Le baruffe chiozzotte

1964

Un gruppo di donne sedute davanti alle loro case. Lavorano al merletto, chiacchierano fra loro. Una parlata dura e dolce nel contempo, che sembra provenire da lontananze di secoli. Anche queste donne sembrano lì, ferme da sempre, come la scena bianca e immobile, presagio dell’inverno già vicino, di Luciano Damiani. Ma basta un innocuo pezzo di zucca arrostita, offerto alla ragazza sbagliata, per scatenare delle infuocate Baruffe chiozzotte.

Amorosi e attentissimi studi, un soggiorno di tutta la compagnia a Chioggia per immergersi tra le pieghe di una lingua così particolare. Il centesimo spettacolo del Piccolo, allestito nella vastissima sala del Lirico milanese, inaugura il progetto di un vero teatro popolare, che possa raggiungere più spettatori possibili.

Strehler si confronta per la settima volta con il drammaturgo veneziano, approdando, con questa commedia degli umili, a una personale ricerca di realismo, vibrante di umanità e poesia.

Personaggi e interpreti

Padron Toni Elio Crovetto
Madonna Pasqua Lina Volonghi
Lucietta Carla Gravina
Titta Nane Gianni Garko
Beppo Giulio Brogi
Padron Fortunato Tino Scotti
Madonna Libera Anna Maestri
Orsetta Donatella Ceccarello
Checca Ottavia Piccolo
Padron Vincenzo Vigilio Gottardi
Toffolo Corrado Pani
Isidoro Mario Valdemarin
Il Comandador Gianfranco Mauri
Canocchia Gaetano Fusari

Scene di Luciano Damiani
Costumi di Luciano Damiani
Musiche di Fiorenzo Carpi
Coreografie di Rosita Lupi
Regista assistente Fulvio Tolusso
Assistenti alla regia Klaus Michael Grüber, Alberto Negrin

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Teatro Lirico, 29 novembre 1964

In alcune recite il ruolo di Toffolo è interpretato da Lino Capolicchio.

Riprese

1965

Lo spettacolo è rappresentato a Napoli, Torino, Savona, Firenze, Bologna, Parma, Modena e Ferrara.

1966

Padron Toni Elio Crovetto
Madonna Pasqua Lina Volonghi
Lucietta Carla Gravina
Titta Nane Gianni Garko
Beppo Giulio Brogi
Padron Fortunato Tino Scotti
Madonna Libera Anna Maestri
Orsetta Donatella Ceccarello
Checca Ludovica Modugno
Padron Vincenzo Vigilio Gottardi
Toffolo Corrado Pani
Isidoro Mario Valdemarin
Il Comandador Gianfranco Mauri
Canocchia Armando Benetti

Milano, Teatro Lirico, 8 febbraio 1966

Lo spettacolo è rappresentato anche a Roma, Prato, Vienna, Varsavia, Berlino, Amburgo, Parigi e Zurigo.
Il 5 ottobre è trasmesso dalla Radiotelevisione Italiana.

Strehler ne parla

Il gioco musicale delle Baruffe

Baruffe, commedia di poveri. I ricchi sono assenti. I potenti lo stesso. Il Coadiutore aggiunto è l’unica presenza del potere aristocratico-democratico. Gli “altri” non esistono. Il Coadiutore è un ragazzo, appena uscito dall’adolescenza. È un borghese non molto ricco. Lavora per “imparare”.

Dividere la commedia in tre parti nette: i pescatori tra loro – i pescatori dal potere (cancelleria criminale) – il potere dai pescatori.

I quadri della cancelleria fanno corpo drammatico a sé.

L’atteggiamento del popolo nei rapporti col potere? Diffidenza, timore, attenzione, furbizia. I popolani non si tradiscono tra loro, nonostante tutto.

Realtà probabile: i fatti delle Baruffe sono immaginari come tali. Non lo sono come realtà possibile, come somma di accenti di eventi reali, sparsi in un’esperienza umana. I personaggi non sono ricalcati dal vero. Sono inventati sul vero. Sono reinventati su dati dal vero e agiscono autonomi dal ricordo, eppure nello stesso tempo sono tutti legati al ricordo.

Analisi sociale della commedia.

