Le baruffe chiozzotte

1992. Seconda edizione

Alla vigilia del bicentenario della morte di Carlo Goldoni, Giorgio Strehler decide di tornare, dopo ventotto anni, alle Baruffe chiozzotte. Scene, costumi e musiche riprendono quelli dell’edizione del 1964, aggiornati, però, “con uno spirito critico contemporaneo”: i dialoghi, i movimenti si fanno più aspri, più ruvidi. A una società che gli appare dominata dalla menzogna e dal disamore, Strehler risponde con un inno alla dignità, all’onestà, all’umana tenerezza.

Della distribuzione originaria resta solo Elio Crovetto nel ruolo di Padron Toni; Donatella Ceccarello e Gianfranco Mauri, che là erano rispettivamente Orsetta e Canocchia, ora indossano i panni di Madonna Libera e del marito Padron Fortunato.

Personaggi e interpreti

Padron Toni Elio Crovetto
Madonna Pasqua Didi Perego
Lucietta Pamela Villoresi
Titta Nane Armando De Ceccon
Beppo Fabio Sartor
Padron Fortunato Gianfranco Mauri
Madonna Libera Donatella Ceccarello
Orsetta Susanna Marcomeni
Checca Laura Pasetti
Padron Vincenzo Lino Troisi
Toffolo Nino Bignamini
Isidoro Luciano Roman
Il Comandador Edmondo Sannazzaro
Canocchia Sergio Terenghi
Musici Mario Carlini, Leonardo Cipriani, Roberto Lucano, Ivo Meletti
Bambini Daniel Bicchierai, Francesca Cadeddu, Michael Cadeddu
Menola Marco Gattella

Scene di Luciano Damiani
Costumi di Luciano Damiani
Musiche di Fiorenzo Carpi
Movimenti mimici di Marise Flach

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Siviglia, Teatro Lope de Vega, 7 ottobre 1992

Riprese

1992

Lo spettacolo è ripreso a Madrid, Londra, Düsseldorf, Milano.

In alcune recite il ruolo di Madonna Pasqua è interpretato da Maria Grazia Bon; quello di Madonna Libera da Narcisa Bonati; quello del Comandador da Attilio Duse.

1993-1994

Padron Toni Elio Crovetto
Madonna Pasqua Maria Grazia Bon
Lucietta Pamela Villoresi
Titta Nane Armando De Ceccon
Beppo Fabio Sartor
Padron Fortunato Gianfranco Mauri
Madonna Libera Narcisa Bonati
Orsetta Susanna Marcomeni
Checca Laura Pasetti
Padron Vincenzo Lino Troisi
Toffolo Nino Bignamini
Isidoro Luciano Roman
Il Comandador Carlo Montini
Canocchia Sergio Terenghi

Genova, Teatro della Corte, 24 febbraio 1993

La tournée, che prosegue a Firenze, Perugia, Padova, Amsterdam, Vienna, Monaco di Baviera, Parigi, Villeurbanne, Milano e Trieste, termina a Roma nel gennaio 1994.
In alcune recite il ruolo di Padron Toni è interpretato da Mimmo Craig; quello di Madonna Libera da Donatella Ceccarello; quello del Comandador da Edmondo Sannazzaro.

Strehler ne parla

Una grande commedia popolare italiana

Questo spettacolo, secondo me, è più bello di quello di trent’anni fa, perché forse sono diventato più bravo, più saggio, più capace di scavare in profondità. Oggi, per esempio, considero le Baruffe una grande commedia popolare italiana, nonostante il dialetto chioggiano che è in realtà una lingua del cuore. Mi pare perfino più attuale perché è la rappresentazione di un mondo di poveri che molte cose avrebbero da dire a questo nostro, devastato paese di oggi. I pescivendoli, i poveri diavoli delle Baruffe, oggi più di ieri, mi paiono animati da profondi principi e saldi valori. Non per niente, in questa commedia non esiste il Male, l’assassinio, la menzogna, ma al più la baruffa.

Riportato da Anna Bandettini, “la Repubblica”, 1 ottobre 1992

Perché riprendo le Baruffe?

