di palcoscenici alquanto ristrette. Il passaggio dell’“autopsia” di Goneril raggiunge momenti di intensa compenetrazione fra tragico e comico, allucinazione e realtà. Quando Lear alza dal “tavolo d’obitorio”, costruito con due sedie e un lenzuolo, il “cuore” della figlia (è un pomodoro) e lo stritola nel pugno, l’effetto è impressionante da qualunque angolazione lo si consideri. Altra preziosa idea: quando il Fool esce per sempre, con la sua enigmatica battuta dovrà dare l’idea di un “taglio ombelicale” e insieme suggerire la propria continua affinità con Cordelia.

 

4 ottobre

Nella fase centrale del dialogo Lear-Gloster, i due vecchi siedono affiancati al centro, nella depressione. Strehler organizza il loro rapporto spaziale e le loro intonazioni con evidenti reminiscenze del “teatro dell’assurdo”: infatti poco dopo, a proposito della cavata di stivali di Lear, cita Aspettando Godot. Anche in questa sequenza, come sempre finora, si lavora con illuminazione provvisoria, ma già così – se si pensa agli spettacoli “normali” – di non comune bellezza.

[…] Lear, in veste candida (innocenza e follia), giace assopito nella landa, davanti al grembo della figlia; è in posizione fetale, rattrappita: quando si sveglia, si stira con un lamento-vagito e “cresce” fino oltre la sua normale statura umana, poi esce dalla posizione strisciando carponi, come espulso dalla matrice materna. Tutto questo conferisce un’indimenticabile forza al senso di rinascita a una vita nuova, all’accettazione – da parte di Lear – della piena complessità e ricchezza dei rapporti umani, e della propria vecchiaia. […]

Quando Lear ricomincia a dubitare della propria realtà e chiede uno spillo, è Cordelia a darglielo dopo averlo tolto dai capelli (e qui Ottavia ha trovato un movimento bellissimo, sia plasticamente sia nella dolcezza di “legatura” col gesto del padre); ed è un esperimento “baconiano” che Lear esegue con lo spillo sulla propria mano per certificarsi di essere vivo: ma neppure il dolore fisico sa persuaderlo di ciò, quanto l’amore con cui Kent e Cordelia lo circondano.

 

19 ottobre

Siamo giunti allo spartiacque, al discrimine, che o si travalica o si rotola irrimediabilmente al di qua, nelle grandi come nelle piccole cose. È questo il momento della resa “drammaturgica” – come dice Strehler –, in cui la rotta di ciascun attore deve orientarsi su quelle dei compagni, ogni personaggio deve vivere in rapporto agli altri e il regista “va dimenticato” (cum grano salis). Per l’attore è il momento di una ricerca à rebours, di una rigiustificazione del dettato registico, e dell’automatizzazione in funzione espressiva di tutti i dati fin qui memorizzati; ed è momento di aspra fatica.

 

27-29 ottobre

In questi giorni, dedicati soprattutto alle rifiniture, emerge una sola trovata nuova di regia, particolarmente illuminante: tutta la sequenza Z si svolgerà, per le azioni principali, entro un poligono aperto sul davanti, costruito con le tavole delle passerelle, confitte nel terreno sul lato più lungo. Questa soluzione, subito battezzata “del corral” per la sua somiglianza a uno stazzo, conferisce grande evidenza alla prigionia di Lear e Cordelia, poi dà assai maggior drammaticità al duello Edgar-Edmund; nel finale, Edmund, barcollando durante la sua lunga agonia, fa cadere la tavola centrale, che a sua volta fa cadere, come in un castello di carte, le altre quattro tavole, verso l’esterno. Così l’ingresso di Lear con Cordelia morta avviene nuovamente nella landa, disseminata dei cadaveri dei “cattivi”.

Cominciamo tutti ad avvertire il disagio di non poter mai provare almeno un tempo per volta nella sua completa concatenazione. Strehler non sa resistere alla tentazione di correggere via via gli errori, anche i minimi effetti tecnici.

 

30 ottobre

È interessante notare come Strehler sia libero dal “tabù” degli “impallamenti” in scena, così accuratamente evitati dal medio-professionista (si può affermare che evitarli sia una dei primi requisiti di mestiere – col “prendersi le luci” e il “non sporcare le battute altrui” – imposti all’istinto o alla rapida assimilazione del giovane attore). Strehler ha invece una sovrana indifferenza per l’“impallamento”, beninteso quando una qualche autentica esigenza lo giustifichi. E naturalmente ci si accorge che il fatto – anche preso di per sé – non è mai tanto catastrofico come ci dicevano a scuola o agli esordi.

 

Dal diario delle prove, pubblicato in Giorgio Strehler, Il Re Lear di Shakespeare, Verona, Giorgio Bertani Editore, 1973

Sandro Dini. La prova più difficile mai affrontata da Strehler

Un fondale melanconicamente grigio, una spessa fangosa polvere nerastra sulle assi del palcoscenico e Tino Carraro, vestito di stracci, una corona di stagnola in testa, una piccola barba rada e incolta sul volto scavato, che prova al centro del proscenio una scena del Re Lear di Shakespeare con cui il Piccolo inaugurerà la stagione. Nella sala immersa nel buio, la voce di Strehler, ora tonante, ora pietosa, ora suadente, ora carezzevole, ora maniacale, “vive” in anticipo le battute di Carraro con tale forza interpretativa da lasciare sgomenti per la sua bravura.

«Strehler prova Shakespeare» c’è scritto nelle locandine all’ingresso del teatro. E sono lì da almeno tre settimane: 8 ore al giorno di prove, dalle 4 del pomeriggio alla mezzanotte. […] Seduto vicino al regista, che torna quest’anno alla direzione del complesso, l’osservo mentre guida Tino Carraro, che pure è attore sensibilissimo, a entrare fino in fondo in quel “momento” difficile del personaggio di re Lear già difficile. È la scena della pazzia, una follia nella quale filtrano però di tanto in tanto squarci di lucidità.

«L’ho studiato fin nel fondo questo maledetto Re Lear – urla Strehler –, l’abbiamo sviscerato nella traduzione con Gigi Lunari attraverso i saggi, gli studi critici, storici, tutto. E ogni giorno vi trovo qualcosa di nuovo, di meraviglioso, di eccezionale. Dicevano che non era tanto teatrale. Una fesseria grossa come una casa! Una bugia, un tradimento! È teatro, teatro purissimo, emblematico, è vita, è tutto. È la Divina Commedia e il Faust insieme, è il dramma dell’amore mancato che genera amore, dell’amore respinto e ripreso. Ma è anche vigliaccheria, bassezza, disperazione, cattiveria, umiliazione, illusione, volgarità, poesia. È cosmico e attuale. È la cosa più difficile che io mi sia mai trovato ad affrontare. E veramente, ancora, oggi, dopo mesi e mesi, anni di studio, nel pieno di queste prove estenuanti, ancora non so cos’è questo Re Lear. So quel che non è. Cioè non è quello che hanno rappresentato tante volte, non è quello che ci hanno tramandato. È un qualcosa di nuovo, di meravigliosamente nuovo».

