Strehler e Shakespeare

Il grande padre che spaventa e consola

È un autore esigente, quasi tirannico; chiede un impegno assoluto. Shakespeare è come uno spartiacque fra chi col teatro gioca e chi al teatro crede.
Giorgio Strehler

Già nel corso della seconda stagione del Piccolo Teatro, nel 1948, Giorgio Strehler inizia l’esplorazione del “teatro-mondo” di William Shakespeare, «l’autore – dirà – che ho rappresentato di più e con maggiore frequenza». Il primo titolo messo in scena è Riccardo II, una prima assoluta per l’Italia, il cui successo vale un invito ad allestire, nel giro di pochi mesi, La Tempesta negli spazi del fiorentino Giardino di Boboli.
Il cammino tra i titoli del Bardo prosegue poi con La bisbetica domata (1949) e Riccardo III (1950), prima di tornare, nell’estate del 1951, a due spettacoli all’aperto: la prima parte di Enrico IV, per il Teatro Romano di Verona, e La dodicesima notte per il Teatro di Palazzo Grassi a Venezia.
Dopo Macbeth (1952) e Giulio Cesare (1953), è la volta di Coriolano (1957), interpretato da Strehler come “tragedia politica”, nella cui messa in scena confluiscono suggestioni e insegnamenti brechtiani: «lo spettacolo shakespeariano più compiuto che io sia riuscito ad allestire in quel periodo del mio itinerario di regista» avrebbe dichiarato.
Nel 1965 le tre parti dell’Enrico VI vengono dal regista condensate nel Gioco dei potenti, una riduzione che «divenne quasi una riscrittura», per uno spettacolo-kolossal che nella sua versione originale durava più di sei ore: «certamente lo sforzo più grande che io abbia mai fatto come regista». Il testo, ridimensionato e tradotto in lingua tedesca, tornerà poi in scena a Salisburgo nel 1973 e a Vienna nel 1975.
Per il suo ritorno al Piccolo, nel 1972, dopo quattro anni di lontananza, Strehler accoglie la sfida di misurarsi con una tragedia considerata, fino ad allora, “irrappresentabile”: Re Lear. Per il regista si tratta, invece, di «teatro, teatro purissimo, emblematico» e, in una grande landa fangosa in cui si dibattono i protagonisti del “circo-mondo”, prende vita «il dramma dell’amore mancato, dell’amore respinto e ripreso», in un’intensa meditazione sui temi del potere, della vecchiaia, del conflitto generazionale.
Sei anni più tardi, in un periodo cupo e drammatico della storia italiana, il regista affronta nuovamente La Tempesta: un’edizione completamente diversa da quella lieve e incantata del 1948. Ed è proprio il capolavoro estremo di Shakespeare a diventare anche l’ultimo incontro tra Strehler e il Bardo.
Resta, soltanto sotto forma di promessa, l’Antonio e Cleopatra in cui, a fianco del regista, avrebbe dovuto recitare Andrea Jonasson.

Strehler ne parla

Un teatro più libero, oggettivo, aperto alla fantasia

L’epoca di Shakespeare si situa in un punto fondamentale della nostra storia, in un momento che segna la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna. Dal pari, la sua opera riassume le esperienze del teatro religioso medievale e del teatro classico rinascimentale e si pone come “summa” del passato e come solida base e precisa indicazione per il futuro. Per me, l’opera di Shakespeare – a parte naturalmente ogni considerazione sul suo significato estetico – rappresenta soprattutto l’esempio di un teatro non costretto nei rigidi e soffocanti schemi in cui il Settecento neoclassico e l’Ottocento angustamente borghese l’avevano avvilito; un teatro di forma più libera, più oggettivo, più aperto alla fantasia: caratteristiche formali, che rappresentano però la traduzione sul piano della forma di un atteggiamento sostanziale nei riguardi della realtà circostante, del modo di porsi dell’autore drammatico di fronte agli uomini, alle vicende, ai problemi del suo tempo, e che è d’esempio e di stimolo per un analogo modo d’essere di regista, di attore e via dicendo. Evidentemente è difficile dire fino a che punto il fatto che io ricerchi, nella mia attività, allestimenti oggettivi e demistificanti, aperti così alla “verità” storica come alla trasfigurazione poetica (in pieno accordo reciproco delle due cose), sia diretto insegnamento shakespeariano o sia spontanea e autonoma aderenza a un modo d’essere che a mio avviso è il solo oggi possibile; tuttavia, innegabilmente l’opera di Shakespeare si pone come altissimo esempio, come punto di partenza di un cammino ideale che tocca tutti i grandi momenti della storia del teatro.
Per ciò che riguarda l’importanza di Shakespeare nella nostra epoca, io non posso che rispondere generalizzando ciò che ho già detto dell’importanza di Shakespeare nella mia opera. Dell’attualità di Shakespeare – e cioè del suo modo di essere autore – io trovo la prova più significativa e lampante nel fatto che l’equivalente contemporaneo di questo modo d’essere è rappresentato dall’opera e dalla figura del maggior autore del nostro tempo: Bertolt Brecht. Oggettività demistificante, rigorosa aderenza alla realtà storica e scientifica, aperto senso di poesia: tratti comuni ai due autori che sottolineano una continuità ideale non certo frutto del caso, ma prova evidente della giustezza di scelte autonome ma confluenti.

Dattiloscritto senza titolo, databile al 1964 – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Il grande padre che spaventa e consola

Shakespeare è il grande padre che spaventa e consola. È stato alle mie spalle con severità e dolcezza. È stato la misura del limite da toccare. Non credo che mi sia concesso di andare più in là, per esempio, della Tempesta. E non è certo un caso che, nel lontano 1948, il testo-spettacolo che ha segnato la prima affermazione del Piccolo Teatro sia stato Riccardo II e, qualche mese più tardi, una ingenua ma magica interpretazione della Tempesta, allestita in poche settimane, all’aperto, nel Giardino di Boboli, con la divina incoscienza della giovinezza.
A Shakespeare devo le mie angosce più fonde, le mie conquiste più vere e più formative. Una parte delle poche gioie che il teatro mi ha dato, dentro nel cuore, tanto egli ci sorpassa sempre, tanto egli ci mette al “nostro” posto di interpreti, spesso disarmati, umili sempre, di fronte alla sua grandezza.