Perché riprendo le Baruffe? Per rattoppare l’immagine di un’Italia decaduta con qualcosa che appartenga davvero alla sua tradizione, alle sue radici. Perché è una commedia autenticamente nazional popolare, come quelle di Viviani ed Eduardo. Perché le Baruffe sono di un’attualità sconvolgente nel gioco dei poveri e del potente. Goldoni, non dimentichiamolo, aveva maltrattato i borghesi oscurantisti nei Rusteghi, aveva sparlato dei nobili, aveva protetto i plebei, e Gozzi, perfidamente, lo accusava di essere amico del turpe Voltero, cioè Voltaire, insulto massimo. Ma Goldoni era noto in tutta Europa. Lessing lo amava, Mozart rischiò di fare un’opera dall’Arlecchino e a 11 anni e mezzo aveva musicato La finta semplice, che vorrei allestire la prossima stagione. E io amo Le baruffe perché vi sono assenti il Male, l’assassinio, la menzogna organizzata, insomma tutto quello che oggi prospera in Italia. E quando vedo questi ragazzi recitare, pur nel mio sconforto, nel senso di inutilità che ti prende ogni giorno, mi chiedo: e se magari non fosse ancora tutto perduto?

Riportato da Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 1 ottobre 1992

Sarò lontano il 6 febbraio

Cari amici delle Baruffe!
Cara Pamela, Gianfranco, Lino, Susanna [Pamela Villoresi, Gianfranco Mauri, Lino Troisi, Susanna Marcomeni, ndr] e via così…
I vecchi e i nuovi. La mano del Diavolo (e io saprei a chi ascriverla) ha colpito le nostre Baruffe, ma le nuove creature che hanno prestato con amore e coraggio il loro corpo, il loro talento e la loro voce al nostro spettacolo, le fanno vivere ogni sera.
Ecco: vivere. Far vivere non le Baruffe, nemmeno G., ma il TEATRO. Questo importa. Più d’ogni altra cosa.
Sono lontano. Sarò lontano la sera del 6 febbraio, quando avrei voluto fare una piccola festa per G., sparito come tutti gli umani duecento anni fa. Ma dovete sentirmi con voi, sempre. Vi penso con tenerezza e preoccupazione e anche con un sentimento di colpa. Come se avessi lasciato i miei figli soli, in una stanza, in un giorno che doveva essere di festa. Mi consola il sapere che la stanza è invece luminosa, piena di suoni, di musica e d’amore. I bambini devono sentirsi più protetti. Cosa dirvi? Unitevi, cercate di tenere alto il cuore e il nostro spettacolo. Farlo ogni sera migliore; più vivo e più vero. Al di là di me, di noi. Ne siete capaci. Se riusciste a ciò, avreste fatto il più grande gesto d’amore possibile nei miei riguardi. Non parole, non lettere. Questo: lo spettacolo, alla sera, per la gente.
Ho sentito da qualche parte che un fucilatore di partigiani ha sbavato scrivendo che “eravate sottotono”. Non so. O qualcosa del genere. Mi è sembrato strano. Quando mai siete stati “sottotono”? Però può darsi che nelle traversie, nelle sostituzioni, qualche sera, qualcosa abbia vacillato. È del tutto umano. Penso che se ciò è avvenuto, oggi ogni cosa abbia trovato il suo equilibrio.
Pensate sempre che una sera, qui, in questa grigia città dell’odio, reciterete le Baruffe, e avrete accanto Il campiello e, più in, là l’Arlecchino. Non potreste celebrare meglio la morte di G.
Se potete, riunitevi, voi degni attori italiani, come dei superstiti. Vogliatevi bene, parlatevi e ricordate.
Io credo di essere con voi, in qualche modo più o meno misterioso.
Appena possibile vi ritroverò per riannodare i fili, forse qua e là allentati. Non dubitate. Siate fieri di essere quello che siete. Appartenete a un teatro che è stato glorioso e lo ritorna a essere ogni sera, attraverso di voi.
Buon Anno Nuovo. Esiste un anno nuovo? Io non lo so più.
Vi abbraccio

Giorgio

Lettera alla compagnia delle Baruffe chiozzotte, dicembre 1992 – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Una “missione teatrale” in Italia e in Europa

Miei cari tutti!