Lo sfogo è finito e le prove riprendono. Tino Carraro, comincia a vivere anche lui il personaggio di re Lear. Strehler l’interrompe subito: «No, no, Tino; devi essere più maniacale, sei folle. Li hai visti mai i pazzi? I loro occhi? Le loro mani? Come parlano? Dimentica di essere attore. Tu sei un grande attore, ma proprio per questo devi dimenticare di essere un attore».

E si rimette lui in sala a “fare” re Lear pazzo. E per quell’insondabile mistero che è la vera essenza del teatro, Strehler, anche se col maglione nero a collo alto e pantaloni neri e la testa folta di capelli tutta bianca, “è” re Lear pazzo “veramente” e anche terribilmente umano. Così come, secondo lui, l’ha concepito Shakespeare.

«La vecchiaia è brutta» deve dire a un certo momento Carraro, iniziando un amaro monologo. E appena l’attore apre le labbra, ecco che Strehler l’incita con un commento vocale altissimo («Questa porca vecchiaia, lurida, triste, baldracca vecchiaia. Non puoi più far l’amore, non puoi più essere forte, fare tutte quelle cose che sono tanto belle – e si esalta urlando –. E la gente non ti vuole più, e non ti guarda più, e i figli ti sfottono – incalza – e tu odi la gente. Ora non sei più pazzo, Tino, ora sei miseramente umano; questa sporca vecchiaia, baldracca vecchiaia, brutta vecchiaia»).

[…] Ma la magia di Strehler non è solo qui, nel saper vivere con verità assoluta ogni personaggio. È anche, e soprattutto, nel saper trasferire negli attori la “sua” interpretazione, nel far vivere e sentire anche a essi il personaggio come lo sente e lo soffre lui. E gli attori lo seguono incantanti, si trasformano, e, pur restando se stessi, o il meglio di se stessi, diventano quelli che puntigliosamente, suadentemente, prepotentemente, li vuole e li pretende Strehler.

Sandro Dini, Strehler prova Shakespeare, “Il Tempo”, 18 ottobre 1972

Ottavia Piccolo. Cordelia e il Fool interpretati dalla stessa attrice

Se è la prima volta che i ruoli di Cordelia e di Fool sono interpretati dalla stessa persona, non è per mio capriccio né per una invenzione di Strehler. Cordelia è l’antifinzione, è la verità: così come l’antifinzione e la verità è Fool, anche se ognuno ha un modo diverso di dire la verità. Non per niente, Fool entra in scena quando Cordelia ne esce e Cordelia rientra quando Fool scompare per sempre. […]

Non è stato difficile entrare nei due ruoli: la difficoltà più grande è stata nel trasferire Fool da me alla platea. Fool, il matto, fra lazzi e sberleffi proclama, più che dice, pensieri cosmici, universali, ma li proclama come se recitasse La vispa Teresa. Questa è stata la grande difficoltà, ma Strehler è stato meraviglioso nel farmi entrare nei due personaggi e specialmente in Fool. Avevo già lavorato sotto di lui nelle Baruffe chiozzotte, ma in questo Re Lear è stato veramente un maestro. Strehler ha superato se stesso. Per me è stata un’esperienza che mi servirà per tutta la vita. Così come le cose che si imparano al liceo e che poi vengono fuori a distanza di anni, perché si sono maturate in te e producono i loro frutti nel tempo, senza che tu te ne accorga.

Ottavia Piccola divisa tra Cordelia e Il matto, “Il Tempo”, 7 novembre 1972

 

All’inizio non era previsto che facessi anche il Matto, o almeno lui non me l’aveva detto. In realtà fu un’intuizione geniale: il matto è la persistenza dell’amore di Cordelia. Straordinario. Sono convinta che Strehler in Lear vedesse se stesso. Era tornato al Piccolo dopo essersene andato. Intanto c’erano stati il ’68, il Maggio francese, le contestazioni ai maestri. Lui aveva solo cinquant’anni, ma si sentiva vecchio. In realtà doveva fare ancora parecchi capolavori, ma in quel momento stava così. A pensarci oggi, mi emoziono.

[…] Ho ancora il copione, dove Gabriele [Lavia] di nascosto mi scriveva messaggi come «Sigh! Non gli piaccio». Eravamo convinti di non avere la sua approvazione. Cordelia ed Edgar sono due personaggi positivi e lui aveva subito chiarito che odiava i buoni. Gabriele poi si rivelò una presenza importante, inventava e proponeva cose bellissime. E Strehler: «Questa la uso, ma non dirò mai che è tua». Era uno che ascoltava. Sapeva spiegare agli attori le cose che loro fanno per istinto.

[…] Per me è stato fondamentale, non siamo mai diventati amici, ma nel suo studio teneva una foto mia e di mio figlio a tre anni, entrambi vestiti da fool. Aveva impreviste forme di tenerezza.

Il mio Re Giorgio, intervista di Sara Chiappori, “La Repubblica”, 17 ottobre 2017; pubblicata successivamente in Strehler. Il gigante del Piccolo, a cura di Sara Chiappori, Torino, GEDI – Gruppo Editoriale, 2021

Orlando Mezzabotta. Lo scambio tra regista e attore

Strehler non è che lavori con una sceneggiatura di ferro come si suol dire. Lui ha delle idee. Fondamentalmente, ad esempio, io penso che già sapesse l’impostazione dei tre personaggi principali: cioè Lear, il Matto, Edmund. Oltre tutto sono i tre personaggi che sente di più. Strehler li aveva in mente dal punto di vista creativo, come idea. Poi per quanto riguarda la realizzazione è evidente che è in palcoscenico che si vede come risulta. Infatti, sul palcoscenico, lui dà un’indicazione all’attore, l’attore dà e lui riceve, avviene questo scambio.

Intervista di Marco Bongioanni, Strehler come Lear, “Dimensioni Nuove”, aprile 1973

Ezio Frigerio. Un re dalla corona di cartone

Un grande telone sospeso e teso su cavi ci vuole introdurre al filo conduttore dello spettacolo: il circo.

I cavi sono metallici e con un colpo secco il sipario, se pur pesantissimo, è risucchiato nel soffitto. Ed ecco apparire un immenso circo con pavimento fragile nel quale si sprofonda fino alle ginocchia. Gli attori trascinano i costumi in questa specie di fanghiglia, come avevo visto fare nei combattimenti di catch in certi spettacoli in America. Due potentissimi proiettori a incandescenza, i famosi “bruti” o “10.000”, ereditati dal vecchio cinema, bruciano i volti degli attori sulla scena con la loro fredda luce. Poche vecchie assi, alcuni sgabelli circensi e la straordinaria regia di Giorgio Strehler.