Shakespeare, Goldoni, Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Piccolo Teatro, 1984; nuova ed. Milano, Il Saggiatore, 2022

Inscenare Shakespeare: un’operazione critica

L’interpretazione di un’opera di teatro è – per me – un’operazione fondamentalmente critica (e per “critica” sarebbe ora, al punto in cui siamo, di finire di considerarla solo “filologia” o lo studio pedante di un testo, e accettare invece il termine di critica come implicante anche una larga misura di intuizioni, di slancio emotivo, di amorevole rapporto del cuore. È in fondo l’equivoco, spesso del tutto cosciente, che viene operato col falso problema della ratio e della emotio a proposito del teatro epico-dialettico brechtiano).
L’interpretazione, la messinscena è allora un’operazione critica, scritta con il materiale del teatro, con tutto il materiale del teatro, su un palcoscenico (e palcoscenico è dovunque: dovunque da una parte o da un lato o più lati ci sia della gente che propone teatro e dall’altra parte altra gente che – in piedi, seduta, o deambulante – lo ascolta o lo vede), a una certa ora di un certo giorno, e che presuppone un’altra operazione critica iniziale che poi continua e si chiarifica, si precisa nel “lavoro di teatro”. Un lungo lavoro che dovrebbe costare “la fatica” che costa – che so – lo scrivere un lungo saggio – o più saggi – su un’opera di un determinato autore. Tanto più faticosa e tanto più complessa quanto più grande è il peso specifico dell’opera cui ci si riferisce, dell’autore che l’ha scritta.
Nel caso di un testo in lingua straniera, la prima operazione critica non può non essere quella della traduzione. Mi sentirei di affermare che una grande parte del “lavoro critico” della regia, in questo caso, è strettamente legato al problema della traduzione. I due atti costituiscono o dovrebbero costituire una unità profonda. Poiché la traduzione, oltre che a una scelta della lezione filologica possibile e oltre allo stabilire la realtà spesso controversa del testo, implica una realtà ritmico-testuale tesa a realizzare o a consentire un ritmo drammatico fondamentale proprio per coloro che diranno per il teatro certe parole e non altre, in un certo modo e non in un altro. La traduzione, sotto questo profilo, implica una serie di scelte drammaturgiche implicite di cui lo spettatore non può fare a meno, come non può e non potrebbe farne a meno il traduttore. Il rapporto traduttore-regista è perciò, in questo caso, estremamente complesso, difficile e di primaria importanza, pensando evidentemente a una “interpretazione di tipo critico”. Il punto è sempre questo. L’altra operazione critica, che non è “successiva” (niente è successivo nel lavoro dell’arte, tutto si svolge su piani contemporanei che si intersecano continuamente), può essere la ineluttabile scelta del “punto di vista”; quello che Brecht ci insegnava essere “il fatto storico”, il rapporto dell’opera testuale “di un tempo passato” (se di opera del passato si tratta) con il “tempo presente”. È un’operazione dialettica, che implica ideologia e storia, indagine contenutistica e formale, e che presenta i suoi grandi pericoli: il primo è quello dello schematismo, della facilità ideologica, quello dell’arresto della totalità dell’opera d’arte al suo aspetto di contenuto ideologico o alla forzatura del suo contenuto ideologico per piegarlo a un certo punto di vista. Ricordo molte ore passate con Bertolt Brecht in discussione sul Coriolano […]. Brecht ci metteva sempre in guardia contro “la comodità dell’ideologia” e noi giovani allora severamente “impegnati” finivamo talvolta per trovare “troppo permissiva” (cioè troppo dialettica, alla fin fine) la lezione del nostro vecchio maestro dal sorriso cinese. L’arte del dubitare e dubitare attivamente, per noi, doveva arrivare più tardi. Devo dire che per molti non è mai arrivata