Vi arrivi il mio saluto più fraterno e la mia gratitudine per il vostro “carattere” nel portare avanti questa “missione teatrale” nella quale quasi nessuno crede più. Abbiamo attraversato tempi difficili e altri difficili ci attendono ancora. Ma, in questi, voi avete sentito e sentirete il pubblico, il nostro unico giudice e scopo, insieme ad amare quello che fate, quello che dite e che cosa dite.
Nessuno può toglierci questa gioia e questo orgoglio.
E la nostra umiltà di interpreti è anche fierezza e certezza di essere nel giusto e nell’onesto.
Oltre a recitare Le baruffe chiozzotte di Goldoni, abbiamo compiuto anche una severa operazione culturale. Grazie al sacrificio di molti di voi, in diverse occasioni, c’è stato anche un altro tipo di incontro con la gente. Anche di questo vi ringrazio.
La nostra “compagnia”, la nostra bella “compagnia all’italiana” si merita un tempo di pausa per ritrovarsi insieme e percorrere l’Europa che ci ama, l’Italia che ci ama e quella che non amandoci è costretta per sua vergogna a subirci.
A presto, cari amici e compagni d’arte. Io, il primo di Maggio (è un simbolo, se volete!) rientro dalla mia cosiddetta clausura. Ma, a dire il vero, vi siete accorti proprio che io “ero via”?
Il 28 Aprile sono a Roma, per provare Il campiello, come a Firenze Le baruffe. Nello stesso giorno, a Milano, si apre il processo che mi riguarda. Io, là, non ci sarò. Sarò con una parte dei miei attori e con tutti quelli che abbraccio questa sera.
Niente patetismi. Ma indignazione, sì. Un velo di vergogna ricopra persone non degne, uomini oscuri che si chinano sulla purezza a loro sconosciuta.
Un saluto e un bacio il vostro

Giorgio

Lettera agli interpreti in vista della tournée, 24 aprile 1993, in Lettere sul teatro, a cura di Stella Casiraghi, Milano, Archinto, 2008

Con Goldoni si entra in un mondo vivo

Ho messo in scena Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni per la seconda volta nella mia storia di regista, spinto da un duplice motivo: riaffermare la presenza fondamentale di questo autore nella storia del Piccolo Teatro ma anche nella mia,che a Goldoni ho dedicato molti anni di lavoro; aprire una riflessione non solo celebrativa ma critica, amorevole e grata, che il teatro europeo dovrebbe compiere sulla vita, sull’opera, sulla vicenda umana di un drammaturgo che alla storia d’Europa appartiene.

Di Goldoni, infatti, crediamo di conoscere tutto,ma in realtà della sua opera – centoventi commedie, fra cui almeno venti capolavori –, della sua capacità di far nascere sempre nuove emozioni dell’indagine dell’animo umano, di una sua presenza teatrale percorsa dal folgorante presentimento della fine di un’epoca e dell’inizio di una nuova, sappiamo ben poco. Nell’anno del Bicentenario goldoniano le nuove Baruffe chiozzotte vogliono essere, dunque, sostanzialmente un prologo, uno stimolo per accostarsi al teatro di Goldoni non come a un monumento, ma come a un mondo vivo – carnale e poetico insieme – all’interno del quale i teatranti europei possano riconoscersi per comunicarlo ai pubblici più diversi. Ripercorrendo il cammino verso le Baruffe a ventotto anni di distanza dalla edizione del 1964, ho percepito con forza l’inquietante contemporaneità del “classico” Goldoni, con una nuova meraviglia, come una scoperta appena compiuta.

In questo lavoro, in questo cammino difficile fra passato e presente, per ricostruire l’immagine e il suono di uno spettacolo perduto nel tempo, con tenera memoria e rispettoso amore, sono risuonate ancora, nella loro grazia malinconica, le musiche di Fiorenzo Carpi. Le scene di Luciano Damiani sono nello stesso tempo identiche ma molto diverse, rivissute con uno spirito critico contemporaneo, come i costumi, interamente rifatti sulla traccia di quelli antichi. E se, nella sua concretezza gioiosa, il ballo che chiude lo spettacolo ricorda quello di un tempo, Marise Flach ha fatto nascere per noi qualcosa di nuovo. Gli attori sono quasi tutti cambiati; dell’antica edizione sono rimasti soltanto tre compagni che oggi rivestono ruoli diversi. Altre voci, altri corpi hanno dato vita ai personaggi dei pescatori di Chioggia e delle loro donne.