Il costume di Re Lear (Tino Carraro) subisce una lenta degradazione.

Il manto regale perde il suo splendore e la gorgiera seicentesca si trasforma in un grande collo da clown, tempestato di paillettes. La corona è di cartone, come quella dei bambini.

Improvvisamente, un colpo di luce e lo troviamo inalberato, tramutato in statua di rame, costume di metallo grazie alla geniale collaborazione di Dobuzhinsky.

E finalmente Lear, la sua drammatica miseria, vestito di un informe sacco di stracci che agita la sua corona di cartone in un grandioso gesto di dolore.

La geniale intuizione di Strehler: il Fool è Cordelia! Cordelia è il Fool!

La preziosa veste di Cordelia (interpretata dalla giovane e tenerissima Ottavia Piccolo) del primo atto si trasforma in un miserabile costume da clown. Un piccolo frac di velluto blu stinto, grandi brache di stracci. La faccia bianca di gesso con le nere righe dei pagliacci.

Ezio Frigerio, Ezio Frigerio. Cinquant’anni di teatro con Giorgio Strehler, Milano, Skira, 2016

Luigi Lunari. Uno spettacolo chiave

Re Lear proponeva a priori almeno due fondamentali ragioni di interesse: era la prima regia di Giorgio Strehler dopo il suo ritorno alla direzione del Piccolo, ed era la prima volta – per lo meno da quando autorità e maturità gli consentirono un’incondizionata autonomia di scelte – che egli affrontava una vicenda drammatica non storicamente delimitata, e dunque non leggibile – presumibilmente – in quella chiave di storicismo dialettico che è parte cospicua della sua metodologia. L’esplosione di un successo senza precedenti ne fece molto di più che l’episodio singolo di un grande spettacolo di un grande regista: il Re Lear apparve subito – e sempre più chiaramente apparve in seguito – la chiave di volta, la prima pietra o il punto focale che dir si voglia, di un discorso ben più ampio e comprensivo, che su vari piani coinvolgeva il rilancio del Piccolo Teatro e dello stesso teatro pubblico italiano, il senso passato e il presumibile futuro della biografia artistica di Strehler, la collocazione e l’esatta dimensione di quante mode, verbi e ismi erano apparsi negli ultimi anni nella pratica e nella teoria del fantasioso mondo del teatro, la storia scenica di una tra le più grandi tragedie shakespeariane e la sua stessa travagliata storia critica.

[…] Per quello che riguarda gli effetti che il successo del Re Lear ha avuto sulla situazione teatrale, milanese e nazionale, appartengono alla cronaca tutta una serie di episodi inconsueti e piacevolmente spiacevoli: dalle code per le prenotazioni con due e più mesi di anticipo al bagarinaggio che quintuplica i prezzi dei biglietti, dagli abbonamenti che salgono presto a livelli antieconomici, rendendo eccessivo il peso del prezzo politico, allo slogan «il Piccolo scoppia» lanciato dalla stampa cittadina a ricordare a chi di dovere l’incivile assurdo di un teatro di fama mondiale ancor privo di una sede degna e funzionale. […]

Sul piano critico, l’osservazione più singolare e significativa che nasce dalla lettura di saggi e recensioni è la straordinaria semplicità di interpretazione che lo spettacolo di Strehler sembra aver favorito. Quella che sembrava ed era una delle più misteriose e ardue tragedie shakespeariane, ricca fino all’inestricabilità, densa fino all’imperscrutabilità, si dipana nei resoconti critici in uno schema di solare e geometrica essenzialità, evidente come l’uovo di colombo e compiuto come l’O di Giotto. Risultato – ovviamente – di una minuziosa demolizione-analisi del testo fino agli atomi delle sue componenti, e di una sua ricostruzione-sintesi dall’interno che rende ragione di ogni opposto, che trasforma ogni dubbio in suggestiva polivalenza, e ogni oscurità in espressione di un qualcosa che non è certo meno chiaro solo perché la parola fatica a definirlo. Questa semplicità dell’altissima poesia ha due facili riscontri: l’uno nell’attento e partecipe stupore con il quale il pubblico più popolare (ad esempio: in una serie di repliche che Re Lear effettuò sotto il periferico tendone milanese di Teatro Quartiere) ha sempre seguito la vicenda di Lear, dimostrando di coglierne – con silenzi e reazioni inequivocabili all’orecchio dell’attore – le più profonde aperture poetiche e ideologiche; l’altro nella curiosa corrispondenza dello spettacolo a tutte le “interpretazioni” che tre secoli di letture critiche hanno costruito sul Re Lear di Shakespeare, ora sottolineando il contrasto generazionale, ora il gioco politico della lotta di potere, ora la sua esemplarità esistenziale, ora la permanente violenza verbale, ora il suo trasparente substrato psicanalitico. […]

L’anno del ritorno di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro si aprì con il Re Lear e con il conferimento, fattogli ad Amburgo, dell’ambitissimo Premio Goethe; proseguì con una nuova edizione dell’Opera da tre soldi di Brecht-Weill, con la regia delle Nozze di Figaro di Mozart per l’inaugurazione dell’Opéra di Parigi, con la conseguente assegnazione del Premio dei Critici Parigini, con la regia del Processo di Lucullo di Brecht-Dessau, che Strehler curò con Lamberto Puggelli al Lirico di Milano per il Teatro alla Scala, poi ancora con la ripresa dell’Arlecchino  servitore di due padroni di Goldoni, con l’assegnazione del Premio Pirandello, con la regia delle due serate del Gioco dei potenti dall’Enrico VI di Shakespeare, in lingua tedesca, per il Festival di Salisburgo, e si concluse con il conferimento  della laurea honoris causa in Lettere e Filosofia da parte dell’Università di Roma, e la ripresa – ancora a Salisburgo – del Ratto dal serraglio di Mozart. Questo il curriculum di Giorgio Strehler dal settembre del 1972 all’agosto del 1973: un programma di lavoro impressionante.

Luigi Lunari, in Giorgio Strehler, Il Re Lear di Shakespeare, Verona, Giorgio Bertani Editore, 1973

Rassegna stampa

Nel «gran teatro di pazzi» che è il mondo

Il palcoscenico del Piccolo Teatro trasformato in una pista da circo: questo vede lo spettatore entrando nella sala per assistere al Re Lear di Shakespeare con la regia di Giorgio Strehler, spettacolo inaugurale della ventiseiesima stagione. Un panorama circolare simulante una tenda circense, coi suoi tiranti conficcati per terra, delimita lo spazio scenico, uno spoglio parterre che può essere nel medesimo tempo una landa desolata, battuta dalla tempesta fisica e dalla aridità disumana delle passioni degli uomini, dal conflitto dei loro interessi, dalla follia; e anche uno spazio astratto, “cosmico”. Il palcoscenico ha poi al proscenio un forte declivio che proietta gli attori, che vi si lasciano scivolare, verso il pubblico, obbligati dall’obliquità del ripiano a certi gesti che li scoprono.

