Ho messo in scena Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni per la seconda volta nella mia storia di regista, spinto da un duplice motivo: riaffermare la presenza fondamentale di questo autore nella storia del Piccolo Teatro ma anche nella mia,che a Goldoni ho dedicato molti anni di lavoro; aprire una riflessione non solo celebrativa ma critica, amorevole e grata, che il teatro europeo dovrebbe compiere sulla vita, sull’opera, sulla vicenda umana di un drammaturgo che alla storia d’Europa appartiene.
Di Goldoni, infatti, crediamo di conoscere tutto,ma in realtà della sua opera – centoventi commedie, fra cui almeno venti capolavori –, della sua capacità di far nascere sempre nuove emozioni dell’indagine dell’animo umano, di una sua presenza teatrale percorsa dal folgorante presentimento della fine di un’epoca e dell’inizio di una nuova, sappiamo ben poco. Nell’anno del Bicentenario goldoniano le nuove Baruffe chiozzotte vogliono essere, dunque, sostanzialmente un prologo, uno stimolo per accostarsi al teatro di Goldoni non come a un monumento, ma come a un mondo vivo – carnale e poetico insieme – all’interno del quale i teatranti europei possano riconoscersi per comunicarlo ai pubblici più diversi. Ripercorrendo il cammino verso le Baruffe a ventotto anni di distanza dalla edizione del 1964, ho percepito con forza l’inquietante contemporaneità del “classico” Goldoni, con una nuova meraviglia, come una scoperta appena compiuta.
In questo lavoro, in questo cammino difficile fra passato e presente, per ricostruire l’immagine e il suono di uno spettacolo perduto nel tempo, con tenera memoria e rispettoso amore, sono risuonate ancora, nella loro grazia malinconica, le musiche di Fiorenzo Carpi. Le scene di Luciano Damiani sono nello stesso tempo identiche ma molto diverse, rivissute con uno spirito critico contemporaneo, come i costumi, interamente rifatti sulla traccia di quelli antichi. E se, nella sua concretezza gioiosa, il ballo che chiude lo spettacolo ricorda quello di un tempo, Marise Flach ha fatto nascere per noi qualcosa di nuovo. Gli attori sono quasi tutti cambiati; dell’antica edizione sono rimasti soltanto tre compagni che oggi rivestono ruoli diversi. Altre voci, altri corpi hanno dato vita ai personaggi dei pescatori di Chioggia e delle loro donne.
Quasi trent’anni fa, mettendo in scene le Baruffe per la prima volta, ci siamo detti che forse avevamo visto quello che volevamo ci fosse in questo testo, che forse eravamo andati più in là in una sopravvalutazione affettuosa di un capolavoro. Eppure, a distanza dei tanti anni che ci hanno segnati, ripercorrendo amorevolmente questo grande affresco popolare, non abbiamo trovato nulla di volutamente “folcloristico”, nel suo prendere decisamente partito per il popolo. Perché il popolo – lo diceva anche Brecht – semplicemente è.
Consapevoli di questo, è con amore, tenerezza e speranza che in questa società del disamore, all’apparenza incapace di credere in qualsiasi cosa, persino in una possibile felicità, fosse anche di un attimo, consegniamo queste Baruffe 1992 agli spettatori di oggi. Perché, oggi come ieri, li pensiamo capaci di abbandonarsi ai sentimenti, all’innocenza delle emozioni, guardando la vita che si rappresenta sul palcoscenico con quella tensione che appartiene solo al teatro.
“Corriere della Sera – ViviMilano”, 11 novembre 1992