Strehler e Mozart

Il musicista della felicità possibile

È l’artista che mi è più vicino, l’artista che risolve quello che per me è sempre stato il problema fondamentale di un lavoro artistico: legare il passato al presente, proiettare il presente nel futuro.
Giorgio Strehler

Sono cinque i titoli mozartiani nel repertorio di Giorgio Strehler, a partire dal 1965, quando allestisce a Salisburgo Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) – con la direzione musicale di Zubin Mehta, le scene e i costumi di Luciano Damiani –, fino al dicembre 1997 e alle tre settimane di prova di Così fan tutte, spettacolo con cui il regista intende inaugurare il nuovo teatro di largo Greppi (oggi a lui intitolato) ma che non vedrà mai debuttare. Dopo l’improvvisa scomparsa del Maestro nella notte di Natale, lo spettacolo sarà completato dagli artisti collaboratori, per essere presentato al pubblico il 26 gennaio 1998, con la direzione di Ion Marin.

Nei 34 anni che intercorrono, oltre ad altre due edizioni del Ratto  – nel 1969 per il Maggio Musicale Fiorentino (la direzione è nuovamente di Zubin Mehta) e nel 1972 per il Teatro alla Scala (direttore Bernhard Conz) – vedono la luce tre capolavori: Le nozze di Figaro, allestito la prima volta nel 1973 al Teatrino di Corte di Versailles, con la direzione musicale di George Solti, le scene e i costumi di Ezio Frigerio, quindi rimesso in scena nel 1981 al Teatro alla Scala, a segnare l’inizio del fortunato sodalizio con Riccardo Muti, e con Franca Squarciapino a firmare i costumi; Die Zauberflöte (Il flauto magico), con il quale Strehler torna nel 1974 a Salisburgo, questa volta con la direzione d’orchestra di Herbert von Karajan, mentre è sempre Damiani a firmare scene e costumi; nel 1987 Don Giovanni, nuova collaborazione con Riccardo Muti, divenuto nel frattempo direttore musicale del Piermarini, scene e costumi della coppia Frigerio-Squarciapino.

Strehler ne parla

Il mio itinerario mozartiano

I miei rapporti con Mozart sono antichi, risalgono all’infanzia. I miei primi anni, a Trieste, sono stati accompagnati dai quartetti e dalle sonate di Wolfgang Amadeus, e rappresentano il tessuto profondo della mia vita. Ma solo con la maturità, almeno con una certa maturità, mi sono accostato a Mozart, nel teatro, e ho cercato di interpretare in forma scenica il suo genio.

Ho incominciato con Il ratto dal serraglio, primo passo verso un sempre maggiore approfondimento. A Salisburgo, il primo capolavoro del teatro musicale mozartiano, il Singspiel che fondava l’opera tedesca attraverso alcuni modi dell’opera italiana, l’avventura di Belmonte e Costanza e del Pascià Selim, trovò in me una felicità inventiva, un abbandono alla musica e alle parole, al senso illuministico della trama, che ancora ricordo con emozione. È stata una grande storia d’amore e di lavoro comune che ha visto artisti europei e non europei uniti in uno sforzo poetico straordinario. Il risultato pubblico confermò che l’unità d’intenti e la gioia dell’ispirazione diedero vita a un momento forse irripetibile.

Ma il teatro, anche quello di Mozart, si brucia in un lampo, diventa cenere per rinascere, come la fenice, in altri luoghi e circostanze. Così fu a Firenze, così fu a Milano, alla Scala, in condizioni diverse ma sempre su quelle note, su quell’immutabile fiaba di amore e umanità. E sempre con il pubblico abbandonato a un incanto così poco consueto nel nostro oscuro quotidiano.

Più tardi fu l’avventura del Flauto magico, ancora a Salisburgo. Forse troppo presto nel cammino che avevo intrapreso, e in condizioni assai meno felici. Un accordo troppo vago, o addirittura un disaccordo senza discussioni, con un direttore d’orchestra che era il grande Karajan, con il quale si ipotizzava un lungo lavoro su tutto il Mozart operistico; il luogo (la grande scena “cinemascope” del Festspielhaus); una distribuzione per certi versi magnifica, per altri inadeguata: tutto ciò portò alla creazione di uno spettacolo nuovo e certo sconvolgente, ma imperfetto. Quel nuovo Flauto nel tempio di Mozart, con una nuova prospettiva, un nuovo allestimento di Damiani, genialissimo ma fuori d’ogni tradizione, quel Flauto non più soltanto “viennese” ma avveniristico, con atomi e scene fantascientifiche e animali da circo impersonati da ballerini travestiti, quel Flauto involontariamente provocatorio lasciò perplesso il pubblico della prima.

Ci fu una battaglia. Battaglia inutile, e persa dai detrattori in partenza, perché lo spettacolo in tutte le repliche conobbe un autentico trionfo. Ricordo quanti amici mi furono vicini, mi scrissero e ne scrissero sui giornali; fra essi Abbado, Visconti, Brusati. Me ne parlarono tutti con meraviglia. Ma le “cabale” teatrali esistono ancora: esistono ancora, nel mondo lirico, storie di quinte e sottopalchi!

Il Flauto non venne mai più ripreso. Io lasciai Salisburgo con molta amarezza. Ma anche con molto orgoglio per l’opera compiuta in quegli anni: Il gioco dei potenti, da Shakespeare; uno stupendo Arlecchino che nessuno vedrà mai più nella Cavallerizza, sulla sabbia delle tragedie di Shakespeare, nel pomeriggio, là dove, poco dopo, sarebbe morto re Riccardo II o si sarebbero mossi i poveri e i potenti delle tre parti dell’Enrico VI. Ancor oggi penso al Flauto magico, mia opera per eccellenza, fiaba eterna dell’uomo e del suo cammino verso la conoscenza, trionfo della luce e dell’amore sulle tenebre, immerso in una luce d’altro mondo, di sogno e di verità, di un Natale antichissimo, di un Oriente con le nevi del Nord. Riuscirò mai a farlo ancora? Ci sarà il tempo, l’occasione, il luogo, ci saranno, soprattutto, le circostanze necessarie per costruire questa lieve immensità?