Perché questa idea del circo? Essa deriva dallo stesso testo della tragedia, dai monologhi di re Lear che parla di «gran teatro di pazzi» che è il mondo, simile a un circo: dove ha luogo la rappresentazione della vita; ma essa deriva anche, ci pare, dalla possibilità che l’idea del circo-palcoscenico offre di “estraniare” i personaggi e la loro favola, di farli recitare dagli attori in modo sufficientemente distaccato perché gli spettatori ne prendano quel tanto (che è tanto) di significazioni estetico-morali senza identificarsi coi protagonisti e la loro vicenda, senza fruirne come di una storia per sempre vera, ma usandola criticamente.

Dunque, questo Re Lear di Strehler e dei suoi compagni vuole essere prima di tutto un discorso sul teatro, sulla comunicazione teatrale oggi, lucida, spietata, critica, ma al tempo stesso tenera, piena del sentimento ch’essa sia fatica e gioia, gioco lieve e sereno con e dopo tanta bufera. Basti pensare a quelli che Strehler chiama gli “antifinali” dello spettacolo: dei tre atti in cui la tragedia è divisa. In particolare all’ultimo, in cui, uscito di scena il superstite di tanto massacro, il giovane Edgar che conclude dicendo la famosa battuta «Non vivremo così a lungo», tradotta qui «Non vivremo in eterno», e mentre le luci di sala si sono già alzate, gli attori si levano da terra, dove giacciono simulando la morte, e si dispongono agevolmente a ricevere il saluto e l’applauso del pubblico. Nel primo e nel secondo atto è invece il lavoro dei servi di scena che legano la grande tela grigioscura, che fa da sipario, ai suoi ganci a dare il senso della pausa, che non è dunque pausa della tragedia, o non è solo questo, ma anche e soprattutto sosta nel lavoro degli interpreti e nell’ascolto degli spettatori.

La cifra dello spettacolo è semplicissima, asciutta, di un rigore formale assoluto. Non v’è scenografia; solo pochi elementi coi quali vengono costruite delle passerelle, soltanto delle panchette di legno che sono di volta in volta il trono di Lear o lo scranno della capanna in cui re Lear si rifugia. Questa fragile ligneità vuole suggerire, disposta su quel terreno accidentato e mosso costituito di vipla poliammide, la fragilità umana del potere, l’essere suo transeunte, la sua storica caducità. Ma vuole anche mantenere continuamente presente l’idea del circo, dello spettacolo fatto con niente, che gli inservienti preparano in fretta (ecco perché i cambi avvengono a vista) per gli artisti circensi che vanno a esibirsi. È fatto con niente perché il vero grande spettacolo è l’uomo, sono gli uomini, nella essenzialità delle loro ambizioni, dei loro desideri, delle loro passioni, degli odi e delle tenerezze, delle malvagie doppiezze e delle fedeltà.

Cifra semplice, si diceva: ma risultato di un accanito lavoro di ampliamento delle significazioni attribuibili al testo. Invece di seguire la via distorcente di un’unica aggressione all’opera, che ne mettesse in luce uno o alcuni nuclei semantici (come avviene spesso oggi), la regia di Strehler ha inteso cercare il maggior numero possibile di letture del Re Lear e di tradurne i risultati in modo poetico. Assunta la tragedia nella sua integrità, salvo qualche piccola modifica testuale, qualche lieve spostamento e sfilzamento (nella traduzione di Dallagiacoma e Lunari), il suo spettacolo ne tocca e ne esalta i temi come una direzione d’orchestra attenta a valorizzare una composizione musicale. […]

Certo: taluno potrà anche restare perplesso di fronte a tanta presenza di regia nello spettacolo, a tanta costruzione onnipresente nel più piccolo particolare; altri, a seconda delle preferenze personali, vorrebbe messo l’accento su questo o su quel tema. Quello che si può dire con sicurezza, ci pare, è l’indiscutibile valore poetico di tante e tante immagini di teatro che lo spettacolo crea. La scena della divisione del regno, che si svolge dietro il velario che è al tempo stesso la mappa con la geografia dello Stato, è modo poetico per separare l’antefatto della favola dalla storia vera, che comincia con la cacciata di Cordelia. L’ingresso del Fool, con la sua camminata a paro di quella di Lear. La partenza di Lear e del Fool. Il finale del primo atto. Nel secondo atto, il bellissimo momento in cui il Fool per gioco prende la veste regale di Lear, e poi, uscendo di scena, la lascia cadere e vi dà dei calci. Tutta la sequenza di Lear nella tempesta, e la marcia nella landa.

Arturo Lazzari, “l’Unità”, 7 novembre 1972

Tra tradizione e ricerca

Alla fine del Re Lear, nello spettacolo diretto da Giorgio Strehler e andato in scena ieri sera al Piccolo Teatro, quando la tragedia precipita verso il suo epilogo e già per terra privi di vita giacciono i corpi di Regan, Goneril ed Edmund, quando cioè si è appena compiuta l’ecatombe dei malvagi, un taglio s’apre, con un rumore di tela lacerata, nel tendone che fa da fondale allo spazio scenico; e nella spaccatura appare il vecchio re con la spoglia inanimata di Cordelia fra le braccia. Sarà difficile per lo spettatore dimenticare quel momento; perché è il momento in cui male e dolore – con la morte della dolce Cordelia e l’impotente disperazione del vecchio, preludio alla sua fine – rientrano definitivamente nella tragedia. […]

Nello spazio unificato, nella luce forte che smaschera e rivela (demistifica, come si dice oggi) dei riflettori da ventimila, i momenti culmine della tragedia si incidono netti e spietati, diventano modelli, esempi dell’angoscia e dello smarrimento umani ridotti all’essenza, poche linee, un contorcersi insensato di amebe sotto una potentissima lente. Così, per fare soltanto un esempio, tutte le sequenze della tempesta, passo classico del Lear, metafora che sempre si rinnova, hanno di realistico (per modo di dire) soltanto l’avvio, con fumo, scintille e lampi. All’inizio del secondo tempo, il sipario nero a forma di trapezio, che agganciato alla ribalta blocca ancora le immagini, ci appare scosso da un vento furioso; ma, aprendosi la scena, d’un tratto, tac, la luce si ferma, un lampo si immobilizza in un istante eterno ed è il silenzio. In quel silenzio, il delirio di Lear.

Per rappresentare l’altra storia che si sviluppa nella tragedia, accanto a quella del vecchio re che impazzisce, delle sue figlie-lupe e della dolce Cordelia, la storia dell’ascesa di Edmund il bastardo ai danni di Edgar, il figlio legittimo di Gloster, la chiave registica fa scattare lo spettacolo verso tutta un’altra dimensione. Questa storia di buono e malvagio, questi accadimenti romanzeschi e artificiosamente teatrali sfilano a ridosso della platea, su un’esile striscia di proscenio al di fuori della simbolica landa; e vengono recitati con irruenza “rinascimentale”, con un vitalismo allegro e scoperto; ma tagliati con la luce ironica e patetica degli “archi”, i riflettori a carbone che servono di solito per il teatro di varietà. Così, l’alto manierismo del regista, ricorrendo a questo suo prediletto “segno”, separa l’artificio del dramma dalle essenzialità della tragedia.