Vederla tutta e solo, per esercizio dialettico, come rapporto storico, rapporto di forze sociali, di condizioni di classe. Delineare un profilo dei caratteri come tipi sociali, anche forzandoli, ovviamente.

Analisi puramente tipologica – caratteri, abitudini, gesti, dal puro punto di vista naturalistico; storia minuta di uomini e avvenimenti, nei particolari, nelle caratteristiche psicofisiche.

Analisi della trama, dal puro punto di vista del racconto drammatico – succedersi di atti e fatti –, descrivendo anche ciò che è supposto, inventando una storia logica e concatenata per ogni attitudine.

Analisi puramente teatrale delle Baruffe, cioè dinamico-ritmica, aperture di scene, chiusure, ritmi, trovate teatrali, progressioni, allargamenti, atmosfere (se ci sono), situazioni teatrali da sfruttare come fatto teatrale. Esempio: i finali d’atto esistono, come possono essere di effetto? Dove si ride?

Analisi della sintassi delle Baruffe, del ritmo e della cadenza; della rapidità della dizione. Il tono. Il “modo” di esprimere il dialetto. Ricordare certe liti venete, gridate con tono calmo e musicale; apparentemente senza nervi e convinzione ma non per questo meno forti, meno tragiche.

Liti totalmente rilassate, ma non dolci. La mollezza è nel linguaggio, in una specie di attitudine orientale (il caligo, lo scirocco), non nei sentimenti.

Confrontare le analisi e legarle l’una all’altra – non esiste mai il puro tipo logico, il puro sociale, il puro drammatico, il puro raccontare. Un testo drammatico, come la vita, è tutto questo assieme, tutti questi accenti sempre coesistenti e presenti e interdipendenti, accenti spostati di volta in volta sull’uno o l’altro aspetto, con reciproche illuminazioni e influenze.

Complessità del testo drammatico come un qualsiasi gesto umano che implica sempre in sé tutto il possibile, tutto quello che c’è.

L’eternità è chiusa nel battito del ciglio dell’uomo.

Uno dei problemi più importanti, per le Baruffe, è quello di riuscire a rendere il movimento della commedia come un gioco musicale, una danza immemore e purtuttavia a dare quel ritmo, quel giocare ai margini della musica che è una delle grandezze di Goldoni. Tanto che proprio questa maniera è diventata tutto e solo Goldoni.

Ma si è dimenticato l’altro rovescio della medaglia: la realtà, il tono quotidiano, il dimesso, il vero, il sottinteso, il serio e il grave, la critica di costume.

I critici goldoniani faticheranno a trovare in tutto Goldoni un personaggio popolare veramente disgustoso (ci sono alcuni “degenerati” Arlecchini che vanno all’osteria e con puttane, come nella Buona moglie, un Brighella ruffiano, etc. – ma è poca roba, più maschere che altro). Ma quanti personaggi aristocratici pazzi, sadici, assurdi, troveranno a ogni pagina!

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

Tempo – stagione – ore delle Baruffe

Le Baruffe si aprono con una domanda sul tempo atmosferico. È un “boccon de sirocco”. Nel dialetto chiozzotto parrebbe un vento abbastanza forte se “i nostri omeni, i gh’ha el vento in poppe”.

Poi non vi è più alcuna indicazione di questo tipo nel testo.

Le Baruffe si compiono in quell’atmosfera senza tempo, né stagione, né ora che caratterizza le più diverse “interpretazioni” sceniche dell’opera di Goldoni, in genere sempre un’estate o una primavera, calda, immobile, senz’aria, una specie di stagione teatrale astratta. Un tempo senza tempo: né mattina né sera, una luce piena che è solo luce di teatro, solo talvolta il testo indica chiaramente che è notte.

È necessaria questa atemporalità, questa non-stagione, non-ora, per l’opera di Goldoni?

È questo il segno del suo non-naturalismo. Probabilmente l’indizio di una voluta atemporalità di molta opera di Goldoni è diventata nelle interpretazioni successive solo una “comodità” e quindi un fatto definitivo, “necessario”.