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

Inscenare Shakespeare: l’approccio dei registi contemporanei

Io non credo che esista un’opera di teatro “irrappresentabile”, anche se credo che molte opere risultino “irrappresentabili” perché rappresentate male, perché rese equivoche dalle interpretazioni più varie avvenute nel tempo, pedanti o bizzarre che siano. Non credo che ci sia un qualche cosa “fatto per il teatro”. E ha ragione – nel suo paradosso – Agostino Lombardo nel suo saggio critico su Lear, non in quanto esprime una critica “favorevole” su un lavoro compiuto da me, ma in quanto segna la realtà profonda della teatralità tanto spesso negata o messa da parte dai sapienti: Lear tragedia irrappresentabile o illeggibile?
È chiaro che la mia non vuole essere una “lezione”, seppur sommaria, sull’arte o sul mestiere della regia, né una dichiarazione di principi. Ho perso da molto tempo il gusto delle teorizzazioni sul teatro. Ma mi è sembrato corretto cercare di definire un punto di vista generale sulla “messinscena” per accennare un certo rapporto che, nel lavoro di teatro che io ho compiuto, è esistito tra me e il teatro di Shakespeare. Si tratta evidentemente di qualche appunto personale, sul filo dell’esperienza passata e della memoria, ai margini di un’esperienza presente, quella della Tempesta che sto provando in questi giorni e che, come sempre ma più di sempre, mi sconvolge con l’immensità dei suoi problemi e delle sue implicazioni. Molto spesso, davanti a qualcosa come La Tempesta, la sensazione di umiltà che mi accompagna nel lavoro di teatro da sempre si trasforma in una constatazione di impotenza. L’interprete, insomma, appare troppo piccolo di fronte alla vastità dell’opera, che resta il suo unico punto di riferimento e che lo squassa da cima a fondo a ogni passo. Forse, per questo cosciente (ma più spesso incosciente) senso di impotenza, il teatro di Shakespeare è stato da tutti voltato e rivoltato, usato e troppo spesso massacrato dalla nostra contemporaneità, per limitarci a un tempo storico che ci appartiene e per non risalire agli autori della Restaurazione che lo hanno riscritto e inscenato come essi avrebbero voluto che Shakespeare fosse. Questa metodologia, che ci appare brutale, purtuttavia ha un riscontro continuo nel tempo e oggi, ieri e oggi, un numero infinito di interpretazioni shakespeariane nel mondo ci testimoniano una uguale e forse molto più barbara riscrittura, priva persino di un certo stile del teatro di Shakespeare; quando non la sua riduzione a fonema, a ictus, a irrisione cosiddetta dissacratoria, o a puro gesto: parlo qui non del gestus brechtiano, ma del semplice dimenamento delle membra (in genere, per demistificazione, nude).
Shakespeare accompagna tutta la nascita del teatro contemporaneo e della regia contemporanea nei suoi diversi momenti stilistici, da Reinhardt a Peter Brook. Ma per un Sogno di una notte di mezza estate di Peter Brook, che io ho trovato così straordinariamente restituito a noi, così inventato e al tempo stesso profondamente fedele, c’è un cumulo di infamie e di orrori, da una parte, un cumulo di Otelli-King Kong e Desdemone ed Emilie lesbiche (come ho avuto la sventura di vedere, tempo fa, in Germania), un cumulo di spazzatura shakespeariana con danze o misere immagini dentro spazi spacciati per nuovi e travolgenti; Lear e Riccardi e Giuliette e Prosperi e Mirande in mutande. Dall’altra, spettacoli shakespeariani del tutto formalistici, secondo i canoni del balletto o dell’opera lirica (tipiche, in questo senso, molte interpretazioni inglesi di Shakespeare in questi ultimi trent’anni e dalle quali non sono assenti anche i più grandi della scena inglese, Olivier e Gielgud inclusi, spesso, anche se non sempre). Spettacoli shakespeariani visti un poco come “affresco” e gioco di caratteri: i due giovani che si amano, il vecchio padre tradito dalle figlie cattive e che impazzisce, il biondo principe che dubita e così via. In mezzo, una piccola folla di spettacoli validi, anche se inquadrati o da inquadrare nel loro esatto tempo storico, alcune interpretazioni “in abiti moderni” (per esempio quella all’Old Vic dell’Amleto, quella di Orson Welles del Giulio Cesare in camicia nera, fortemente storicizzato su un versante quasi unico, ma allucinante), qualche interpretazione teatrale o riduzioni di Bertolt Brecht e il Coriolano del Berliner Ensemble, non allestito direttamente da Brecht, ma certamente nato da una diretta lezione brechtiana, forse uno degli spettacoli più importanti realizzati con un testo di Shakespeare. Altri tentativi di ricerca parziale, di “capire” Shakespeare non come nostro contemporaneo secondo Kott, ma come qualcosa in rapporto alla nostra contemporaneità.
E a proposito di Kott e del suo straordinario e provocatorio (volutamente provocatorio) libro [Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1964, ndr], quanti equivoci e quanti alibi si sono creati, quanta facilità di atteggiamento ne è nato, per tanti che hanno tramutato alcune intuizioni folgoranti di cui siamo debitori a Kott in altrettanti moduli stilistici, cioè “mode”, cioè “abitudini di comodo”, appunto, per capire Shakespeare.
Se mi domando, ora, dove si possa situare il mio lavoro diretto su Shakespeare in tutti questi anni non so come rispondere. Mi diceva Vilar, una sera, anzi lo diceva a Paolo Grassi che in un camerino ci spingeva ad andare a vedere come stava andando, sul palcoscenico di un teatro di Milano, il Cid di Vilar con Gérard Philipe, mentre noi volevamo chiacchierare, evidentemente, sul teatro e basta; diceva allora Vilar: «Mais, Paolo, nous le faisons le théâtre, nous n’allons pas le voir!», o qualcosa del genere. E, per lo stesso motivo, noi siamo i peggiori critici di noi stessi, forse più di molti altri, perché il teatro è molto più esclusivo e non si scrive né si dice mai. Ma certamente so la mia volontà nell’avvicinarmi a Shakespeare: innanzitutto una estrema disponibilità a cercare di capire al meglio e il più possibile la realtà del testo a cui mi riferivo.
Penso che, più o meno, i risultati non siano andati molto al di là di ciò: sempre al di qua del testo, ma nemmeno mai contro il testo o a dispetto del testo. Forse, tra le molte critiche che ho avuto modo di ricevere, quella più ingiusta mi è sembrata quella di un critico francese de Le Monde in occasione del Lear recentemente realizzato a Parigi, dove si parlava di una mia lettura primitiva, a senso unico, priva di “profondità”; credo che si parlasse di «à la surface». Ebbene, questo mai. Mai «à la surface». Mai alla ricerca del facile, del comodo, dell’idea registica che “piace”, sempre nello spasimo del profondo, mai del gioco, mai della divagazione, mai del gratuito.
Credo veramente che Shakespeare, appena appena lo si avvicini con una media disponibilità di cuore, richieda a noi un assoluto impegno, una ricerca di verità molto fonda, di rapporti molto densi, e domandi una meditazione totale, sul mondo e sulle cose, estremamente ricca e sempre coinvolgente. E che in questo senso Shakespeare diventi anche una specie di spartiacque tra chi sul teatro gioca e chi al teatro crede invece come a una forma insostituibile di Verità e Poesia.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