Quasi trent’anni fa, mettendo in scene le Baruffe per la prima volta, ci siamo detti che forse avevamo visto quello che volevamo ci fosse in questo testo, che forse eravamo andati più in là in una sopravvalutazione affettuosa di un capolavoro. Eppure, a distanza dei tanti anni che ci hanno segnati, ripercorrendo amorevolmente questo grande affresco popolare, non abbiamo trovato nulla di volutamente “folcloristico”, nel suo prendere decisamente partito per il popolo. Perché il popolo – lo diceva anche Brecht – semplicemente è.

Consapevoli di questo, è con amore, tenerezza e speranza che in questa società del disamore, all’apparenza incapace di credere in qualsiasi cosa, persino in una possibile felicità, fosse anche di un attimo, consegniamo queste Baruffe 1992 agli spettatori di oggi. Perché, oggi come ieri, li pensiamo capaci di abbandonarsi ai sentimenti, all’innocenza delle emozioni, guardando la vita che si rappresenta sul palcoscenico con quella tensione che appartiene solo al teatro.

“Corriere della Sera – ViviMilano”, 11 novembre 1992

Non un monumento, ma qualcosa di carnalmente vivo

Ci sono spettacoli che appartengono alla storia di chi li fa, ma anche di chi li vede. Gli spettacoli che ritornano non sono mai fatti con lo stampino. Mutano come mutano le persone, gli attori, il regista. Chi ha visto le Baruffe nel ‘64 le troverà diverse, oggi, anche nel messaggio. E poi sono passati trent’anni: quasi tre generazioni di spettatori non ne sanno nulla. E allora? Allora guardiamo a questo spettacolo non come a un monumento, ma come a qualcosa di carnalmente vivo che cambia continuamente.

Intervista di Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 14 novembre 1992

Le Baruffe, una metafora del mondo

La rappresentazione delle Baruffe chiozzotte, a duecento anni dalla sua morte, è anche un fatto simbolico, e mi auguro che sia il prologo e lo stimolo per accostarsi al teatro di Goldoni, da parte di uomini del teatro europeo, per comunicarlo ai pubblici più diversi. Essi ne trarranno sempre emozioni e conoscenze dell’animo umano, riceveranno gesti amorevoli, affettuosi, perché Goldoni, anche se talvolta duramente critico, è sempre un essere amorevole e affettuoso.

Con una storia semplice Goldoni ci presenta i rapporti tra esseri della vita, capiti dal di dentro. Una storia d’amore e di tutto quello che l’amore comporta di contrastante, di difficile e persino ambiguo.

Ma in questa commedia di “baruffe”, di scontri, in questa commedia aggressiva e a tratti violenta, nulla è fatto soltanto per “scherzo” o per comodità di teatro o per far ridere. Ogni cosa, anche la più comica, avviene sempre “sul serio”. Ma nulla mai è fatto per il male.

In questa società del disamore, dell’incapacità di amare, di credere ancora in qualcosa – ad esempio nella bontà fondamentale dell’essere umano con le contraddizioni e i suoi affanni, in una possibile felicità, fosse pure un’ora – le Baruffe ci hanno rassicurati nella convinzione dell’umana tenerezza. Il riso ha preso il posto dell’angoscia, il riso e il sorriso per le creature della terra, anche le più diseredate e più povere. Ci hanno fatto toccare un brandello dell’umana verità.

Con l’incandescenza poetica che fa tutto realtà, e continuamente la supera, le Baruffe sono una metafora del mondo. Quella metafora che solo la grande poesia, drammatica e no, può toccare e offrirci. Basta che noi lasciamo scorrere il flusso della vitalità racchiusa nel testo; basta che ci lasciamo portare per mano ad assistere allo spettacolo di una piccola-grande parte della vita umana sulla terra.

Guardiamola questa vita con l’abbandono dei sentimenti. Sentiamola quant’è pulsante; e ascoltandola e vedendola sull’alto palco del Teatro del Mondo, ascoltiamoci nel profondo e nel profondo guardiamoci, per sentirci più vivi e più fraterni.