E ancora, dopo, la magnifica e terribile avventura delle Nozze di Figaro a Parigi, nel Teatro di Corte di Versailles. Magnifica per il luogo, per la compagnia di canto, per la dedizione degli interpreti; terribile per l’inspiegabile comportamento di Solti, che arrivò all’ultimo momento, con grandi affanni e grandi crisi nervose. I cantanti, per prima Mirella Freni, lo guardavano con meraviglia. A un certo punto, al «Pace, pace, mio dolce tesoro», che noi avevamo intitolato l’Inno della nuova Europa e che era stato staccato dal Maestro a velocità supersonica, Mirella mi disse dal palco, sorridendo: «To’, guarda mo qui il tuo Inno della nuova Europa!». E così via. Ma Bacquier, Freni, Moll, van Dam, Sénéchal e tanti altri avevano costruito, con la giovanissima e debuttante von Stade, uno spettacolo libero, lieve, pieno di senso e di ambiguità, pieno di dolcezza e di rivolta. Nulla poteva distruggerlo. Si parla ancora oggi di quelle Nozze. Ma, in realtà, “quelle” Nozze durarono poco. A Versailles poche recite. E già all’Opéra di Parigi erano mutate, e poco dopo la macchina divorante del “teatro alla tedesca” messo in piedi da Liebermann le aveva fatte diventare diverse, altre.

Lo spettacolo si replicò decine, centinaia di volte, sempre con distribuzioni diverse, senza prove, con cantanti che arrivavano la sera prima. Molto spesso ho incontrato in aereo, nei cieli d’Europa, cantanti che mi hanno detto di essere stati Figaro o la Contessa nelle “mie” Nozze. Che poi non sono mai state mie, ma di Mozart. Ritornarono a Milano, e fu un grande incontro con Muti. Rinacquero uguali e diverse, vive e piene di slancio. In alcune cose mi parvero ancora più mature di quelle di Versailles, se pure non in tutto. Ma anche “quelle” ebbero breve vita. Le compagnie liriche si sciolgono presto e spesso non si riuniscono più. Altre riprese dell’opera mi lasciarono molto amaro. Vi riconobbi assai poco del mio lavoro: l’ombra, talvolta fedele, come ad esempio in una ripresa fatta con maestria da Carlo Battistoni, un mio caro assistente e magnifico compagno di lavoro, sulla scena e per la televisione, che è venuta poi a porre altri problemi a noi, poveri registi di teatro che facciamo le cose per la scena, perché siano viste in un certo modo, da una platea, in un certo spazio, con certe luci e certe ombre.

Poi il Don Giovanni. È storia di ieri. L’opera che ho amato di più nella mia vita, che mi ha accompagnato per anni come un amico-nemico fedele e severo. Ho osato avvicinarmigli solo con estremo tremore, estrema umiltà, e del resto Muti e io abbiamo esitato a lungo prima di lavorarci in questa nostra avventura. Poi l’abbiamo fatto. Non sarò certo io a parlare del Don Giovanni scaligero dell’anno scorso. Ci hanno pensato altri, i critici, gli addetti ai lavori, gli esperti. Non so se meglio o peggio di noi. Perché noi abbiamo “scritto” la nostra critica d’amore con luci, scene, movimenti, suoni, tempi. Abbiamo parlato del nostro Don Giovanni come sapevamo e potevamo farlo. E dico subito che possiamo di più.

Circostanze non propizie, di clima interno e altro, non ci hanno dato molto spesso la serenità necessaria a un’impresa simile. Il tempo, soprattutto il tempo ci è mancato. Ma io sono orgoglioso, anche se per molti versi autocritico, di questo Don Giovanni. Esso segna forse l’estremo limite cui posso spingere la mia esperienza operistica al giorno d’oggi.

[…] Così, finora, Mozart mi è stato vicino quattro volte. Quattro volte ci siamo parlati. Gli ho scritto una lettera di scuse, e di domande, per il Don Giovanni. Ci incontreremo ancora? Nella mia vita, intendo. La sua musica è qui, nella mia “cameretta del cuore”, ma su un palcoscenico? Se ci incontrassimo, vorrei che fosse per Il flauto magico, ma in un teatro giusto come misure, giusto come atmosfera, giusto come uomini e donne. E poi finire con Così fan tutte.

Quel Così fan tutte che avevamo incominciato, Cantelli e io, e che solo la sciagura troncò sul nascere. In quel disastro aereo [Guido Cantelli morì in un incedente aereo il 24 novembre 1956, otto giorni dopo essere stato nominato direttore dell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, ndr] tra le vittime finì anche il mio Così fan tutte. E ancora oggi sentirei un brivido percorrermi le membra, al ricordo di quel terribile pomeriggio durante una prova, allorché arrivò la notizia della morte di un amico, quello che forse sarebbe diventato il più caro e che il destino rapì alla musica troppo presto.

Caro Mozart, non sarebbe stato sbagliato dedicare la mia vita d’opera solo a lui. Ma forse sarebbe stato anche ingiusto. La musica vive oltre tutti. E in tutti i grandi che l’hanno inventata, per la nostra gioia e la nostra umana conoscenza.

Il mio itinerario mozartiano, “La rivista illustrata del Museo Teatrale alla Scala”, n. 2, 1989

Mozart in teatro non sbaglia mai

Mozart è uno che ha capito tutto delle donne. I suoi personaggi sono delineati in maniera folgorante. Nel solo Don Giovanni troviamo tre tipi femminili assoluti: Elvira, tenera e patetica; Donna Anna passionale, crudele, vendicativa; e Zerlina, che piaceva tanto ad Adorno. Non figurette, ma persone vive, scrutate in tutti i loro aspetti, analizzate in profondo, comprese. Certamente Mozart era pessimista, ha creato una dimensione sfuggente, morbida, della femminilità. Ma alla fine, nel Flauto magico, risolve il dualismo uomo-donna con l’unità e la glorificazione della coppia: Tamino e Pamina, l’amore eterno.