Riccardo II, il mio primo Shakespeare

Tra il 1947 e oggi […] ho allestito dodici opere di Shakespeare, nei primi anni con un ritmo costante, poi a intervalli più larghi. Il catalogo è il seguente: Riccardo IILa TempestaLa bisbetica domataRiccardo IIIEnrico IV, parte primaLa dodicesima notteMacbeth – Giulio CesareCoriolanoIl gioco dei potenti (le tre parti dell’Enrico VI) – Re LearLa Tempesta (escludendo, ovviamente, i riallestimenti che, talvolta, sono stati in effetti edizioni critiche aggiornate e spesso molto mutate).
Dunque, Shakespeare, l’autore che ho rappresentato di più e con maggiore frequenza e – almeno da questo punto di vista – non è esatto classificarmi come un regista che fa solo Goldoni e Brecht. Perlomeno c’è anche Shakespeare. Sia come sia, mi dico che questa “triade” comunque non sia poi da “buttar via”. Nel catalogo personale, noto una certa preponderanza dei drammi storici e politici in senso largo, una minore presenza delle commedie, l’assenza di molti capolavori, dall’Amleto a Romeo e Giulietta, a Otello, tanto per citare qualche titolo famoso. E c’è un curioso aneddoto segreto. Nella stagione 1947-48 decisi di tentare Misura per misura, feci preparare una nuova traduzione e iniziai le prove con la Compagnia del Piccolo (allora c’erano Lilla Brignone, Santuccio, Randone, insieme a molti altri). Non si andò al di là della lettura. Da un lato, proprio durante le letture che faccio io, inizialmente, davanti ai miei compagni, per dar loro un’indicazione di fondo, come posso, mi accorsi, molto meglio di come mi ero accorto nel breve lavoro preparatorio, della quasi impossibilità di affrontare questo testo di Shakespeare, questo testo “nero”, questa grande parabola sul male e sulla corruzione, con i mezzi che avevo a disposizione, mezzi interiori ed esteriori, tempo di prove soprattutto. Si provava allora al massimo venti giorni. E, dall’altra parte, i miei attori furono talmente scossi, perplessi e spaventati che mi pregarono di cambiare lavoro. Cioè di non fare Misura per misura. Così avvenne, né il progetto venne più ripreso. Solo molti anni più tardi, Squarzina a Genova pensò e realizzò Misura per misura e con grande successo, costruendo uno spettacolo denso, molto importante, uno dei più importanti – penso – della sua carriera. Ma credo che allora i tempi fossero già più maturi. In mezzo c’era stata la trasformazione del teatro italiano, c’era stato molto lavoro fatto da tutti noi. Al momento in cui lo ipotizzai io, il fatto era veramente “antistorico”, cioè troppo avanti sulle condizioni del teatro italiano.
Dico questo perché anche la considerazione “di opportunità” e di possibilità va messa in gioco, quando si parla di una interpretazione a teatro. E per la prima opera di Shakespeare che io ho avuto la ventura di dirigere, il Riccardo II nella stagione 1947-48, si trattò tra l’altro della “prima rappresentazione italiana” di quest’opera; così avvenne anche per le tre parti dell’Enrico VI, forse per la prima parte dell’Enrico IV. Il panorama shakespeariano in Italia, infatti, è centrato sulle tragedie più celebri: Amleto, Romeo e Giulietta, Otello, Lear, un po’ di Macbeth. Forse anche questa situazione oggettiva mi ha spinto a interessarmi dello Shakespeare dei drammi storici, cioè quasi per riempire un vuoto culturale. Anche se la ragione di fondo nasce dalla mia formazione storicistica, dalla mia ricerca, da sempre, del rapporto tra storia e teatro, anche se uno dei temi di fondo del mio lavoro di teatro è stata proprio la storia, il problema della storia che si muove. E ciò certamente prima che la critica ufficiale riconoscesse l’importanza che merita allo Shakespeare dei drammi storici “minori”. L’orgia, se così si può dire, dello Shakespeare storico avvenne in genere dopo il libro di Kott [Shakespeare nostro contemporaneo], comparso in Italia nel 1964. Certamente però il Riccardo II fu una partenza per me sconvolgente e angosciosa. Quel Riccardo II che va molto al di là del dramma storico, anche se la storia, il suo tessuto fondamentale, che è folgorazione lirica e interrogazione sulla fragilità umana, questo e tanto altro è rimasto come una conquista della gioventù, insieme a una meraviglia e un’attenzione del cuore che continua ancora. E già allora si pose il problema della traduzione, come ho detto prima. Si pose imperiosamente. Fu Cesare Vico Lodovici che apprestò una traduzione, a mio avviso, ancora oggi commovente e comunque fatta con la rapidità necessaria allora, pensata in qualche misura per la scena, per gli attori e per uno spettacolo. Senza tagli, o quasi, e senza rivolgimenti sostanziali: tensione lirica, concretezza delle immagini, rapporto dialettico delle persone e dei gesti (questi intesi, sì, in senso brechtiano), un gruppo di attori usciti in gran parte dall’Accademia, da Santuccio a Manfredi, a Sbragia, a Battistella, Feliciani, D’Angelo, moltissimi altri, preistoria di un teatro italiano nuovo. Si sa, c’era anche un vecchio Gualtiero Tumiati per Giovanni di Gaunt. E da allora, proprio grazie a questa partenza e alle rappresentazioni successive, che anno per anno si verificarono, nacque il progetto di tradurre tutto Shakespeare in un certo modo. Il progetto si realizzò da Einaudi e può essere preso per uno dei possibili esempi, estremamente chiarificanti, di come il teatro possa legarsi con il problema letterario e, in questo caso, editoriale. L’edizione di tutto Shakespeare fu – credo – la prima edizione del teatro moderno italiano unitaria e attenta, entro certi limiti, alla scena. Cioè possibile, plausibile per essere recitata sulla scena, magari anche con le bizzarrie linguistiche che Lodovici spesso impiega, ma proprio per “tentare” il teatro e non solo la pagina da leggere.
Lo spettacolo fu rappresentato in una scena fissa, una specie di ricostruzione del luogo elisabettiano con inner stage, upper stage e porte. Non una ricostruzione, come poi vedremo nell’Enrico V di Olivier, ma più una “idea” del teatro elisabettiano, un luogo unico, simbolico, proiettato nella platea, molto più in là dell’arco scenico. Non abbiamo aspettato molto per porre il problema di un nuovo spazio scenico: certo assai prima degli spazi di tanti miei colleghi anche illustri, ma non prima di quelli cercati da Brecht e da Piscator, prima ancora di Brecht. Allora Brecht stava allestendo Madre Coraggio, tra l’altro, in un teatro all’italiana, con due enormi aquile germaniche nella sala che erano state semplicemente “cancellate” con due grandi freghi neri. Dentro e fuori da un arco scenico classico, sotteso da un limpido bianco sipario a metà e un girevole-mondo, come il teatro-mondo di Shakespeare, magico, teatrale e concreto al tempo stesso. Noi eravamo, allora, ossessionati da questa idea della scena unica, della convenzionalità o del ritrovamento della convenzionalità a teatro, un teatro che ci arrivava dalla degenerazione ultima del teatro verista piccoloborghese con poche eccezioni. La scena elisabettiana ci appariva come un esempio di questa “teatralità convenzionale” e pur fatta di oggetti estremamente concreti. A essa ci riferivamo più o meno indirettamente. Ed eravamo anche alla ricerca di un teatro fortemente impegnato nella storia, ma nello stesso tempo un teatro “poetico”, tutto storia e tutto trasposizione della storia. Eravamo dentro il problema di ricostruire certi moduli, ritrovare la verità di un certo costume del tempo, certe musiche, certe gestualità di fondo. Fu, quel Riccardo II che, fra parentesi, ebbe uno straordinario successo, sia nel pubblico sia nella critica, uno spettacolo quasi senza soluzione di continuità, sul filo di alcune evocazioni musicali anche di Carpi, sui temi popolari del tempo di Riccardo II, piccole marce e fanfare semplicissime e lune misteriose che passavano portate a mano sugli spalti immaginari da semplici serventi vestiti di nero. Anche questa cadenza di spettacolo, i “serventi che servono lo spettacolo”, fu per un certo periodo una conquista per Shakespeare (e non solo per Shakespeare), che più tardi divenne moda, ma una moda non del tutto abbandonata dal teatro cosiddetto moderno.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