Alle immagini, così diverse, su cui lo spettacolo è strutturato, si integra la recitazione, in cui si riconoscono fasi distinte; da quella cerimoniale e quasi parodisticamente liturgica della prima sequenza, quando Lear celebra, dietro un velo che crea un’iconografia fiabesca, il rito della divisione del regno; a quella volutamente gonfia e barocca del re e degli altri vecchi in tutta la prima parte (vi si oppone la recitazione fredda e tagliente dei giovani, vestiti di cuoio e pelle nera). Poi la recitazione di Lear e Gloster si essenzializza, brucia nel barbaglio della verità, cadono i roboni regali (e un po’ pagliacceschi) e nella landa della follia la vocina del Fool-Cordelia è un filo delicato e agro di flauto. Questa sovrapposizione di due personaggi, Cordelia e il Matto, sulla stessa attrice, l’identificazione d’una tenerezza assente e respinta con una presenza infantile che è insieme ilare e patetica, si può rifiutare? Essa toglie mordente “filosofico” alle parole del Matto, è indubbio: ma dà a questa immagine un lievito misterioso, ne fa una farfalla uscita dal grembo di quella “filia-mater” che è Cordelia.

È uno spettacolo, insomma, alto e complesso, in cui le immagini, per splendide che siano, non derivano mai da una emozione soltanto estetica. Vi si sperimenta con eccellenti risultati un’unificazione di tradizione e ricerca, nella semplicità ed essenzialità dei mezzi adoperati. […]

Tino Carraro è un Lear così staccato dalla tradizione, quella italiana almeno; ma insieme così impetuoso e protervo nella prima parte e così moderno, asciutto, livido e tragico poi: un culmine di lavoro, certo. Subito accanto a lui vorremmo citare Renato De Carmine per il suo Gloster, così dolorosamente approfondito. E poi il vitalissimo Giuseppe Pambieri e l’intenso, mimetico Gabriele Lavia nei due personaggi contrapposti di Edmund e di Edgar; e Carlo Cataneo che è un assai umano Kent […]. Ottavia Piccolo realizza assai bene la difficile simbiosi, su se stessa, di Cordelia e del Matto; e diremmo che nel personaggio del piccolo clown fanciullesco e malinconico dà il meglio. […] Le poche musiche di Carpi risultano come sempre funzionali e suggestive. I pezzi composti a suo tempo per I giganti della montagna e qui riproposti servono al regista per stabilire una continuità di discorso e una meditabonda citazione di se stesso. Il successo è grande.

Roberto De Monticelli, “Il Giorno”, 7 novembre 1972

La parabola dell’uomo in viaggio attraverso l’assurdo

Poche volte si era visto uno spettacolo di Strehler così spoglio. Per tutta scena, Frigerio gli ha provveduto un tendone di color violaceo scuro, teso sul fondo in forma di semicerchio che si apre al boccascena e si restringe verso l’alto in vaga forma di cupola: per terra, stilizzati grumi di una terra in cui si affonda, e di cui ci si sporca. L’arena di un circo? Il primordiale paesaggio di una waste land che potrebb’essere di Eliot o Beckett? Forse il riferimento al circo è più vicino, sebbene non vada preso in senso letterale. Quest’arena, questo cerchio che al posto del sipario ha una vela che viene a ormeggiarsi alla ribalta, invaso o tagliato da luci anch’esse violacee e crudeli, popolato da volti gessosi e da immagini lunari, è forse proprio il medievale theatrum mundi dove non c’è bisogno di arredi e dettagli figurativi. Gli attori appaiono in costumi da trovarobato appena arieggianti i clown, oppure in cupe tenute nere che potrebbero essere d’oggi. L’effetto è sconvolgente: mai è sembrato di giungere così vicini alla chiave della realtà come in questo totale abbandono delle abitudini realistiche. […]

Sullo sfondo di questo che potrebbe essere un paesaggio di prima della creazione o di dopo la decomposizione del mondo, il Lear di Strehler è la parabola dell’uomo in viaggio attraverso l’assurdo, la conquista della chiaroveggenza attraverso la sofferenza e la follia.

Renzo Tian, “Il Messaggero”, 7 novembre 1972

Una dimensione nuova e universale per la tragedia di Shakespeare

Addio, dunque, all’immagine di un Lear grondante di candide chiome e di fluente barba come un patriarca biblico, addio fittizie regge e addio bosco da fiaba per bambini cattivi: da questa sera la tragedia di Shakespeare si imprimerà nelle nostre menti di spettatori in una dimensione nuova e insolita, una dimensione universale, di un universo tragicamente irreale, tragicamente senza tempo e senza confini. Il desolato universo, forse, nel quale Estragone e Vladimiro macerano la loro lunga inutile attesa di Godot.

[…] Non appena il sipario simile a una vela tesa su un invisibile oceano si leva con uno strappo secco, è proprio un circo-mondo quello che si presenta, in una luce assurda, irreale, all’occhio dello spettatore. Il cielo è simile a un tendone, il trono è uno sgabello, il terreno sul quale Lear e le sue figlie e la sua corte si muovono fa pensare a una molle, vischiosa fanghiglia cosparsa di ghiaietta nera, scintillante al taglio dei riflettori spietati. Un tappeto di gommapiuma come potrebbero averne bisogno acrobati e clown per attutire i loro salti, le loro capriole.

È in questa distesa sconfinata che più tardi fortezze e castelli, rocce e prigioni saranno costruite via via, a vista, da rozze passerelle, da assi che diventano a volontà lettighe e muraglie. E solo in parte i personaggi escono da questo cerchio illusorio per venire sull’avanscena ad annunciare le loro trame o i loro (rari) scatti di generosità oppure, unicamente nel caso del Matto, discendono addirittura in platea. Per il resto, è là, in quella superficie deserta e infinita che la tragedia si svolge, fluviale, come una parabola della natura.

Chi è Lear, per Strehler? È la vecchiaia dell’uomo: l’uomo che non avverte il mutare dei tempi, che ancorato ai miti della sua giovinezza […] viene travolto fatalmente dall’annientamento di ogni suo credo. Tanto travolto da non comprendere nemmeno che il rifiuto di Cordelia alla diplomazia della menzogna non vuol dire disprezzo o scarsità di amore, ma soltanto chiarezza di vedute.