Pure, questa atemporalità non pare suffragata da un’osservazione attenta. Senza cercare di calare Goldoni in un’atmosfera e in un tempo stagionale sempre rigorosamente definito, cioè di farlo dipendere da elementi estranei all’azione e alla parola, attraverso influenze reciproche (vedi Čechov per primo), purtuttavia togliere la possibilità a Goldoni di una diversa accentuazione dei tempi, a seconda della necessità “logica” e drammatica delle situazioni, è certo un errore di lettura del testo e spesso un rinunciare alla verità plastica dei movimenti della natura, delle cose, degli anni, intorno ai personaggi e alle vicende goldoniane.

L’esempio delle Villeggiature è probante. Ma anche qui, pur essendo il tema temporale dominante nelle tre commedie – una si svolge prima delle vacanze, una durante, una dopo – il testo non si spinge oltre a vaghe indicazioni. Ma non per questo esime l’interprete dal cercare di capire la necessità poetica, prima ancora che logica, di far svolgere una determinata azione a un’ora piuttosto che a un’altra e, nella stagione determinata, in giornate diverse.

Così la passeggiata romantica è tipica del crepuscolo. È logicamente situata al crepuscolo, perché così in genere gli uomini-villeggianti fanno, e perché poeticamente pare cadenzata sul finire del giorno, verso la malinconia della sera e la promessa dei giochi e dei divertimenti serali… Altrove come si comporta Goldoni? Con quell’estrema discrezione, con quel tanto di enigmatico che ogni grande autore realistico pone sempre nelle indicazioni didascaliche del suo lavoro.

Čechov è parco di didascalie, come di descrizioni di personaggi, di indicazioni extratestuali. Lascia desumere (e molto, a un’attenta lettura, a una lettura in profondità) il comportamento, le caratteristiche fisiche e temporali, di abito e di carattere e ovviamente anche tonali, le età, il passato, gli stati d’animo, dalle parole dette dai personaggi.

Goldoni opera nelle sue commedie in altri limiti, in altro sentimento, da grande autore realistico al tramonto di un’altra epoca, di un’altra civiltà. Qualche raro accenno esplicito, il resto tutto dentro, tutto nascosto nelle cose dette e fatte, nei brevi accenni, nelle necessità logico-poetiche del testo. Qualche esempio:

Inizio Rusteghi: due donne cuciono in una stanza. La giovane parla per prima: “Siora madre”. L’altra risponde: “Fia mia”. La giovane: “Deboto xè fenio carneval”. La più anziana: “Cossa diseu, che bei spassi che avemo abuo”.

Inizio Le massere: “Ste massere le dorme e le me fa subiar, vôi batter alla porta, vôi farle desmissiar”…

“Col vento e con la brosa non gh’ho niente de gusto”. “Aspettè caro fio fin che m’impiro el busto”. “Ben levada”, “Oh che freddo che xe”. “Aveu impizzà el fogo?”. “No gnancora, disè…”

“…Non vedeu? L’alba che spunta fuora”. “O malignazonazzo! Perché vegniu a st’ora?” – “Me pareva caligo, vedendoghe pochetto. – Co xe cussì a bonora voggio tornar in letto…” etc.

Una delle ultime sere di Carnovale: “Puti, vegnì qua. Stassera ve dago festa. Semo in ti ultimi zorni de carnoval. Dago da cena ai mi amici: dopo cena se balerà quatro menueti, vu altri darè una man se bisogna: e po magnerè, goderè, ve divertirè…”

Infine, le Baruffe: “Creature, cossa diseu de sto tempo – Che ordene xelo? Mi no so, varè. Oe, cugnà, che ordene xelo?”

“No ti senti che boccon de sirocco?”

“Xelo bon da vegnire de sottovento?” “Sì ben sì ben. Si i vien i nostri omeni, i gh’ha el vento in poppe”.

Goldoni pare mettere nelle prime parole il clima dell’intera commedia. Da ciò deriverebbe che le Baruffe sono tutte recitate nel clima di una giornata o di più giornate di scirocco. Sono affogate in un’atmosfera fisica piatta, calda, grigia, spessa. Un tempo disteso, che agisce sui nervi in due modi: provocando o la pigrizia o lo scatto. Due modi di depressione climatica che si rifrangono sul comportamento umano. Più oltre non abbiamo alcuna indicazione. Solo dell’ora nel terzo atto, verso sera o pomeriggio, poiché l’interrogatorio è avvenuto di mattina. Nient’altro o quasi. Tutto, il tutto che c’è, se c’è, deve essere desunto dal testo, all’interno delle cadenze psicologico-poetiche e della logica delle azioni, nella loro cronologia temporale.