Dalla prima Tempesta a Giulio Cesare

Lo stesso anno [1948], nell’estate, con la splendida e necessaria incoscienza della gioventù, allestii all’aperto a Firenze l’ultimo Shakespeare, quello della Tempesta.
[…] Magia esteriore, incanti e lazzi dei buffoni, non profondità e meditazione, non la disperazione inquieta che mi pare oggi di aver ritrovato, non quegli interrogativi supremi che mi pare siano chiusi nella Tempesta. Non esisteva, ricordo, Caliban… poco Ariel… Prospero… aveva poche dimensioni. Ma i due buffoni legati coraggiosamente al rondò della Commedia dell’Arte, uno napoletano e l’altro veneto, uno un Pulcinellaccio, e l’altro uno Zanni primitivo, resistono ancora come fatto critico al vaglio del tempo, anche se con diversi accenti.
La Tempesta aprì e chiuse, per me, in quel primo anno, un itinerario shakespeariano che si sarebbe riempito ben presto di molte altre opere. Uscii da quel mettere in scena Shakespeare molto più consapevole e molto più cosciente della complessità dei problemi da affrontare nel futuro. Credo, per un altro verso, che quello fu un momento capitale del mio lavoro formativo. Anche se fu un momento brutale e violentatore.
La traduzione della Tempesta fu preparata da Salvatore Quasimodo espressamente per noi. Fu anche questo un fatto pieno di significato: il legare il nome del poeta Quasimodo a un’avventura di teatro mi pare non possa andare sottovalutato, quale che sia il giudizio che noi si possa oggi dare oggettivamente sulla sua traduzione per certi versi straordinaria, al di là della sua “esattezza” filologica o meno.
Nel 1948-49, La bisbetica domata, e fu uno Shakespeare sbrigativo, non capito da me, dagli attori, in una sorta di equivoci conflittuali che forse hanno lasciato un segno in me riguardo alla difficoltà a entrare nel mondo dello Shakespeare delle commedie. Poiché una certa disavventura, una somma di infelicità e di incomprensioni avvenne anche più tardi con La dodicesima notte, allestita a Venezia in una situazione, anche logistica e storica, molto infelice, in un contesto terribile, nel nuovo teatrino di Palazzo Grassi, un qualcosa tra la rappresentazione di corte per i nuovi ricchi e l’incontro mondano.
Non così la rappresentazione del Riccardo III al Piccolo, nella stagione 1949-50. Fu uno spettacolo funebre, in un’altra scena fissa, di tipo elisabettiano (l’ultima), ma decantata ancora di più del Riccardo II, di velluto nero. Si parlò allora – ricordo – di crisi giansenistica di Strehler, e infatti lo spettacolo era severo, con ritmi cupi e larghi; protagonista Renzo Ricci, con il quale avvenne una fraterna lotta per ritrovare la modulazione di Riccardo III, al di là delle soluzioni di comodo che il vecchio teatro all’italiana gli poteva concedere. Fu ancora una ricerca faticosa della plastica e una ricerca sui significati; fu un lavoro di scuola, applicato a un testo che meritava ben altro. Ma tutta questa avventura shakespeariana, se la ripenso, rapportata ai mezzi a disposizione del momento, mi appare tragicamente, da parte mia, insufficientemente, precariamente affrontata. Certo, Riccardo III era allora il mostro, il mostruoso della storia. C’era allora in noi una certa presenza del Mostruoso da indagare. Venivamo da un’esperienza storica traumatica per la nostra generazione: c’era, dietro ai mostri di Shakespeare, il “cane nero” degli uomini di Vittorini, e così fu anche per Macbeth.
Questo incontro, nel 1952, segnò certamente – per me – una grande crisi e un punto di passaggio. Dopo il Macbeth, il lavoro su Shakespeare, non solo su Shakespeare, su tutto il teatro, avvenne con altri ritmi e con richieste più severe. Del resto, era già arrivato il tempo di una certa maturazione del tessuto nuovo del teatro italiano. Non era arrivata ancora la sua dissoluzione o la sua dissacrazione. Si poteva, e si doveva, chiedere di più. Io so che ero arrivato alle soglie del mio incontro molto intenso con Brecht, prima che autore, Maestro di teatro, e quasi al tempo della Trilogia della villeggiatura, del Giardino dei ciliegi, del Nost Milan e dell’Opera da tre soldi.
Macbeth, interpretato da Gianni Santuccio e da Lilla Brignone, fu veramente una “rottura”: davanti a questo testo abissale, ormai con una raggiunta maturità, si chiuse la “divina incoscienza” della giovinezza e delle sue avventure. Per il teatro certamente. Questa edizione del Macbeth non lasciò alcun segno, mi pare, come avvenimento culturale. Ricordo poco, e forse gioca una specie di autocensura interiore, ma certamente ricordo la conquista di una certezza che da allora mi ha seguito sempre: io capii qualcosa di Macbeth soltanto facendolo sulla scena. Ed era molto, troppo tardi. Gli errori non erano più tollerabili, le insufficienze critiche immodificabili. Il prezzo di Macbeth fu quello di capire con folgorante chiarezza che Macbeth era irrappresentabile o illeggibile! Scopersi anche la grande metafora Teatro-Mondo. La metafora dell’attore che recita su una scena per un attimo e quel che segue. Superai, anche se molto parzialmente, il problema del luogo scenico, sfiorai alcuni abissi che ho ritrovato tutti aperti in Re Lear molto più tardi. Ma, in sostanza, non arrivai più in là, mi pare, del capire che testi come Macbeth non si affrontano se non con la totale disponibilità e con un tempo di meditazione, una possibilità di provare e riprovare sulla scena attimi e situazioni. Cioè in altre “condizioni” da quelle che si erano fino ad allora offerte. Shakespeare, con un testo che io considero fondamentale, mi insegnò dunque meglio di prima la responsabilità dell’interpretazione. Fu una lezione severa, la sua, che porto ancora oggi con me.
Prima di Macbeth allestii, ancora all’aperto, a Verona, la prima parte dell’Enrico IV. Sempre l’equivoco dell’en plein air, ma come mitigato da uno spettacolo violento, baldanzoso. Con un Falstaff (Pilotto) abbastanza fuori del quadro normale del grasso bevitore incallito, del taverniere lubrico. Il cliché dell’opera di Verdi giocava e gioca ancora nella tradizione critica italiana. Allora, proposi un Falstaff “diurno”, più perverso, più grande, più complesso e tutto sommato eroico, indegnamente eroico. Fu un gesto, se non sconvolgente, certo inquietante. Ormai, il panorama shakespeariano era arricchito di molte figure, non solo attraverso il mio lavoro, ma anche attraverso quello di molti altri che ne tentavano la rappresentazione. Il teatro italiano cominciava ad avere un rapporto diverso con il teatro shakespeariano e anche gli attori stessi cominciavano a considerare i suoi personaggi in una dimensione diversa.
Nel 1953-54 fu rappresentato il Giulio Cesare, con protagonisti Carraro, De Lullo, Fo e Valli. Questo mi appare ancora oggi come uno spettacolo abbastanza maturo e leggibile. In un grande vuoto, preparato da Zuffi, in una specie di grande teatro romano, estatico e calcinato, si svolse questa rappresentazione tragica, con una grande concentrazione e parsimonia di mezzi. Una compostezza della parte gestuale e una profonda tensione caratterizzavano molti momenti dello spettacolo, anche se ripenso irrisolto il problema dell’apparizione delle ombre di Cesare (gli spettri shakespeariani, ecco un tema per una scuola di teatro, per una scuola di registi!), anche se “la folla” rimaneva estranea e come “agìta”. In effetti, nel Giulio Cesare è “agìta”, il movimento tragico nei suoi squilibri si realizzava come non era avvenuto negli spettacoli shakespeariani precedenti. Il grande tema dell’amicizia che si deve “tradire”, come talvolta l’amore, per ragioni più grandi dell’amore. L’intima contraddizione del personaggio di Bruto. La grande parabola umana e politica del Giulio Cesare erano presenti. Ricordo come aneddoto che, nel corso di una tournée in Sud America, al tempo del dittatore Perón, le battute di Cassio («Ma chi è questo Cesare, cos’ha di diverso da noi questo Cesare?») scoppiarono nella platea come folgori e parve assolutamente possibile che lo spettacolo venisse sospeso, per la sua “pertinenza” alla situazione, per la sua «pertinenza rivoluzionaria». Pensai allora alla rappresentazione del Riccardo II prima della congiura di Essex. Pensai al contesto in cui si svolge sempre la rappresentazione. Pensai, più chiaramente che mai, appunto, a Shakespeare nostro contemporaneo.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