Cordelia: Strehler l’ha spogliata di ogni echeggiamento patetico o pseudopatetico e con una invenzione registica di rara audacia ha addirittura affidato alla stessa interprete di Cordelia – Ottavia Piccolo – il compito di dar vita al Matto, per sottolineare come questi due personaggi lontanissimi fra loro nella struttura drammatica non siano che due aspetti di una medesima verità: di una medesima bontà. Forse, anche, di una medesima giovinezza che “vede” più chiaro della vecchiaia.

[…] Questo Re Lear non richiederebbe una recensione, ma un saggio, tanto è vasta la sua portata, tanto è potente il suo linguaggio scenico. Strehler ha profuso a piene mani non solo la propria grande personalità, ma ha usato, come un maestro sa usare, il frutto di lezioni disparate per rifonderlo in una unitaria e potente struttura tragica. Non è un caso che, nonostante l’estrema lunghezza della rappresentazione, il pubblico sia rimasto inchiodato, affascinato, immemore del tempo e dell’ora.

Certo, al successo, che è stato immenso, con chiamate interminabili e applausi a scena aperta ripetuti ed evocazioni alla fine, hanno concorso in modo sicuro sia la lucida traduzione di Angelo Dallagiacoma e Gigi Lunari, sia la scena e i costumi (atemporali anche questi, con un significativo moderno predominio del cuoio) di Ezio Frigerio e le musiche di Fiorenzo Carpi, di struggente bellezza.

Paolo Emilio Poesio, “La Nazione”, 7 novembre 1972

Con gli occhi sbarrati a contemplare il baratro

Tornato alla direzione del Piccolo Teatro di Milano, Giorgio Strehler ha aperto la stagione con una stupenda messinscena del Re Lear di Shakespeare. Dai tempi delle Baruffe chiozzotte o dei Giganti della montagna il regista triestino non dava di sé una prova di questo livello. […]

Strehler ha “sofferto” questa messinscena shakespeariana come forse mai gli era capitato durante la sua lunga carriera, pur così segnata dal travaglio artistico e umano. La storia del potente re che, giunto all’età della vecchiezza, decide di abdicare in favore delle tre figlie e a ciascuna chiede una prova del loro amore e della loro devozione, ma solo da una delle tre riceve sincere parole di affetto, mentre le altre due lo adulano ed egli crede a queste ultime, perché abituato all’adulazione cieca, e proprio da esse subirà tutte quelle prove che lo porranno brutalmente di fronte al crollo della senilità, questa storia dolce e terribile era, secondo lo stesso Strehler, una storia da affrontare come una prova insieme eroica e sgradevole, per meditare sulla propria “maturità”. Ma non una maturità professionale, bensì un “limite di età”, un ingresso nel territorio della paura e della riflessione, un inizio di resa dei conti, una specie di costrizione a dire in pubblico quelle cose insieme un po’ dementi e un po’ terrificanti che sono le “cose ultime”.

E già la partenza dello spettacolo disegna in modo precisissimo questa terra di nessuno (e di tutti), questa no man’s land, su cui Strehler si muoverà, con un’immagine di straordinaria bellezza: l’interno di una tenda da circo, di colore grigio cinereo che ricopre l’intero fondale della scena, e Tino Carraro nelle vesti di re Lear, che viene verso il proscenio in un improvviso lampo di luce e grida la sua decisione di dividere il regno tra le figlie. […]

Una partenza sul filo dell’Opera dei pupi, con una recitazione inizialmente esposta, immagini un po’ di cartone. Cordelia, la figlia “buona” sarà la prima a “uscire” da questa specie di tela dipinta in cui si muovono gli attori per entrare nello spazio dove domina la luce naturale. Quando rifiuta l’adulazione e pronuncia verso il padre parole non tradizionali e non cortigianesche, spezza subito la fissità dell’immagine, rompe la brillantezza della luce color di acciaio nella quale erano avvolti i personaggi. […]

Strehler ha lavorato su Tino Carraro in maniera grandiosa. Il primo scontro tra Lear e Goneril, la prima “sorpresa” di fronte all’ipocrisia della figlia, è magistrale. Da questa scena in avanti Carraro offre certamente la prova attoriale più alta della sua carriera di attore. Davanti alla rivelazione della malvagità della figlia, Lear appare come un vecchio maniaco, ancora stupidamente superbo della sua condizione regale, ma insieme isterico, meschino, collerico. La sua illusione di rimanere quello che era prima, dopo l’abdicazione, è profondamente idiota. Goneril ha gli accenti di una serva villana in rivolta contro la padrona solo per appropriarsi dei suoi beni. Ed è, questa, la più profonda illuminazione della regia: l’abdicazione non come atto volontario di rinuncia, ma come una caduta inconscia e necessaria. […]

Tutto accade come in una specie di intimità grossolana che rende forse ancora più allucinante lo sgretolamento della ragione di Lear. Carraro-Lear dice battute di compromesso, chiede alle figlie una pensione, le adula un po’ anche lui, si umilia, poi si lamenta, non capisce (non capisce la propria età, non l’egoismo filiale). Strehler per un po’ gioca una storia acida, umiliata, come uno strip da giornale della domenica, della eterna suocera che cerca di infilarsi in ogni modo nella casa del genero (c’è persino la battuta, detta in modo “idiota”: «Non darò più fastidio!»). Per un po’, più che a un dramma del padre, assistiamo al dramma del suocero e questo immiserimento volutamente volgare è, tuttavia, il modo, direi, “brechtiano” che Strehler mette in atto per scatenare la follia che Carraro riesce a darci come un tragico scontro della ragione con la realtà della morte, del vuoto improvviso, del gelo davanti all’incognito. Ecco, la impreparazione stupida del potente davanti ai sentimenti umili, alla solidarietà umana, all’aiuto reciproco è il motivo di questa “caduta della ragione”, che Strehler fa compiere al re in momenti progressivi di abbattimento della impalcatura regale: i rapporti di Lear con il Matto, con Kent truccato da servo, con il nudo Edgar (il «povero Tom»), truccato da pazzo mendicante per sfuggire all’ira ingiusta del vecchio e ingannato Gloster, seguono via via la strada verso la conoscenza che è la vera, grande morale della lettura shakespeariana di Strehler. Quindi, niente follia romantica e scatenamento delle passioni, ma ricerca della verità “caduta” verso la solidarietà e la comprensione. Il gioco delle passioni (le figlie malvagie, Edmund, i mariti) si svolge “fuori” del circo-mondo in cui si muovono Lear, Gloster, il Fool, Cordelia, Kent. E questa è un’altra geniale intuizione registica.