Variare le atmosfere fisiche e le ore intorno al tema unico della commedia non è un voler andare contro il testo, contro la sua semplicità? Un aggiungere qualcosa di più, per gusto o per moda o fame di “realtà”?

Pure anche il vecchio Ortolani scrive: “Corre nelle Baruffe, ricche dei ricordi della giovinezza, una folata di vento dell’Adriatico, si sente il salso odor del mare e nelle rozze e violente passioni dei cuori primitivi sembra fremere lo schiumeggiar dei marosi sulle dighe”.

C’è veramente nelle Baruffe questo soffiare del vento, oppure no? O non è valida l’indicazione del grigio, dello scirocco? La laguna a ottobre? Il sudore appiccicato alla fronte, il lavoro quotidiano nell’afa, nel caligo, etc…le passioni che scoppiano, le liti, in quest’aria ferma, indicata dall’inizio del testo?

Sono così allegre le Baruffe, come si vuol credere, o il gioco è più duro, più crudele? I caratteri sono convenzionali o invece rappresentano un fatto nuovo nella convenzione, un elemento popolare che irrompe sul palcoscenico con il suo peso e trasforma il gioco, il minuetto, in un qualcosa di più violento, di meno compassato, di meno stilizzato e stilistico?

Il tempo delle Baruffe a poco a poco si è rivelato un autunno più o meno inoltrato. Tutti i particolari lo confermano: lo scirocco, la qualità dei pesci pescati da Padron Toni, la “zucca barucca” calda, le provviste e i regali da Senigallia (tutto il lavoro alle soglie dell’inverno, i primi temporali).

Ma è così importante il tempo fisico, atmosferico, nelle Baruffe?

Credo che tutto il problema stia nel limite e nelle ragioni di questa ricerca. Nel significato che essa acquista nell’interpretazione generale del testo.

Se esso concorre a creare una realtà poetica del testo, se esso aiuta a scoprire la sua eternità nell’attimo, se esso aiuta a demistificare un modulo interpretativo usato, convenzionalizzato da secoli, se esso spinge lo spettatore a capire una “realtà” più umana, più profonda, dietro il gioco delle Baruffe e dei suoi personaggi, allora si tratta di un qualcosa che non può essere tralasciato.

E poiché sono convito che anche questo particolare atmosferico racchiuda in sé tutte queste possibilità, giustifico l’affannosa ricerca di alcuni dati, la vivisezione naturalistica di certi particolari del testo, come se Goldoni avesse coscientemente nascosto indicazioni precise, oggettive, nelle pieghe del suo testo. Ciò che alla fine mi sembra interessi non è tanto l’autunno, il mese o l’ora esatta, supposti per una storia, bensì la possibilità che il tempo filtri tra i telai di carta delle scene e soprattutto l’esclusione di certi tempi stagionali più placidi, più comodi. La possibilità che il tempo si turbi, che si muova intorno al flusso della vita.

Così, dall’estasi immobile di una presunta estate, si passa ai turbamenti dell’autunno. Così nelle Baruffe circola già un’aria di attesa dell’inverno.

Le mattine possono essere già soffuse di nebbia, che il sole fuga, e il vento porta pioggia e sole, come l’attimo nel tempo umano porta lacrime e sorriso. La variabilità della vicenda trova un contrappunto nella possibile variabilità della natura.

Penso che le Baruffe vivano in un giorno di tardo autunno, ancora caldo nel tepore ultimo del sole ma già con brividi di gelo, che preannunciano i fuochi dell’inverno. In una giornata mossa, ventosa ma incerta, in cui il vento e la stagione non riescono a trovare un punto di incontro ma si urtano, si baruffano, si placano e riprendono a contrastarsi fino a trovare, per qualche attimo, verso la sera, una pacificazione, mentre già si allungano le ombre della notte.