Goldoni. Tutto genio e regolatezza, “Grazia”, 29 novembre 1992

Documenti

Attilio Duse. In prova con Strehler: spettacolo sul palcoscenico e spettacolo in platea

Attilio Duse. In prova con Strehler: spettacolo sul palcoscenico e spettacolo in platea

12 settembre 1992

Dalle 15:00 alle 17:00 il regista Raffaele Maiello, coadiuvato da Gino Zampieri e Marise Flach, prepara gli attori; in palcoscenico, il tracciato delle scene della commedia. Dalle 17 alle 21 ci lavorerà Strehler.
Gli interpreti sono truccati e vestiti in costume chiozzotto del Settecento. Le scene e i costumi sono firmati da Luciano Damiani, prestigioso. È lì a ogni prova e la sua presenza è moraleggiante. Il personale tecnico è di alta professionalità collaudata e coniata da tanti spettacoli di successo in Italia e nel mondo, con il Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa.
Io sono qui a Milano, al Piccolo, per la consulenza del dialetto chioggiotto. La parlata melodiosa dei miei nonni e di mia madre…
Giorgio con la sua regia sta ricreando quel realismo poetico della gente chioggiotta osservata dal “vivo” e fissata nella historia del Teatro, dal genio goldoniano. L’incontro Strehler-Goldoni è felice, d’affinità elettive, ideale. Un affresco ne esce fuori, dai toni e dalle tinte lagunari, che lui stacca dal muro con amore di regista illuminato, e lo vivifica con sfumature d’ineffabile malinconia esistenziale. Giorgio mescola le sue indicazioni, intuizioni, istruzioni, parabole, massime, appunti di regia a espressioni boccaccesche, sanguigne, fantasiose che rendono efficace e colorito il suo pensiero ancor più accessibile. «La luce azzurrina della lanternina» che è appesa tra le altre sulla sartia della tartana, con colori diversi, per la festa del finale della commedia, «è debole. Giordano, sistemala e rinforzane i riflessi… Lo so che sono il solito rompi… pignolo, perfezionista…».
Ma l’Arte è concetto ideale di perfezione, penso io, e questo è in lui, nella natura, nella creatività sue… Ecco, ora la luce della lampadina brilla di luce azzurrina con riflessi teneri. E lui, giù una sequela di concetti sugli effetti di luce accompagnati da riferimenti ad altri spettacoli e della luminosità dei diversi “piazzati”, tutto condito da boutade salaci, vive, blasfeme: sacro e profano.
Noi ti ascoltiamo in silenzio, con passione e ti guardiamo come ti muovi tra palcoscenico e platea. E parli, declami, reciti, con sobria gestualità e poi ti tuffi nella danza con gli attori che provano la furlana e scandisci loro il mimo, il tempo musicale nella precisione dei passi e… tanta gioia di vivere insieme. In platea gli uditori sono incantati, magati. Assumono anche loro, misteriosamente, un ruolo, addivengono dei personaggi della commedia, giù nel parterre, personaggi seduti in poltrona con espressioni del viso, diverse. Spettacolo in palco e spettacolo in platea. La commedia umana con la complessità dei suoi pensieri. Il teatro e il suo doppio. Il trucco e l’anima. Tutti insieme per un ideale, collettivo, socratico, sociale, d’incontro quale rito mistico che ci trasfigura e migliora. Quale mistero il Teatro! Questa, Giorgio, è l’etica tua, che ci trasmetti generosamente attraverso il tuo operato di artista.

Attilio Duse, dal Diario delle prove – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Elio Crovetto. Padron Toni 28 anni dopo

Quando mi sono presentato, ho scherzato: ho 66 anni e una discreta pancetta e ormai più che le physique du rôleho il fisico del rotolo. Strehler ha riso: vai benissimo anche così. E mi hanno confezionato un abito piuma in modo da sembrare grosso e non grasso. E rieccomi Padron Toni, con gli zoccoloni ai piedi che, non essendo più giovane, mi danno un tremendo fastidio e mi fanno prendere certe storte. Ma che soddisfazione.

Elio Crovetto, intervista di Angelo Falvo, “Corriere della Sera – ViviMilano”, 11 novembre 1992

Pamela Villoresi. La forza delle Baruffe

Le Baruffe si compiono in quell’atmosfera di senza tempo, né stagione, né ore che sa di eternità. E proprio in quell’ambiente caldo, immobile, senz’aria, eppure chiaramente riconoscibile come la Venezia di due secoli fa, io ci ho ritrovato molto della vita di oggi, delle venti ore di lavoro al giorno di mio padre, dei miei familiari, anche se io sono toscana da parecchie generazioni. […]

Sia in Spagna che in Germania nessuno tra il pubblico ci ha mai detto di aver avuto difficoltà di comprensione. I pescatori di Goldoni, le “ciacole” nel campiello sono tradotte dai gesti, anche nelle sfumature meno afferrabili: questa è la forza delle Baruffe.