A Shakespeare attraverso Brecht: Coriolano

Nella stagione 1957-58, il Coriolano. Il Coriolano segna la lezione brechtiana nella mia avventura teatrale. Ricordo che una sera, a Berlino, trovai su un tavolo del Maestro il Coriolano aperto. Gli chiesi come mai. Brecht mi rispose che lo stava studiando e io mi meravigliai stoltamente che egli si applicasse a un testo così “fascista”, così “reazionario”… e via per quella tangente che una critica indegna ci ha consegnato, attraverso condizionamenti di classe, superficialità di giudizi, sommarietà di interpretazioni di attori e di registi. Brecht sorrise e mi disse: «Mio caro ragazzo, sarà meglio che tu lo riguardi il Coriolano di Shakespeare. È molto diverso da quello che si dice». Mi indicò alcuni punti fondamentali: un’interpretazione dei due tribuni (considerati dalla critica borghese come due indegni scherani, biechi e vili, due “agitatori” del volgo malvagi), la prima scena della rivolta popolare e Menenio; mi segnalò qualcosa anche di Coriolano ma con meno precisione. La rilettura avvenne solitaria e fu la scoperta ancora nuova, ma pure ovvia, che il “lavoro culturale” intorno alle opere di Shakespeare non solo presenta dei vuoti paurosi, ma ha delle connotazioni estremamente partigiane, condizionate da lontano, e che essa si riflette altrettanto ovviamente sulle traduzioni di Shakespeare. Si ritornava al versante della traduzione, ma non solo come fatto letterario, qui come fatto letteralmente “ideologico”.
Fu una faticosa conquista, quella del testo del Coriolano! In un’estate, con Gilberto Tofano e con un piccolo collettivo di lavoro, traducemmo un nuovo Coriolano, quasi impauriti di quello che scoprivamo e che ci appariva del tutto diverso dal conosciuto, e partimmo alla ventura. Brecht non aveva ancora pubblicato il suo studio sul Coriolano, né aveva ancora messo in scena lo spettacolo. Gli incontri con Brecht avvennero allora intorno ad altri problemi: quello dell’Opera da tre soldi, che precedette il Coriolano. Pensavo di riprendere il discorso interrotto con Brecht più tardi e con alcune ragioni mie, ma il Maestro morì nell’estate di quel ’56 che vide la sua venuta in Italia per L’opera da tre soldi. Coriolano andò in scena come un segno certo di un contributo al Maestro di teatro Brecht e fu certamente pensato e realizzato con una preoccupazione più che “epica”, “dialettica”.
Scene limpide, indicative, figurazioni estremamente emblematiche e ricche di gestualità. La tradizionale interpretazione di Coriolano, eroe “orgoglioso” (Coriolano tragedia dell’orgoglio, tragedia “aristocratica”), ne usciva sconvolta. Coriolano appariva un “ragazzo immaturo”, una infantile, immatura e quindi crudele macchina di guerra e di potere, manovrato dalla classe dominante, manovrato da una madre, questa sì mostruosa, manovrato da condizionamenti di classe e quindi di educazione, eroe in negativo, antipopolare, profondamente “reazionario”, cioè contro la storia, contro il movimento della storia, impietoso e nello stesso tempo disperatamente disarmante e disarmato.
La grande pietà tragica nasceva proprio dalla constatazione della “buona fede” di Coriolano giocata da altri, dalla sua incapacità di vedere la realtà, di conoscere la vita umana e quindi se stesso. Il centro del mondo veniva frantumato quando si accorgeva che c’era anche un altro mondo, cioè la storia, cioè le classi in movimento, cioè che esisteva un’altra realtà, quella del popolo oltre che quella propria. Coriolano tradito da tutti come transfuga della propria classe, transfuga degli affetti più cari, diventava ineluttabilmente traditore e correva dal nemico eterno, dall’altro, da Aufidio, così diverso e simile a lui. Proprio nell’altro si identificava: ritrovava come una complicità nel gesto guerresco, che finiva per trasformarsi in una specie di immaginaria danza erotica, in un sogno omosessuale. Solo il trauma della madre in lutto e in ginocchio e in preghiera lo strappava a questa nuova e, in fondo, pacificante realtà e, in quell’attimo, solo per un attimo, Coriolano diventa consapevole: «Madre, madre, tu hai vinto, ma sappi che questa vittoria mi costerà la vita!». L’attimo di consapevolezza spariva ben presto, il gesto di rinuncia all’aggressione della patria intesa come figurazione simbolica della madre lo portava a un breve processo in cui Aufidio, per provocarlo, gli urlava la parola che più poteva scatenarlo. La parola da non accettare: «Lattante!». Ciecamente come sempre, Coriolano si gettava su Aufidio e trovava, altrettanto ineluttabilmente, la morte. Subito, Aufidio intonava con rapidità, come un rituale necessario per “ritrovare l’ordine”, il suo “compianto funebre” per Coriolano: fu un degno eroe, suonate trombe e tamburi, come sempre. E la rappresentazione si chiudeva abbastanza sbrigativamente con questo epitaffio al suono di trombe e tamburi, mentre però il cadavere del “giovine eroe”, inconsapevole ma colpevole, veniva trascinato via dal palco per i piedi, come un toro ammazzato nell’arena. Ma c’era intorno anche un’attenta indagine sui rapporti di classe, sulla figurazione del “popolo” e dei suoi tribuni.