[…] In teatro non sbaglia mai: i momenti, le entrate, le uscite, gli accenti, il rapporto tra i personaggi. Tutte le parti sono degli incastri perfetti. Si potrebbe dire quello che diceva Lukács del famoso brano sulla corsa dei cavalli in Anna Karenina, paragonandolo a uno analogo, in apparenza scritto da Zola. Anche in Zola la scrittura era accurata, realistica; solo che il brano poteva essere sfilato dal testo senza che il romanzo ne risentisse. Mentre in Tolstoj era funzionale, essenziale: insostituibile o non annullabile.

Wolfi marito voyeur, intervista di Stefano Malatesta, “la Repubblica”, 9 aprile 1985

In Mozart c’è tutto

È l’artista che mi è più vicino, l’artista che risolve quello che per me è sempre stato il problema fondamentale di un lavoro artistico: legare il passato al presente, proiettare il presente nel futuro. Mozart, infatti, è un uomo del suo tempo, profondamente inserito nel suo tempo storico, ma in modo non passivo. Mozart insomma accetta tutto dalla sua epoca – convenzioni, abitudini, vizi, mode –, per quello che sono, con tutto il coraggio “epocale” che questa scelta comporta: starci dentro, ma andare avanti. Mozart o il senso del passato, dunque, perché lui ha avuto il coraggio di servirsene (da Bach a Vivaldi, agli italiani, a Haydn soprattutto), copiando e ricopiando, trasformando però l’insegnamento di questi in cosa sua, cambiandogli il volto e lo stile. Anche per questo Mozart è un musicista terribilmente complesso e difficile o addirittura difficilissimo dal punto di vista esecutivo: pensiamo agli strumenti solisti, pensiamo all’orchestra, alle voci e all’insieme. D’altro canto, la sua musica sembra, ed è, “facile”, nel senso di comprensibile, chiara, apparentemente non faticosa: che è la suprema grandezza dell’arte.

Tutte queste caratteristiche, naturalmente, io le guardo dal mio punto di vista di uomo di teatro: dunque per me un discorso sul “modo” di fare teatro in questo musicista è essenziale. Spesso, quando mettevo in scena una sua opera, mi sono chiesto da dove gli venisse quella sapienza teatrale già dimostrata durante l’infanzia e nel corso del suo viaggio a Milano con il padre, quando osserva lo spettacolo della vita che gli sta attorno e quello del teatro che vede da spettatore con uno sguardo pronto a catturare tutto, con una tensione onnivora che lascia stupefatti. È per questo che Mozart non sbaglia mai nella comprensione musicale di una situazione drammatica. Là dove il testo è troppo semplicistico lui lo rende complesso e profondo, dove è denso e significante lo innalza e, nello stesso tempo, lo rende più chiaro. Quando penso a Mozart mi torna sempre in mente una frase di Čechov: «C’è scritto tutto». È vero; in Mozart c’è tutto: movimenti, pause, abitudini, colori, atmosfere, situazioni drammaturgiche. La difficoltà sta nel rendere evidente un gioco interpretativo in cui musica e situazione si trovano sempre in equilibrio perfetto.

Intervista di Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 5 dicembre 1987

Il brivido dell’umano nel Ratto dal serraglio

Un momento di gioia, di felicità: un’opera che Mozart scrisse a 24 anni, sprigionandovi dentro la forza e la leggerezza della sua gioventù. È il suo primo grande capolavoro e qualcuno dice che è rimasto insuperato. Io credo piuttosto che le opere mozartiane siano ciascuna un diverso momento del genio.

[…] Per evidenziare le due anime, che poi sono perfettamente unite, dello spettacolo, io uso due tipi di illuminazione: la luce chiara per la zona-commedia, e la luce scura, che provoca giochi di ombre cinesi, quando la musica entra come fatto fondamentale, e gli attori diventano pure voci e devo toglier loro corporeità.

[…] Cerco sempre di seguire ciò che dice la musica, ciò che ha dentro, e la difficoltà, con un capolavoro del genere, è proprio capire la realtà della musica, verso cui bisogna avere fiducia e lasciarsi guidare con umanità. Devo aggiungere anche che il Ratto è stato per me l’apertura verso il mondo di Mozart, come l’Arlecchino lo è stato con Goldoni.

[…] Ci sono opere che rifarei sempre in modo differente, perché forse anni fa non le avevo capite. Questa no. E poi sa che cosa ho scoperto, con l’aiuto dello studioso shakespeariano Kott? Che Mozart avrebbe voluto mettere in musica La tempesta di Shakespeare, cui ora sto lavorando per il Piccolo Teatro. Invece niente, ci ha ripensato e ha scritto Il flauto magico.

Strehler col giovane Mozart, intervista di Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 5 febbraio 1978

 

Capita, con Mozart, quando l’interprete si avvicina a lui e alla sua opera con rispetto, umiltà e amore – le tre cose fondamentali e necessarie per capire qualcosa dell’arte – di trovarlo vicino, affettuoso, comprensibile e chiaro e, nello stesso tempo, irraggiungibile come un astro solitario nell’infinito del firmamento. Questa doppia prospettiva non si arresta davanti alla sua “opera in musica” dove, anzi, per la complessità stessa del genere, per la sua forma di teatro e di suono, diventa spesso una specie di misterioso confine dove le buone volontà si arrestano, le ambizioni vengono deluse, le conquiste critiche e intellettuali deviate a tal punto da non offrire al pubblico altro che spettacoli confusi o apparentemente storici o infantilmente moderni.

Molto Mozart ha sofferto e soffre della nostra insufficienza a rappresentarlo […].

Da dove Mozart prese questa specie di ossessione per il teatro, questo bisogno continuo e lancinante di esprimersi sulla scena del suo tempo, in mezzo a convenzioni, vizi, intrighi, costrizioni di ogni genere se non dalla sua intima convinzione che “il teatro” fosse qualcosa di necessario, di insostituibile nella vita dell’uomo e che si dovesse compierlo anche a prezzi molto alti, anche con approssimazioni che lo fecero ferocemente soffrire, assai più di quello che ancora oggi fanno soffrire noi, interpreti di oggi? Teatro come umana comunicazione, teatro come messaggio di qualche verità grande, chiusa nel cuore degli uomini, teatro come realtà e nello stesso tempo utopia, visione di un presente e proiezioni o profezia di un possibile futuro, ecco il segno di Mozart nel mondo della scena per dirci che l’atto che stiamo compiendo – noi tutti, interpreti e pubblico – con la leggerezza del gioco e la gravità delle parabole, è responsabile, denso di conseguenze, capace di bene e di male, che ha in sé tutta la evanescenza del sogno e tutto il concreto del gesto storico.