Pamela Villoresi, intervista di Elena Mantaut, “il Giornale”, 15 novembre 1992

Donatella Ceccarello. Da Orsetta a Madonna Libera

Quali le differenze? Strehler ci vuole molto più vigorosi nella recitazione, quasi violenti e rozzi. Non saprei dire perché, so solo che a Londra ci siamo lasciati andare a una recitazione meno “forte” e lui ci ha richiamato, dicendo che dobbiamo essere più aggressivi, più potenti. La compagnia è ben assortita, come quella di tanti anni fa. Certo i ricordi sono tanti, e qualcuno ora non c’è più. […]

Una parte [quella di Madonna Libera, ndr] che non mi piace, forse perché temo il confronto con la Maestri, che la interpretò nella precedente edizione. Io allora ero Orsetta, la giovane oggi impersonata da Susanna Marcomeni. Ma cosa vuole, il tempo passa anche per me. La cosa che davvero mi spaventa di queste Baruffe chiozzotte è che in vita mia non ho mai avuto un contratto così lungo. Tra prove e recite, alla fine, passerò più di un anno a parlare dialetto veneziano. E per me che sono romana non è cosa da poco.

Donatella Ceccarello, intervista di Elena Mantaut, “il Giornale”, 15 novembre 1992

Laura Pasetti. Da Strehler l’energia per interpetare Checca

Lavorando in questo spettacolo ho conosciuto il modo meraviglioso di Strehler di lavorare sul personaggio a partire dal carattere stesso dell’attore. Provando con me, mi dava l’energia per essere Checca. Proprio per questo non ho avuto paura del confronto con Ottavia Piccolo. Ed ero già abbastanza occupata ad aver paura del debutto in sé.

Laura Pasetti, intervista di Maria Paola Cavallazzi, “l’Unità”, 15 novembre 1992

Luciano Roman. Tre ore di prova per un “semplice” saluto

Ogni tanto il regista ti dice «Devi fare questo questo questo, e basta». Ci sono dei momenti di quasi tutti gli spettacoli di Strehler (per esempio il saluto finale del Cogitore nelle Baruffe chiozzotte del 1992) in cui lui pretende assolutamente una cosa molto precisa che gli serve per una sua poetica. Quelli sono momenti in cui neanche tu capisci esattamente cosa stai facendo: non sai bene perché da tre ore stai provando e riprovando un semplice gesto di saluto, ma lo fai perché hai un’oscura fiducia che quel momento, che tu non riesci a vedere, che non potrai mai vedere perché sei sul palcoscenico, da sotto invece sarà un momento poetico e importante. Soltanto nel corso delle repliche, sentendo la reazione del pubblico, puoi cominciare a percepirlo, a sentire la sua giustezza. E quindi a sentirtelo addosso.

Luciano Roman, in Giancarlo Stampalia, Strehler dirige. Le fasi di un allestimento e l’impulso musicale nel teatro, Venezia, Marsilio, 1997

Rassegna stampa

Una luce autunnale sulle Baruffe

Identici sono rimasti, se non m’inganno, le bellissime scene e i bellissimi costumi di Luciano Damiani; ma su tutto si posa forse (o forse è inganno del tempo) una luce più autunnale; forse più struggenti si sono fatti gli effetti di controluce, ancora più morbide e malinconiche le penombre. Il che non toglie che lo spettacolo continui a essere o sia più che mai vitale, trascinante e “diurno” fino all’euforia.
Pochissimi sono rimasti, ovviamente, gli interpreti del ‘64; e uno solo ha conservato il suo ruolo. Ma come si fa a parlare dei singoli interpreti di fronte a un’orchestrazione così perfetta, minuziosa e ispirata? Mi sono parsi davvero, senza retorica, uno più bravo dell’altro. […]
Applausi e acclamazioni sembrava non volessero mai finire: così come tutti avremmo voluto che non finisse la danza finale, quella specie di 14 luglio festoso e incruento da cui solo il Cogitore, borghese in esilio o in colonia, resta teneramente, inflessibilmente escluso.
Giovanni Raboni, “Corriere della Sera”, 9 ottobre 1992