Rappresentazione non “positiva”, ma realistica, certamente non comica e grottesca. Un popolo incerto, con saggezza e viltà e crudeltà, con scelte difficili, alle prese con una realtà storica complessa, non protagonista ancora (o protagonista per un attimo), ma non semplice oggetto della storia, con i tribuni che apparivano quali mi sembra ancora oggi che ineluttabilmente siano: non due marrani, ma due capi del popolo contraddetti, anche questi reali, sostanzialmente tesi a muoversi nell’interesse del popolo, con “tutti i mezzi necessari”. Ripensando alle direttrici dello spettacolo, ancora oggi ne condivido i lineamenti e ripenso a questo Coriolano come allo spettacolo shakespeariano più compiuto che io sia riuscito ad allestire in quel periodo del mio itinerario di regista.
Di questo restano poche fotografie (come sempre), qualche musica, un disco quasi insentibile, ma che qua e là indica ciò che poteva essere il “tono dello spettacolo”. Con Coriolano, la Compagnia del Piccolo trovò una sua più precisa identificazione. Io stesso, pur muovendomi entro certi “canoni” ricevuti da Brecht, seppi mantenere una certa autonomia di giudizio e di modulazione. Tant’è che molto più tardi, quando lessi gli appunti di Brecht sul Coriolano e vidi lo spettacolo (mirabile) del Berliner, scorsi notevoli differenze di fondo. E su alcune ancora oggi (e avvenne una discussione accanita, a Venezia, con i responsabili del Berliner su questo punto) sono convinto che l’edizione del Piccolo del Coriolano sia andata più in profondità di quella del Berliner. Brecht aveva per esempio tralasciato la componente psicanalitica di Coriolano, aveva messo in ombra il rapporto madre-figlio. La scena della madre che si reca da Coriolano a chiedere pietà era una scena mancata. Io la pensavo “in parte” falsa, ma volutamente “falsa” da parte della madre, una specie di rappresentazione tragica della maternità offesa e avvilita per “vincere” il figlio ribelle.
Dove certamente lo spettacolo mancava, era nelle scene di battaglia. Ripenso alle scene di guerra dell’edizione del Berliner e vedo i nostri dieci o quindici attori che fanno “popolo” e “guerra” e vengo colto da un profondo scoramento. Poiché anche in questo caso, o soprattutto in questo caso, ciò che non fu fatto nella nostra edizione non avvenne per mancanza di coraggio, ma semplicemente per mancanza di tempo, denaro, mezzi. Provando Coriolano, come sempre, allora, circa quarantacinque giorni (da venti, in più di dieci anni di lavoro, eravamo arrivati a conquistare quarantacinque prove) la “folla” era composta, come sempre, da giovani allievi, non più di venti persone. L’edizione del Berliner contava circa cento persone in movimento, era costata due anni di prove. Le battaglie erano state meravigliosamente realizzate da un attore del Nō giapponese, Kita Maze, allora nel Berliner.
Per lo scenografo Damiani, Coriolano segnò la conquista di una “chiarezza” e di una semplicità che da allora non è stata più abbandonata. Per il nostro teatro, la conquista di una dimensione critica estetica che è restata il fondo del nostro lavoro, anche se – lo spero – non il modulo estetico valido per tutto nello stesso modo. Si tratta di un accenno, di una linea, di una metodologia. Fu proprio grazie a Shakespeare che il Piccolo e io stesso definimmo una dimensione che ci ha seguito nel tempo. Al suo contatto, problemi di estetica e di storia divennero estremamente consistenti, la lezione di Bertolt Brecht divenne concreta, assai più che con la rappresentazione dell’Opera da tre soldi. Per la prima volta, riuscimmo a mettere in scena quel teatro della storia, quel teatro dialettico, quello scontro delle classi in movimento, senza per questo dimenticare mai la dimensione dell’umano, del privato, del carattere nella storia, insomma la connotazione della realtà dei personaggi cui avevamo sempre teso fin dal primo giorno.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