In questo senso, Il ratto dal serraglio, sotto l’apparenza del “divertissement à la turque”, sotto l’apparenza dello spettacolo allegro e “senza impegno” (engagement) è un esempio di coerenza o di severità. Ma da conquistare o tentare di conquistare con lo stesso movimento del cuore e dell’emozione che fu tipico di Mozart, cioè con la freschezza e innocenza del sentimento e la complessità del pensiero, la chiarezza del messaggio, della cosa “da dire” al suo pubblico. Basterebbe soffermarci un attimo sulla partecipazione di Mozart alla stesura del libretto e sulla sua responsabilità nell’aver fatto deviare l’originaria storia di Johann Gottlieb Stephanie, ricalcata da un dramma di Christoph Friederich Bretzner, da una storia di pirati, di turchi, di rapimenti e di riconoscimenti in un dramma lessinghiano dove il tema della tolleranza, della bontà, della generosità diventa inno alla vita.

Dove, come in un racconto infantile (ma dovrà sempre essere tutto ciò un racconto infantile, per l’uomo?), il “cattivo” viene vinto dal buono e sparisce in un vuoto di musica al quale fa riscontro il netto disegno del quartetto finale, in cui si canta e si dice: «Nulla è più odioso della vendetta, bisogna essere umani, ecco i segni di un’anima grande!». Ma già prima, un altro quartetto, uno dei più alti certamente che Mozart ha scritto, dove le forme e i temi diversi si unificano in un equilibrio stilistico perfetto, dove un profondo sentimento “religioso” della vita si lega al riconoscimento delle piccole ansie del cuore degli uomini che amano e tradiscono, si compie con il grido di felicità: «Viva l’amore!».

[…] Così Il ratto dal serraglio è percorso da questo brivido dell’umano perché Mozart così volle, perché volle alla “favola” dare lo spessore del sogno, ma anche la lezione dell’umanità. Come, non certo involontariamente, è percorso da un senso di libertà, di slancio dei sentimenti che non possono essere rinchiusi in nessuno dei serragli inventati dagli uomini per mortificarli, avvilirli e anche ucciderli.

Così nel gioco turco, nella comicità di tante situazioni appare il profilo già così cosciente e limpido di Wolfgang Amadeus Mozart “uomo” che ha delle idee sul mondo, che vuole cambiarlo col suono e con la parola, che vuole salvarlo con la sua musica perché, attraverso le prove più dure, trovi il suo destino di luce, proprio come la parabola del Flauto magico ci racconta. Dieci anni dividono Il ratto dal serraglio dal Flauto magico, ma il messaggio di tolleranza, di umanità e di fraternità e fiducia non è cambiato, perché esso fa parte inscindibile della personalità mozartiana. Come fa parte del suo ideale storico una misura dell’Europa non enunciata a parole ma con tutta la sua opera di uomo di musica.

Apporter une leçon d’humanité en donnant à la fable l’épaisseur du rêve…, programma di sala de L’enlèvement au sérail, Opéra de Paris, stagione 1983/84; pubblicato anche in “Corriere della Sera”, 21 gennaio 1984

Tra favola e simbologia: Il flauto magico

Quanti sono i “piani costruttivi” che si intersecano nel Flauto magico, per prima cosa, per tentarne una rappresentazione? E come questi sono svolti nella “favola” e nella musica, quella musica che tutto spiega ma anche tutto vela in virtù di quella capacità di infinito, di indeterminatezza che è nella musica? Uno dopo l’altro, in una confusione di termini, mi viene da scrivere: piano cosmico-metafisico-simbolico (massoneria compresa), piano favolistico-infantile; l’eterno e il contingente infantile legati a costruire la “storia” della vicenda. Se favola è Il flauto magico, essa è certo una favola-archetipo. Forse una prima affermazione mi pare più sicura delle altre: quella di considerare il Flauto una grande favola che affonda però, insieme ad altre poche storie della poesia umana applicata al teatro, nel grande mondo dei fatti primari, delle storie ancestrali, dell’inconscio, non meno dell’Orestiade, non meno di Edipo re, non meno del Faust primo e secondo, non meno di Re Lear. Poi direi: il piano logico, il plausibile, il necessario-realistico-attuale-plausibile sulla scena che anche la favola deve sempre soddisfare. Esiste un piano logico, umano, accettabile e comprensibile, che il teatro non può dimenticare mai. Esso è uno dei fondamenti della rappresentazione. Tutto può succedere a teatro, anche l’assurdo e l’incongruo, ma questo deve avere una sua logica necessità poetica, una sua – direi – ineluttabilità di chiarezza. Così anche Il flauto magico richiede all’interprete una continua capacità di rendere chiaro il mistero, proprio perché mistero rimanga.

C’è poi il piano “teatrale”, quello del divertimento teatrale, se vogliamo la “magia scenica”, l’incanto, il gioco, lo stile, la situazione “teatrale” di un certo fatto poetico nella storia del teatro e del costume, lo stile, i legami del mondo della favola e dei suoi personaggi con la Commedia dell’Arte, o almeno del suo ultimo filone, gli incanti barocchi, la problematica della scenografia del meraviglioso, il teatro popolare viennese e persino l’edificio del Theater auf der Wieden. È questo un primo elenco, abbastanza denso e in un certo senso insondabile, dell’intrecciarsi dei temi che Mozart risolse in musica con una incredibile “apparente” facilità e con una chiarezza che è invece insostenibilmente complessa. […]