Un grande affresco di costume

La dichiarata fedeltà all’edizione del ‘64, la ricerca di quel teatro della memoria attestato dalle stesse scene di un realismo magico di Damiani (ma rivisitate con spirito critico), dalle stesse musiche di Carpi (ma tirate verso una malinconia mediterranea) e dagli stessi movimenti scenici della Flach (ma accelerati in una polifonica coralità) sono riuscite benissimo a evitare il rischio di una “commemorazione”. […]
Le atmosfere “cecoviane” della prima edizione sono state movimentate da un gioco di figure e caratteri fra luce e controluce, dove ogni gesto e parola di questa agitata giornata ottobrina di due clan rivali, mossa dalle esplosioni temporalesche delle liti muliebri, dei rancori maschili e della mediazione arruffona del giudice Isidoro, vengono inscritti in una sostanziale, amorosa complicità comunitaria. Le Baruffe sono un penetrante studio antropologico “dal vivo”, e Strehler ce lo mostra. Così come ci mostra, con quelle scene che sono come la corruzione temporale della grande pittura veneta, il tempo storico prerivoluzionario di una Venezia già investita, anche nei bassifondi popolari, dal Secolo dei Lumi. Un cast di prim’ordine, tutto da elogiare, ha accumulato nell’esordio rumoroso e nel finale a mezzitoni una cascata di effetti, repliche, controscene e giochi mimici che hanno dato una straordinaria densità al racconto. In queste parti Strehler ha voluto rigore, rabbia e indugi sentimentali più cadenzati che nel ‘64, e si è concesso affettuose sottolineature in grottesco (il teatro cambia con i tempi, e un maestro lo sa). Ma è nel bellissimo atto ambientato nel salone grigio della cancelleria che Strehler raggiunge i vertici della sua messinscena, lavorando a fondo sul dialetto e dipingendo un grande affresco di costume con lo stesso sguardo, affettuoso e lucido, di Goldoni.
Ugo Ronfani, “Il Giorno”, 9 ottobre 1992

In prova con Strehler

Ho constatato, assistendo alle prove nella sala di via Larga, con quanta cura Strehler ha ripreso in mano lo spettacolo. […]
Le prove di Strehler sono, come molti sanno, uno spettacolo nello spettacolo, ma per le Baruffe il regista supera se stesso, cesella non la battuta ma la parola e la sillaba, gradua ogni minimo effetto della luce e del suono, vigila sui movimenti corali delle “baruffanti” e dei loro uomini, calibra le controscene. Uomo orchestra, accompagna in sottofondo la partitura goldoniana che conosce a memoria; e da un’indicazione agli attori parte un excursus storico-sociale, spiega perché Isidoro il coadiutore, giovin borghese nel quale Goldoni s’è ritratto, sarà escluso – separatezza delle classi – dalla festa popolare per le multiple nozze. Una prova con Strehler è teatro nel teatro.
Ugo Ronfani, “Il Giorno”, 15 novembre 1992

Una regìa costruita con intelligenza, sensibilità e amore

La luce, una luce neutra e “immobile” già a partire dal telo bianchissimo che, calando a chiudere il boccascena, scandisce i cambi di luogo. Una luce incolore, quindi: come la vita, ch’è indifferenziata sino a quando non la riempiamo noi, dei contenuti che sono le nostre piccole tragedie/commedie quotidiane o i nostri sogni o le nostre speranze. E muta, quella luce, solo nella sequenza finale – completamente inventata rispetto al testo – in cui un dolce tramonto scende sugli uomini e sulle cose. Isidoro, il Coadiutore del Cancelliere Criminale rimane isolato (grazie al solito telo) dai lumi della povera festa popolare che conclude l’azione. Non gli resta che allontanarsi lungo la platea, salvo voltarsi indietro – a un certo punto – e applaudire i fantasmi che ballano la “furlana”, ombre appena riconoscibili proiettate sullo schermo lattiginoso.
Ecco, basterebbe questo a dire dell’intelligenza, della sensibilità e dell’amore con cui Giorgio Strehler ha costruito la regia delle Baruffe chiozzotte di Goldoni. […]
Ma tantissime, del resto, sono le invenzioni a un tempo geniali e toccanti, disseminate in questo spettacolo: come, per fare qualche altro esempio, la voracità con cui le donne – tutte, rispetto al testo originale – prendono a mangiare la “zucca barucca” offerta da Toffolo a Lucietta (si moltiplicano, così, la valenza e l’efficacia dell’“oggetto scenico” che determina e alimenta l’azione); le grida e le cantilene infantili che, salendo dalla strada, inseguono Isidoro tra la polvere e la noia delle sue scartoffie impiegatizie; e, infine, i giochi spontanei e spensierati dei bambini contrapposti ai litigi in qualche modo “interessati” (perché comunque legati a progetti di matrimonio, ossia di affrancamento economico) delle donne […].
Al termine della “prima”, nel trionfo degli applausi e delle acclamazioni, una pioggia di fiori è caduta sul regista venuto al proscenio confuso tra i suoi attori: o, meglio, tra i suoi compagni di lavoro. A un certo punto – proprio pensando al valore che quella “manualità” assume nei tempi d’immemore barbarie – mi si son riempiti gli occhi di lacrime. E ancora una volta m’è tornato in mente quel che lo stesso Strehler mi disse qualche anno fa: «Il teatro è lo stare dell’uomo con l’uomo».
Enrico Fiore, “Il Mattino”, 17 novembre 1992