E il progressivo avvicinamento alla coscienza della enormità del problema è sottolineato dalle “fermate” che l’uso dell’immagine gli consente. Tutte le tappe fondamentali attraverso le quali Lear passa nel suo rotolare verso la morte sono gelate dall’allucinante illuminazione cinerina che ferma i personaggi in immagini da teatro Nō o in levigate serigrafie dove il tempo scardinato da ogni riferimento storico non è tuttavia abolito, anzi, è reso ancor più pesante e ossessivo. Il tempo di queste immagini sceniche strehleriane acquista la dimensione dell’allucinazione e dell’incubo. […]

Dalle ferme immagini dolorose dell’Albergo dei poveri egli giunge oggi a questa allucinante pittura della follia che non è urlo e disperazione, ma occhio fermo e sbarrato, equilibrio prodigioso su un filo di rasoio, baratro contemplato. E, scenicamente, la grande novità teatrale che Strehler ci offre è questo lavoro sull’immagine, la cui fisicità terrificante costituisce uno stacco netto dal suo lavoro passato.

Edoardo Fadini, “Rinascita”, 10 novembre 1972

La pura tragedia nella sua più assoluta astrazione e delirio

Cos’è dunque Lear? Cos’è nell’idea di Strehler? È la tragedia pura nella sua più assoluta astrazione e delirio, è coscienza della vita e dunque del dolore, ma anche indicazione di rapporti dai quali nasce il destino. Nell’opera di Shakespeare forse più esposta al rischio della “macchina”, Strehler individua il segno libero della parola e attraverso la costante della pazzia fa lievitare il dolore dell’uomo. Ma non dimentica che nella visione più ravvicinata, dove ogni dettaglio è visibile, anche il Lear scopre l’antico gioco dei potenti, il loro modo di salire a cavalcioni della storia e di sfidare la natura.

Il riferimento non viene a caso. Le radici più lontane di questo Lear sono proprio nella grande impresa del Gioco dei potenti (e, per esempio, in quella pedana ottagonale, premessa della pista del circo) […].

Come sempre, in Strehler, il palcoscenico (che non è più palcoscenico ma luogo di testimonianza: proprio come nel Lear, «questo grande palcoscenico di pazzi» che è il mondo ma anche quel luogo, lì dove lo si rappresenta) è lo spazio dove tutto si consuma e dove ogni idea e immagine prende vita e significato.

E allora eccolo, quel palcoscenico! Una landa infernale dove gli attori procedono con fatica affondando come nel fango; ma è finzione certamente, e infatti cosa c’è intorno? Ecco ben teso il tendone di un circo che fa da fondale e chiude per tre quarti la scena. Dunque quella landa è una pista intrisa di segatura e quegli attori sono eroi di un gran circo; e i costumi della prima parte, regali e principeschi, sono infatti clamorosi e ridondanti e il Matto del re veste quasi come un “augusto” (del resto tutte le soluzioni sono di un teatro dichiarato: dal velo-sipario dietro il quale si fa la distribuzione del regno tra le figlie di Lear; al salto del vecchio Gloster che il figlio accompagna su una specie di altalena da dove spiccare il balzo che crede lo sbatterà giù dalle scogliere di Dover; alla diversa composizione del materiale che, disposto come precario praticabile sulla pista, difende i potenti dal contatto col fango o, cedendo, ve li precipita).

Ma quando il gran teatro ferma la sua macchina, nella sospensione lancinante che ne deriva, esplode la condizione dell’esistenza; la nudità da mendicante di Lear determina il segno della tragedia, il suo delirio («urlate, venti…») risuona in uno spazio senza confini, le sue riflessioni sulla responsabilità verso i “poveri” hanno la cadenza di una confessione religiosa. E alla fine della tragedia, quando i malvagi sono caduti nelle loro stesse trappole e l’inimmaginabile sembra già tutto avvenuto, ecco, si squarcia il gran telo e Lear avanza con la morta Cordelia tra le braccia. E questa morte, che la stessa tragedia sembrava non poter contenere, rientra nella tragedia con un segno di dolore umano, che nessuno dimenticherà, solo che abbia inteso la rappresentazione come tempo di emozione e di riflessione.

[…] Re Lear di Strehler è uno splendido, emozionante spettacolo, e insieme un atto fondamentale nella verifica dello stato della nostra cultura teatrale, appunto perché Strehler non ha dimenticato che ogni tempo di ricerca va finalizzato a una esigenza di comunicazione, e che raccontare agli uomini i sogni, le allucinazioni, i fantasmi della loro coscienza, insieme con la verità della loro condizione, è più che mai il compito del teatro d’oggi.

Mario Raimondo, “Avanti!”, 12 novembre 1972

Tra Fellini e Bergman

La vicenda di Lear è illuminata, fino a effetti di abbacinante crudezza, dai grandi archi detti “bruti” che si usano nel cinema; la vicenda parallela di Gloster, qui valorizzata contro ogni abitudine come “second story” speculare al dramma principale, si svolge invece per lo più in ribalta, fra due tagli di riflettori mobili a carboni, e con le luci di sala accese come per un avvertimento-coinvolgimento (quel bastardo crudele assetato di rivincita e di potere siede accanto a noi o dentro di noi). Alla metafora mondo-circo rimandano anche i pochi arredi scenici (il trono-sgabello, i praticabili, la passerella a bilanciere che finge la roccia di Dover, il rodeo in cui si consuma l’ecatombe finale); e lo stesso si può dire per i costumi, che sono fantasiosi con tristezza, straccioneschi per ricordare che il potere intorno al quale si contende è effimero, poveristici fino alle tele di sacco che ricordano l’arte di Burri, del resto evocata anche dal sipario e dallo chapiteau.

Il mito del circo come spettacolo assoluto, nell’accezione più aperta possibile, si ripresenta con sintomatica frequenza nelle messinscene degli ultimi anni […]. Forse però Strehler ne ha maturato la sua particolare versione, che è spoglia e allusiva ai limiti dell’onirico, come compagno di strada di Fellini (le apparizioni felliniane abbondavano intorno alla villa della Scalogna nei Giganti); e si potrebbe magari cogliere un riferimento all’autore di Roma anche nei costumi che diversificano i vecchi, sbrindellati e pagliacceschi, dai giovani: i due fratelli nemici Edmund ed Edgar sono vestiti di cuoio e pelle come i blousons-noirs e come i motociclisti che sfregiano i monumenti della Città eterna nell’episodio conclusivo del famoso film. C’è senza dubbio il segno di una condizionata e un po’ sospettosa fraternità d’arte, ma soprattutto la costante passione del triestino per il cinema. Chi sa vedere può cogliere infatti nel Re Lear un chiaro omaggio al Bergman del Settimo sigillo: la catena che formano Lear, il Matto, Kent ed Edgar è una citazione della sarabanda finale di tutti i personaggi al seguito della Morte.