Si parla e si è parlato tanto dell’eterogeneità del libretto del Flauto e lo si è considerato sempre come un fattore negativo dicendo che – per nostra fortuna – Mozart risolse questo «coacervo di stupidaggini e incongruenze» in una unità musicale senza precedenti. Ma io non sono mai riuscito a leggere le pagine di Schikaneder come un materiale bruto al quale Wolfgang Amadeus Mozart ha quasi malgré lui donato ali e suono. A me, il libretto del Flauto magico è sempre apparso una straordinaria matrice di teatro, una grande invenzione poetica, certamente non alta quanto lo fu poi la musica di Mozart, ma sufficientemente librata da concedere assai più che un punto di partenza di quell’idea musicale che da esso sarebbe nata. E poi, quanto c’è di Schikaneder o, ammettiamolo per ipotesi, di Gieseke, e quanto c’è di Mozart, nel libretto del Flauto? Perché non ammettere la presenza, nel suo teatro in musica, del letterato Mozart? Gli interventi mozartiani sulla materia letteraria delle sue opere sono continui e spesso documentati, i suoi interventi sono sempre risolutivi e basterebbe per questo ricordare cosa Mozart fece nel finale del Ratto dal serraglio, quando trasformò una storia di agnizioni romanzesche in una parabola lessinghiana sulla generosità e sulla convivenza umana. Da parte mia affermerei che nel libretto del Flauto c’è posto per tutti: Schikaneder, Wieland, Gieseke, ma prima di tutti c’è W.A. Mozart, non “maestro di musica” ma “maestro di lettere”. Non esistono qui documenti di questo lavoro perché esso è l’oscuro lavoro di sempre della creazione di un artista segreto quant’altri mai; ma io non ho dubbi nell’affermare che quanto c’è di alto, di luminoso, di umano, fatti e concetti, situazioni e avvenimenti, momenti e parole, nel Flauto magico, appartengono anche e soprattutto a Mozart. Da ciò la conclusione che, contrariamente a quanto molto spesso si dice e si scrive, Mozart non dovette fare musica contro il libretto, ma musica con e per il libretto che gli si presentava, perché così in gran parte egli l’aveva voluto e l’aveva veduto “aperto” a ogni sollecitazione fantastica, a ogni possibilità musicale. Se il libretto non basta per essere opera letteraria grande e completa è proprio perché esso non deve esserlo, perché deve lasciare il suo posto alla musica di cui è il sostegno più alto e più compiuto possibile.

[…] L’interprete dovrebbe, forse per prima cosa, riuscire a esprimere la vera realtà specifica del Flauto, non lasciarlo cioè diventare una favola senza senso ma con divina musica, ma nemmeno trasformarlo in un grande trattato filosofico con musica. Da qui un altro problema interpretativo generale: la necessità dello spazio per le parti recitate del Flauto magico. Sono, i parlati, un ponte quasi obbligato, ma non fondamentale, alle parti musicali, da ridurre quindi al minimo necessario? (E qual è il minimo necessario?) O sono invece da recitare tutte, dalla prima all’ultima parola?

Non sono a conoscenza di una sola edizione del Flauto magico che abbia rispettato la lettera del libretto. In genere si procede con brutalità contro il parlato, ed è un fatto questo ormai accettato senza discussioni. Tutt’al più, tra un’edizione e l’altra esiste la differenza di qualche parola e qualche frase. L’abitudine ha condannato irrimediabilmente tutto “il teatro parlato” del Flauto magico. Ricordo che quando ebbi a compiere il primo esame sulle precedenti edizioni sceniche del Flauto, in Germania e in Austria soprattutto, rimasi letteralmente sconvolto. Alla prova dei fatti, il testo parlato risultava quasi inesistente, i tagli così abbondanti da far apparire Il flauto magico quasi un’opera buffa italiana con recitativi secchi ai quali si sia tolto il clavicembalo per incantamento.

[…] Ovviamente esiste un problema reale di cui bisogna tenere conto: la incapacità dei cantanti, in genere, di recitare con sufficiente chiarezza e abilità artistica i dialoghi che sono talvolta lunghi e stilisticamente non facili con i loro “a parte”, le loro ripetizioni e le loro cadenze settecentesche. Io credo che su questo versante bisognerebbe operare con buon senso, accettando, per quel tanto che è necessario, la situazione artistica degli interpreti, e considerando che una interpretazione moderna del teatro settecentesco tende naturalmente a una maggiore concisione. Stabilire dunque un testo letterario plausibile, corretto, che esalti il necessario, chiarisca i nessi oscuri, faccia insomma capire la realtà delle favole e crei le necessarie zone di “recitazione” o di “azione teatrale”, tra un fatto musicale e l’altro, potrà essere un primo passo per una corretta interpretazione del Flauto magico.

[…] La caratteristica più certa dello spettacolo contemporaneo rispetto a quello settecentesco è che è diventato sempre più macroscopico e ha spostato sempre di più alcuni suoi valori di rapporti e di suono e di ritmo. Il primo Flauto magico fu recitato in un teatro di meno di mille posti, con un boccascena che non superava i dieci metri. L’orchestra possiamo considerarla nel suo insieme composta dalla metà degli elementi di un’orchestra sinfonica odierna e tutti gli strumenti avevano più o meno una sonorità molto più piccola e un timbro meno vivido. Il coro non ammontava a più di quaranta-cinquanta persone. […] In questo “teatro all’italiana” è nata la favola del Flauto. È nata in queste umane proporzioni, in un legame strettissimo con un suo pubblico raccolto, in mezzo a “macchine” semplici, meccanismi primitivi e serpenti fatti di corda, legno, carta, tela e alla luce di candele, alla ribalta e alle quinte: un tremore di molte candele. In questa atmosfera infantile, natalizia, di gioco teatrale che “fa il vero e il non vero”, in questa convenzionalità del magico teatrale, si è svolta, la prima volta, la favola metafisica del Flauto magico. E di questo bisognerà, a mio avviso, tenere sempre conto. I cantanti-attori erano certamente abituati a un genere di teatro-musica in cui i confini tra recitazione e canto potevano sfumare a piacere, anche perché la recitazione vera e propria non poteva essere realistica o meglio naturalistica, ma convenzionale, ritmica, molto più ravvicinata alla convenzionalità del canto di quanto oggi non sia. Significa tutto ciò che uno spettacolo del Flauto dovrà essere forzatamente una ricostruzione della sua “prima rappresentazione”? L’agguato della “ricostruzione storica” sta sempre davanti all’interprete dei testi del passato poco saggio o troppo saggio, come se si trattasse questa di un’ancora di salvezza che ha anche il fascino dell’erudizione.