Il gioco dei potenti: febbre e follia shakespeariana

[Nel 1965] realizzai le tre parti dell’Enrico VI in una riduzione che preparai io, sulla traduzione di Lodovici, al Teatro Lirico di Milano, cioè in una grande scena, sempre ovviamente nell’ambito del Piccolo. Fu certamente lo sforzo più grande che io abbia mai fatto come regista. Fu una specie di delirio, nato non so ancora da che, o come, o da quale necessità. Rivisitavo lo Shakespeare storico, dei drammi storici, quasi come un addio che ne riassumesse i temi. Allora era finalmente uscito lo Shakespeare nostro contemporaneo di Kott e, sebbene un certo lavoro nostro su Shakespeare ne avesse da sempre visitato i temi, purtuttavia quel libro fece nascere come un bisogno di riprova. È difficile tracciare a tanta distanza le ragioni di una scelta. So che la riduzione divenne quasi una riscrittura. Osai far intervenire un “coro” che recitava, come in una specie di summa, molti monologhi shakespeariani a commento della “storia”; il personaggio era l’attore shakespeariano “tipico”, i monologhi erano tolti da quasi tutte le opere di Shakespeare. Per il resto, la storia dell’Enrico VI e della Guerra delle due Rose diventava un gioco del massacro: il potere che corrompe. La corona, come folle simbolo del potere, era un miserabile cerchio di carta da pagliacci e tutto lo spettacolo aveva un’aria imprecisa, da circo quasi, insanguinato. Il popolo era qui l’oggetto, ma, nella seconda parte, la rivolta di Jack Cade assumeva i caratteri di un processo storico di una contemporaneità sconvolgente. Ancora oggi ho la sensazione che non sia stata sufficientemente considerata la seconda parte dell’Enrico VI e di tutta la parte della rivoluzione popolare proposta da Shakespeare, e penso che qualunque discorso sulla storia vista da Shakespeare non possa prescindere dall’Enrico VI e, in massima parte, dalla seconda parte dell’Enrico VI.
Rivoluzione realistica, tradita da se stessa quasi, con un eroe positivo-negativo che ha i tratti della ribellione e già della prevaricazione dittatoriale. Jack Cade è uno dei grandissimi personaggi shakespeariani sconosciuti o misconosciuti. Lo spettacolo, la prima volta, durò più di sei ore, in una sola serata. La rappresentazione finì alle due di notte. Mai sbagliai tanto nei tempi, mai fui tanto improvvido e mai il pubblico così paziente. E attento. Poi lo spettacolo fu diviso in due serate, ambedue notevolmente lunghe. Il troppo materiale rese lo spettacolo estremamente squilibrato, troppi attori e non tutti all’altezza, evidentemente troppe masse (non più le venti comparse), troppo tutto. Ripenso a questo momento di febbre e di follia shakespeariana con smarrimento e con tenerezza. So che fui impietoso con me e con gli altri e che ho rischiato, forse per la prima volta, di perdere la connotazione della realtà e del possibile.
Ma, nonostante tutto, Il gioco dei potenti rappresentò un salto coraggioso nel buio, una specie di ricapitolazione scorretta, ma potente e vasta, del mondo storico di Shakespeare, anche se certo coraggio della “scrittura” su Shakespeare – che non ripeterei mai più – ebbe una sua ragione interiore nel mio lavoro di teatro.
Ripresi questo Gioco dei potenti a Salisburgo. Fu un massacro: lo spettacolo fu provato quaranta giorni. Due serate, sette ore di rappresentazione, con quaranta o quarantacinque prove nella cavallerizza di Salisburgo piena di torce, di pioggia e vento. Là ci furono attori straordinari a interpretare Shakespeare, il meglio del teatro tedesco, unito per la prima volta intorno a Shakespeare. Alla fine, il successo contrastato nella platea la prima sera, il trionfo totale nelle repliche (molto spesso ciò avviene a Salisburgo). Critiche infami per lo più, qualcuna poco entusiastica; al secondo anno, le critiche infami divennero osanna ignobili. Grandi sono i misteri della critica teatrale. Non era stata cambiata una parola: solo qualche taglio qua e là e certo gli attori erano più maturi. Nel corrotto panorama del teatro tedesco, avviato su una china vergognosa di falsa dissacrazione, di negazione dei valori, una specie di neoespressionismo scurrile con connotazioni volgari e di un naturalismo quasi insostenibile, mescolato con la provvisorietà della scena vuota degli Studi Berlinesi, Il gioco dei potenti poteva costituire, come costituì, un motivo di scandalo e di odio. Non può certo uno spettacolo modificare il corso di una storia di teatro che si svolge su altri versanti. Con i Potenti si chiuse definitivamente per me un certo modo di fare e pensare Shakespeare. Come, per un altro verso, con il Coriolano.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022

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