Una Chioggia così bella da far male al cuore

Strehler ha scaraventato la sua ciurma nella piazzetta tra tetti color ocra e contro un cielo che sembra una grande perla, appena sfiorata dagli zeffiri o dagli echi lontani del temporale.
La gente è lì, seduta sulle sedie da sacrestia, per veder passare un giorno, un giorno solo, ma che sembra lungo un anno, perché la vita sa godersi un lungo rintocco, sotto il sole esitante, prima che una notte avara di stelle timide e poveracce, arrivi e suoni la ritirata per tutti. Quel grumo di popolo noi pensavamo di conoscerlo bene: e invece no, perché Strehler sa coniugare il quotidiano con il fantastico, come nessuno a teatro.
Chioggia inventata da Strehler e da Luciano Damiani, scenografo e costumista, è così bella da far male al cuore, rallentandone i battiti. Diventa spazio della memoria dove si baruffa, si fa pace, ci si imbroglia e ci si ama. Si ride anche del piccolo dolore perché le lacrime vanno conservate solo per i lutti.
Andate a vedere questo spettacolo. Per una volta lasciate spento il televisore, in modo che si assopisca la volgarità che sovente lo abita. Non preoccupatevi se qualche battuta potrà sfuggirvi. Si parla un dialetto duro e dolce, scosceso come una salita, ma che fa presto a trasformarsi in musica.
Grande spettacolo, che non fa rimpiangere quello, memorabile, del 1964.

Sandro Bolchi, “Oggi”, 30 novembre 1992

L’odore delle giornate d’autunno

Si tratta di uno spettacolo splendido, di una bellezza figurativa impareggiabile (dove si troverà mai un regista capace di parlare con le luci come Giorgio Strehler?), attraverso l’occhio entra quasi l’odore di quelle giornate d’autunno, dell’umidità nebbiosa del porto, del salmastro che intride i legni del barcone. E i bianchi vestiti delle giovinette esprimono slancio e candore come i cupi grigi delle anziane esprimono pesantezza e saggezza. E quello zoccolare degli uomini, quell’aspra causticità della lingua che a poco a poco, ma con molta lentezza, si scioglie, permettendo di entrare piano piano negli umori e nella vita del paese! Di comprendere anche noi, poco a poco. E le occasioni di riso, di commozione, di divertimento sono infinite nelle innumerevoli sfumature dell’invenzione registica, nei dettagli che definiscono i caratteri, nell’uso forte e concreto dello spazio.

Sara Mamone, “l’Unità”, 21 marzo 1993

Un inchino per Parigi

Il pubblico dell’Odéon in piedi ad applaudire freneticamente, gli attori costretti a tornare sul palcoscenico sette, otto, nove volte. Alla fine anche Giorgio Strehler non si è potuto sottrarre all’abbraccio dei suoi ammiratori. Al centro della scena, dove poco prima una scatenata “furlana” aveva chiuso Le baruffe chiozzotteStrehler ha risposto all’omaggio di Parigi con un inchino. E poi, ancora richiamato sul proscenio, ha applaudito a sua volta il pubblico e i suoi attori.

“il Giornale”, 7 novembre 1993

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