Ma non si ricostruisce per nulla, dal di fuori, uno spettacolo perduto nel tempo. Esso non è più rintracciabile. Rimane o deve rimanere intatto invece lo “spirito profondo” che ha determinato un testo drammatico nel suo momento storico, non i suoi particolari costruttivi.

Problemi interpretativi del Flauto magico, in Wolfgang Amadeus Mozart ed Emanuel Schikaneder, Il flauto magico, Milano, Rizzoli, 1975

 

L’idea iniziale del Flauto era questa: l’eroe incontra la Regina della Notte, che gli dona un ritratto di sua figlia e lo incarica di liberarla dalla prigione nel castello del perfido mago. Poi, probabilmente per il fatto che una vicenda simile stava per essere rappresentata a Vienna da un rivale di Schikaneder – il presunto autore del libretto – il mago cattivo venne tramutato in emissario del Bene, mentre la Regina della Notte diventava l’agente del Male. Nel testo, almeno nelle prime parti, è rimasta una certa ambiguità, che poi è uno degli elementi più drammatici. Il pubblico non capisce bene, non individua subito i buoni e i cattivi. E questo è teatro.

Schikaneder cercava un pretesto per fare un’opera di sprizzi e sprazzi e di effetti spettacolari, adatti al suo pubblico popolare [era impresario del Theater auf der Wieden, ndr]. E Mozart lo accontentò, perché sapeva lavorare su ordinazione, come tutti i grandi artisti. Ma nello stesso tempo trasformò il Flauto in un’apologia massonica, qualcosa mille miglia lontana dalle idee di Schikaneder. Così come i pittori del Rinascimento, richiesti di dipingere una “Madonna con santi”, potevano fare un’opera convenzionale o un capolavoro. Per tutta la sua vita Mozart realizzò quello che aveva in mente lui, secondo un suo programma preciso.

Wolfi marito voyeur, intervista di Stefano Malatesta, “la Repubblica”, 9 aprile 1985

La crisi storica e politica delle Nozze di Figaro

Non credo che per fare una regia d’opera si debba inventare una cosa al di fuori di quell’opera. Figurati un’opera così importante storicamente, e così importante nella sua precisione storica come questa. Saranno dunque [costumi] settecenteschi, del Settecento avanzato, ma attraverso questi caratteri si darà l’immagine di quella società: quelle parrucche tirate qui sulla fronte, un po’ secche; quelle lunghe cose un po’ smollate che erano gli abiti dell’aristocrazia; una società che si fa sentire istintivamente o involontariamente un po’ in liquidazione. […] Un’immagine che cerca di capire quella società, quel mondo. Con la sua bellezza, con i suoi significati, con le sue abitudini… Il salottino della Contessa sarà una sala da musica, con gli strumenti… Il giardino dovrà essere incantevole, ma non un posto eccezionale, perché è ciò che avviene, la grande notte mozartiana, che è eccezionale, che porta il suo mistero, la sua verità, non il luogo, che deve invece accoglierla

[…] Sarà un discorso certamente anche politico, perché Mozart è fortemente politico in quest’opera, quasi più di Beaumarchais, in un certo senso, perché non affida la polemica a qualche tirata, a qualche momento importante, ma mostra la critica storica e politica attraverso la scoperta dell’umano, senza uscire dal discorso morale, dal discorso estetico. Tutto è carico di forza politica, perché Se vuol ballare, signor contino, che Figaro canterà battendo gli abiti appesi del padrone, contiene già tutta la rabbia, e dal modo in cui pronuncia le parole c’è il suo giudizio sociale e il realismo di Mozart che lo mette in scena, ma lo è ancora di più perché è naturale, inevitabile quasi, esce dal resto della storia e del personaggio senza alcun salto di linguaggio e senza alcun programma.

[…] Ogni commedia è anche amara. Ma questa società, in cui il Conte non vuole accettare di perdere i diritti che ha già perso, e in cui il Conte deve chiedere perdono a sua moglie davanti a tutti noi, io direi allargando semplicemente le braccia un po’ così, come uno che ha capito d’essere un povero disgraziato come tutti, come tutti lo siamo, una società che a questo gesto di umiltà si raccoglie in una specie di corale religioso e poi si precipita al congedo gioioso, come per la festa dell’opera che si chiude, contiene una bella carica di speranza. È l’ora della borghesia nascente: mi piacerebbe che riuscissimo a far pensare il pubblico su che cosa ne abbiamo fatto di quelle speranze.

Intervista di Lorenzo Arruga, programma di sala de Le nozze di Figaro, Teatro alla Scala di Milano, stagione 1980/81

L’umana commedia di Don Giovanni

La partitura del Don Giovanni è terribile: non è un’esagerazione; non si esagera mai con un’opera come questa, come non si esagera con la Divina Commedia. […] Uno dei problemi essenziali legati alla sua messinscena è quello di trovare il ritmo giusto, la vivacità, il guizzo necessari a tradurre il movimento drammatico e musicale. Problema complicatissimo perché in nessuna opera come il Don Giovanni si trova un equilibrio così disequilibrato, una follia così ferreamente regolata dalle leggi del cuore, una simbologia così profonda della vita e della morte, uno sguardo alle zone più oscure, indicibili del nostro essere. La mia lettura del Don Giovanni – anzi la “nostra” lettura, perché non posso in alcun modo disgiungere il mio lavoro da quello di Riccardo Muti – è stata fatta in profondità, completa e totalizzante anche se, ne sono consapevole, è colma di interrogativi non risolti. Non sarà forse “il” Don Giovanni, ma sicuramente “un” Don Giovanni il più vicino possibile alla complessità del discorso mozartiano. Quest’opera, insomma, ci supera sempre nel suo valore assoluto, anche se si può tentare un’interpretazione tendenzialmente totale.

Mi sono anche chiesto: che cosa è formalmente, oggi, il Don Giovanni per noi? Un’opera nella tradizione del teatro del Settecento, cioè di forme chiuse. Ma, e questa mi è sempre parsa una delle qualità della sua grandezza, con uno scatto continuo da parte del suo autore per uscire da queste forme chiuse. Allora il mio compito di regista sta nel tenerla ancorata allo stile del suo tempo, ma anche nell’oltrepassarlo. Senza mai dimenticare, neppure un momento, che è un’opera scritta nel 1787, due anni prima della Rivoluzione Francese, ma che è legata strettamente al suo tempo storico, pur percorrendo secoli di invenzioni musicali e drammaturgiche.