[…] La grande sequenza della tempesta, che domina la seconda parte dello spettacolo, è una tragedia nella tragedia. Dopo aver mostrato la sua stregonesca capacità di rappresentare quasi realisticamente una tempesta (nella breve introduzione fra Kent e il Gentiluomo vediamo scatenarsi l’«orribile tempo» dietro le aperture del sipario ancora abbassato), Strehler ferma l’odissea di Lear in un lampo di luce accecante e lunghissimo. Episodio sempre temuto dagli interpreti, in cui il pubblico può misurare tutto lo scarto fra la potenza dell’intuizione tragica e la miseria dei tuoni teatrali fatti tra le quinte con la lastra di bandone ieri, oggi con il magnetofono: nello spettacolo del Piccolo il momento più alto della serata è la tempesta interiorizzata nella mente del personaggio di Lear. […]

Lo stile dello spettacolo si adegua con una duttilità insolita in Strehler alle diverse stratificazioni del testo, tanto che riesce a evitarne le insidie. Per esempio la prima scena, quella del love test che è sempre stata considerata quasi insostenibile dagli interpreti di tipo psicologistico […]: ecco dunque che Strehler lo fa recitare come all’opera dei pupi. Siamo all’incipit di una fiaba vista dietro un velo: il siparietto brechtiano a mezza altezza è diventato un trasparente di garza che si finge la mappa del regno. Quando Cordelia viene cacciata per la sua sincerità, passa al di qua del velo nero in ribalta; poi nella sua furia Lear lacera il velo a metà (la divisione del regno in due parti, sottolineata anche dallo sdoppiamento della corona di cartone dorato) e in coda alla scena prende addirittura a calci lo sgabello-trono.

In uno spettacolo che stimolerebbe continue note a piè di scena […] è possibile ricordare i mutamenti di registro solo rapsodicamente. Nella scena di Edgar in fuga, quando decide di trasformarsi nel «povero Tom», Strehler fa spogliare l’attore Lavia completamente nudo a conclamare la miseria e la solitudine: si pensa figurativamente a Grotowski (e non è il solo ammicco all’avanguardia di questo regista che qualche disinformato accusa di conservatorismo), ma vengono in mente anche certe classiche anatomie di Géricault e perfino le immagini fotografiche dei campi di sterminio.

A ricordarci che Re Lear è una tragedia elisabettiana, Strehler ha svolto ferocemente, diremmo con un ricordo del Titus Andronicus di Brook origine del nuovo teatro della crudeltà, le scene della tortura di Gloster, del duello fra i fratelli mascherati di bianco e del massacro conclusivo. La scansione orripilante delle uccisioni sublima il ridicolo in un’implacabile logica rituale: e la testa di Cordelia senza vita, che piomba giù arrovesciata da un taglio del tendone del fondo è una citazione di Lucio Fontana, come conferma l’opera del “maestro dei tagli” riprodotta sulla copertina del programma; ma è anche il simbolo pregnante di ciò che nasce nella coscienza di Lear un attimo prima della morte. […]

Dopo di che i morti si rialzano con semplicità per ricordarci che siamo a teatro. Forse il risultato maggiore che Strehler raccoglie con questo storico spettacolo non sono le ovazioni del pubblico e gli elogi della critica. In fondo al cammino del suo Re Lear c’è quell’amara conquista che Simone de Beauvoir sottolinea quando si dichiara stoicamente «installée dans la vieillesse». Che significa, oltre la soglia dei cinquant’anni, affrontare l’ascesa all’età di Lear avendo imparato a soffrire con gli altri, a parlare col Matto e a non pretendere di essere eterni.

Tullio Kezich, “Sipario”, dicembre 1972

Un’opera d’arte senza eguali nel panorama teatrale contemporaneo

L’inglese è una lingua tutta di consonanti, l’italiano tutta di vocali: è attraverso questa differenza fonetica che bisogna giudicare la stupenda rappresentazione di Re Lear di Giorgio Strehler, più italiano che mai, stregato dalle forme antiche di teatro (quelle dei secoli XVI, XVII e XVIII), fatte d’esteriorità e di contatto diretto con il pubblico. Per una raffinatezza suprema, a questa ricerca archeologica ha aggiunto tutte le sofisticazioni della regia moderna: oggetti di scena ellittici, illuminazione ultramoderna, spunti dai teatri orientali.

Davanti a un ciclorama grigio scuro, su cui si riflettono incendi, lampi e vapori, è a una parata da fiera e a un’opera che siamo invitati. La corona di Lear è di cartone dorato; indossa la gorgiera dei clown. Il suo Matto, interpretato dalla stessa attrice che recita Cordelia, è una reincarnazione di Giulietta Masina nella Strada di Fellini: rendigote paillettata, gibus, trucco da illustre del circo. Edmond il bastardo, d’una bellezza un po’ criminale, salta come Arlecchino, minaccia come Matamore. Nelle grandi scene della landa coperta di neri ciottoli, in cui errano il re in procinto d’impazzire, un pazzo di professione, Edgar che recita il pazzo e, successivamente, Gloster cieco, si organizza una farandola grottesca e tragica, che fa pensare ai ciechi di Bruegel o ai carnevali medievali.

Le due figlie malvagie di Lear, di cuoio vestite, indossano parrucche bianche o rosse, simili a donne-pantere che hanno divorato il loro domatore. Le scene più cruente, come quella in cui vengono strappati gli occhi di Gloster – sosia di Lear – rientrano nel dominio della prestidigitazione, di un grand guignol naïf e nemmeno sanguinolento. Le battute sono dette al pubblico. Gli attori entrano ed escono attraverso la sala: non dimentichiamo mai di essere in teatro.

Accennati così in rapida successione, gli elementi di questa messa in scena fuori dal comune farebbero pensare a un esibizionismo forsennato. Non è affatto così. Tutto è padroneggiato, teso, legato, lavorato fin nel minino dettaglio. La ricchezza, la profusione delle idee sono immerse in una idea d’assieme che fa di questo Re Lear italianissimo un’opera d’arte senza eguali nel panorama del teatro contemporaneo.

Bernard Dort, “Le Nouvel Observateur”, 14 novembre 1977

Re Lear sul piccolo schermo

Il video non privilegia i totali e il complesso teatrali, ma tende a esasperare scorci e dettagli (volti, voci, gesti, mimiche) conferendogli uno spessore allusivo che richiede solerti calibrature. Ciò che vale per la platea, insomma, può risultare alterato per il piccolo schermo.

Carlo Battistoni, che ha curato la regia televisiva del Re Lear, ha fatto miracoli. […]

Tino Carraro, ipersensibile e magistrale animale scenico, sembrava fiutare, più di ogni altro, i rischi che abbiamo esposto; da qui, la sua abilità di contenere, contenendosi, quel puledro ora scalciante, ora falsamente mansueto, comunque imprevedibile, che è il piccolo schermo. Egli ha espresso il suo sogno d’utopia, e insieme il suo rabbioso stupore per la malvagità umana, sapendo parlare sia alle telecamere che al pubblico presente in teatro. Ottavia Piccolo, che era Cordelia e il Matto clownesco, ha dinamizzato con vitalità il delimitato campo d’azione; e della sua bravura hanno dato segno alcuni particolari, valga la sua calata in platea e il successivo addossarsi l’aureo manto del potere, fingendone la gravità del fardello.

Alberto Bevilaqua, “Corriere della Sera”, 9 ottobre 1979

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