Don Giovanni come la commedia umana: c’è la crudeltà, il cinismo, la seduzione, il gioco, il divertimento, il vizio dell’amore-non amore, l’eroismo del rifiuto della trascendenza che però è anche il limite del personaggio. Don Giovanni come un mito. Avevamo pensato, lo scenografo Ezio Frigerio e io, a una scena che ci portasse a Praga dove l’opera è stata data la prima volta. Praga con i suoi colori, con il suo fiume e i suoi ponti. Ma subito ci siamo resi conto che Don Giovanni doveva restare legato alla sua mediterraneità, che qui i climi sono precisi, che Mozart stesso è rimasto fedele alla leggenda spagnola. È così è nato questo Don Giovanni.

Don Giovanni è l’uomo della non-deità: senza bagliori metafisici. È spagnolo, è giovane, fondamentalmente allegro, vitale. Si diverte, ride. Non è solo eros. L’equazione amore-morte dentro la quale si è spesso voluto racchiudere il suo personaggio non ha ragion d’essere. Prendiamo il suo rapporto con le donne, che Don Giovanni non consuma mai. L’unica donna con cui va molto vicino alla conclusione è Zerlina; ma in questo caso è lei a sedurlo. Le donne però gli sono necessarie per esistere, anche se lui sembra posseduto da un dáimon, che lo costringe a essere perennemente in fuga anche da se stesso. Il suo impulso vitale, da un certo punto di vista, fa paura. Così in questo personaggio vedo una specie di passaggio necessario al male assoluto che sarà simboleggiato nel Flauto magico dalle prove dell’Acqua e del Fuoco che Tamino e Pamina debbono attraversare.

Leporello è l’alter ego di Don Giovanni, il suo vero e proprio doppio, magari degradato. Come succede nella scena con Elvira del secondo atto, i due sono intercambiabili. Anzi, si potrebbe addirittura dire che, a Leporello, Don Giovanni demanda il compito erotico di consumare in vece sua. Fra i due esiste una fascinazione ambigua, ma appena accennata, e il loro è sicuramente qualcosa di più che un rapporto fra padrone e servo. Leporello è il pubblico di Don Giovanni. Sono una coppia indistruttibile, come Caliban e Prospero nella Tempesta. Senza Leporello, Don Giovanni non può esistere. Leporello è un personaggio che ha a che fare con la Commedia dell’Arte, ma anche con Molière: è sempre un po’ laido, rappresenta il lato limaccioso, più naturale dell’eros, rispetto a quello “malato”, più intellettuale di Don Giovanni.

Donna Elvira è forse il ruolo più drammaturgicamente difficile di tutta l’opera. Il pubblico la vive come una forza persecutoria nei confronti di Don Giovanni. È ossessiva nel suo amore. Da parte sua, Don Giovanni la evita “come la peste”. Ma noi la viviamo come una donna onesta, perbene, che ha dentro di sé una fiamma che sconvolge il perbenismo di facciata. È in preda a un vero e proprio delirio erotico, è accecata dall’amore, tanto che quando Leporello si sostituisce a Don Giovanni non si accorge di nulla.

Per Donna Anna mi sono chiesto se il senso di questo personaggio sia legato a una colpa che non si vuole ammettere, se in qualche modo lei non amasse Don Giovanni pur volendolo morto. Forse ha provato piacere per la violenza che lui ha tentato di farle entrandole in stanza, anche se non può confessarlo. Devo anche dire che le reticenze della sua confessione a Ottavio mi hanno molto turbato, perché le ho trovate volutamente devianti.

Ottavio è un uomo tradito, anche se non lo sa. Non si batte in duello, è riluttante al giuramento che gli impone Donna Anna sul cadavere del padre. Crede a una certa giustizia, anche se non vuole esporsi. Chi lo interpreta non deve dare solo un’immagine di delicatezza e grazia, ma anche di forza trattenuta, virile.

Masetto e Zerlina sono personaggi meno difficili, senza tragedie alle spalle. Lei è «vergine, giovane, principiante e contadina»: tutte qualità importanti per essere inserita dentro il catalogo di Don Giovanni. Eppure, basta che lei lo guardi perché lui sappia con chi ha a che fare. Masetto è un carattere più complesso. È una sorta di Figaro, il solo che riesce a opporsi alle licenze di Don Giovanni. Eppure, quando lo vuole punire, si lascia togliere tutte le armi: mancano due anni alla Rivoluzione e lui non ha ancora il senso della ribellione sociale.

Il Commendatore è il padre, è vecchissimo, non si vede mai in volto. È una silhouette nera con una parrucca bianca. Quando fugge dalla stanza di Donna Anna e se lo trova di fronte, Don Giovanni non vorrebbe ucciderlo, sente una strana repulsione per questo atto. Forse perché ai suoi occhi il Commendatore rappresenta l’autorità paterna tout court. Uccidendo il Commendatore, Don Giovanni ha commesso il delitto primario. E dopo l’uccisione se ne sta come sgomento: perché? In questo estremo momento del primo quadro del primo atto Don Giovanni, il miscredente, sembra quasi sentire, percepire, addirittura “vedere”, come dice, l’anima. È il figlio di fronte al padre.

Intervista di Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 5 dicembre 1987

Caro Mozart, fratello e maestro

Caro Signore… No. Illustre e Stimatissimo Cavaliere… nemmeno. Caro e Illustre Maestro… nemmeno. Nessuna di queste denominazioni mi sembra possibile per iniziare questa lettera che da molto tempo desideravo inviarVi. Ecco, forse o certamente: caro Fratello e Maestro, certo che Voi saprete dare il significato giusto alla parola fratello e non l’ascriverete a un atto di superbia da parte mia.

Oggi, per un caso (o un segno?) ho incominciato a provare il Vostro DG, al Teatro alla Scala di Milano. È il 29 ottobre del 1987.

Duecento anni fa, esattamente, aveva luogo a Praga la prima rappresentazione della Vostra opera. […]

Non Vi nascondo che mi riempie un alto timore nell’accostarmi al Vostro lavoro, con la sensazione di non esserne all’altezza anche se ho il sentimento sicuro di compiere così un dovere al quale un interprete vero non deve mai sottrarsi.

In questo giorno, dunque, Vi rivolgo un affettuoso ed umile pensiero di gratitudine per tutto ciò che Voi ci avete dato. Per il dono che avete lasciato al futuro, per la vostra richiesta di responsabilità, per il gesto di generosità e fiducia nel teatro e nell’uomo che Voi avete compiuto con la Vostra musica e, quindi, con il Vostro cuore.

Noi faremo tutto il possibile – e forse non è molto, certo mai abbastanza – perché attraverso gli abissi del tempo il Vostro Don Giovanni risuoni ancora una volta, con la speranza che esso non sia troppo lontano dalla sua verità. L’augurio più alto che noi ci facciamo è che, se per caso vi avvenisse di gettare un’occhiata al nostro lavoro, non Vi allontaniate scuotendo la testa, molto insoddisfatto e addolorato per non essere stato – una volta di più – capito.

So che siete sempre stato un uomo buono, ma un giudice severo. Non possiamo non temere il Vostro giudizio. Ma credetemi, è un compito quasi impossibile il nostro – e lo sappiamo – tanto il Vostro Don Giovanni ci appare carico di mistero e di complessità, formali e sostanziali, pur nella sua solare chiarezza. Ma il sole, appena fissato, abbacina. Ci può rendere ciechi.

[…] Caro Fratello, perdonatemi per tutte le domande che Vi ho rivolto. Cosa posso chiederVi d’altro? Di aiutarci?

Ma Voi, più che scrivere il Don Giovanni, nella sua interezza grandissima, cosa potevate fare? Sta a noi tentare di capirVi? E di rappresentarVi il più poeticamente, il più totalmente possibile! Solo questo allora oso dirVi, in questa sera d’autunno del 1987: il Vostro calore ancora ci riscalda. La Vostra pena ancora ci fa male, la Vostra visione del Mondo ci dà ancora speranza.

[…] Siateci vicino, Vi prego, nei giorni che verranno. Ne abbiamo bisogno. E perdonateci i nostri inevitabili errori. Sono errori d’amore, gli unici che si possono perdonare e gli unici, fra tanti, che Voi potete più di chiunque altro capire.

Teneramente e devotamente,

Vostro Giorgio Strehler

Fratello Mozart, perdonateci, “Corriere della Sera”, 6 dicembre 1987

L’inizio delle prove di Così fan tutte

Senza clamore, senza mondanità, semplicemente con uno straordinario raccoglimento, abbiamo incominciato le prove di Così fan tutte di W. A. Mozart.

Il Teatro risuona ovunque della musica e dello spirito di chi stiamo cercando di interpretare. Stanze vuote, spazi freddi e non finiti, corridoi dove quasi non passa mai nessuno sono percorsi ora da suoni meravigliosi, voci di umani e di strumenti che hanno finalmente una vita, trovano, anche se incompleti, una ragione morale per esistere.

Ci siamo, come dire?, barricati sui ponti di questa nave più caldi e più completi, e lì passiamo le nostre ore di lavoro con uno slancio, un amore rinnovato. Coloro che interpretano questo capolavoro dell’umano spirito sono tutti giovani; giovani cantanti, giovani musicisti, giovani collaboratori musicali, giovane direttore d’orchestra. E noi, i vecchi storici del Piccolo, ma non preistorici, continuiamo la nostra missione nel cuore di un progetto nuovo, unico in questo mondo dello spettacolo che indica aumenti di pubblico – come non compiacercene? – ma non garantisce qualità, progettualità, ricerca e idee.

Noi, da due anni ci battiamo per un “cambiamento” di mentalità, offrendo proposte per un nuovo modo di intendere il Teatro Pubblico, un diverso rapporto con la collettività per un vero “teatro” d’arte. Così fan tutte di Mozart aprirà un Nuovo Piccolo Teatro che si lega, senza caparbietà, al vecchio Piccolo Teatro. Non è senza senso che solo un corridoio unisca già due Teatri vicini fisicamente e spiritualmente, dove, in uno l’avvenimento teatrale è per molti e cerca di essere il più completo esteticamente, e nell’altro crescono gli attori di domani, e si dà una casa, uno spazio e dei teatranti, a coloro che chiedono percorsi diversi.

Mozart nasce in mezzo ai giovani e l’atmosfera intorno a questo lavoro non è “multimediatica” con trombe e tamburi, ma è parca, a bassa voce, in cui si sussurrano e si cantano parole d’amore.

Sono il più giovane dei patriarchi, dicevano in Francia, e parlo con una lunga esperienza, ma trovo ben pochi paragoni nel passato, per quello che sta avvenendo, oggi, in tante sale sparse che si rimandano i suoni senza disturbarsi a vicenda. Io sto vivendo, stiamo vivendo una esperienza tenerissima, anche se piena di severità concettuale, di rigore, di responsabilità.

È la gioia, ecco, che pervade il nostro lavoro come non mai. Gioia di essere insieme, gioia di unire freschezza a sapienza, teatro e musica, sul filo di ciò che Mozart ci ha dato.

Io credo che alcuni geni universali lascino nelle loro opere un carico enorme di energia, di bontà, di felicità anche nel dolore, e che queste si comunichino al di là dei secoli ai loro interpreti, se essi aprono il loro cuore liberamente, con abbandono. E così questa opera in musica, che è più di un’opera in musica, nasce in una “felicità spirituale” quasi incredibile.

Stiamo lavorando, sì, ma non è solo lavoro: stiamo compiendo immensi atti d’amore, e l’amore deve dare felicità.

Siamo serenamente felici, sicuri che daremo qualcosa di nuovo, di bello e di buono ai nostri futuri spettatori.

Ecco un senso di un Nuovo Teatro d’Arte: la felicità di sentirsi umani. L’Arte contro il disumano e il male e tutto ciò che di basso a ogni ora ci circonda.

Dattiloscritto senza data, Archivio Piccolo Teatro di Milano

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