È troppo facile tutto ciò, troppo costruito? Pure forse proprio nella sua elementarità, nella sua infantilità di rapporti con la vicenda umana è racchiusa un tipo di poetica popolare, semplice ma non semplicistica. Direi che l’analogia col tempo umano dovrebbe trovare il suo contorno non in una contemporaneità ma in un rapporto più naturale. Cioè le azioni del tempo e degli uomini si contrappongono, si anticipano a vicenda o si ritardano. Non sono in sintonia assoluta ma stanno in un rapporto segreto, la cui legge è misteriosa.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

Unità di tempo delle Baruffe

Le Baruffe si svolgono senza alcun dubbio consequenzialmente. Non c’è soluzione di continuità temporale tra atto e atto e persino tra scena e scena. Da una scena si passa alla successiva, che si svolge esattamente un tempo più tardi della precedente. Esempio tipico: il finale dell’atto primo. 

Toffolo minaccia: “Li vôi querelare”. Inizio secondo atto: Toffolo entra dal cogitore: “Lustrissimo, […] i m’ha dito che i me vuol amazzare”, etc. Così anche per il secondo e il terzo. Così per ogni quadro. Goldoni arriva a una perfezione nella costruzione, per me incredibile, proprio attraverso la cosa più semplice: raccontando la storia come una sequenza di fatti che egli non inverte o sovrappone, ma segue nella sua logica naturale, uno dopo l’altro, con i relativi effetti e le relative conclusioni. 

Una scena sbocca nell’altra e questa in quella successiva, come il tempo umano fluisce nel momento che segue, continuamente, senza sosta. Goldoni a un certo punto ferma il movimento delle azioni, del tempo che passa, perché basta così, ma potrebbe benissimo lasciar fluire la storia dei suoi personaggi, far passare un’altra notte, far apparire un altro giorno, far piovere o far sole, luna, alba, riso, lacrime, grido, querimonia, atti d’amore e matrimoni, nascite e morti. Potrebbe, insomma, seguire il movimento dolcissimo e terribile, continuamente pieno di tanta “baruffa”, cioè di tanto affannarsi per poco, come se quel poco fosse tutto, il tutto vero della vita. 

Perché la “vicenda” delle Baruffe non si conclude veramente, come non nasce nemmeno mai come “trama”, come “fatto interessante”, come concatenarsi di eventi straordinari o almeno che valga la pena di annotare: è un pezzo, piccolo o grande che sia, di realtà vitale, che quasi non si fa nemmeno mostra di essere poesia, tanto appare spoglio e poco dimostrativo di essere poetico. 

Da qui la mancanza, per esempio, di finali di atti e quadri. La mancanza di aperture – meno la prima, che determina tutte le Baruffe: “Creature, cossa diseu de sto tempo?” (pazzo, variabile, straordinario, nuovo, diverso, uguale a sempre e nello stesso tempo diverso, sempre mutato e sempre se stesso, sempre pronto a diventare altro e poi ritornare come prima, ma mai uguale, etc.). 

I cambi di quadri sono interruzioni brevi della storia, gli atti interruzioni talvolta più lunghe, ma si tratta di interruzioni sempre logiche, di passaggio del tempo necessario, applicate alla necessità tecnica del teatro, cioè alla divisione in atti. 

In realtà, non occorre un intervallo tra il primo e il secondo atto, come tra il secondo e il terzo, come non occorre altro che un respiro, una cesura, tra quadro e quadro. Soltanto che qui la cesura “deve” esserci. Deve, per lasciare il tempo ai personaggi di compiere l’azione presunta per disporsi nella scena successiva. Per esempio, Toffolo deve compiere il percorso dalla scena delle baruffe al palazzo del cogitore. Tale tragitto o lo si vede o lo si presume. Goldoni dà il tempo a Toffolo di compiere il suo percorso fisicamente e umanamente, cioè di pensarci un poco su, magari, e ce lo fa ritrovare, dopo una pausa di silenzio, nella situazione immediatamente successiva, all’inizio del secondo atto. 

Tutte le scene delle Baruffe ci appaiono calmamente legate in successione poetica logica e temporale, con una facilità straordinaria. Altro che gioco di costruzione sapiente, tipo odioso Ventaglio, dove tutto è montato come un orologio svizzero di precisione perché l’ora scatti, e l’autore ci fa sapere quanto è abile il meccanismo che ha montato perché scatti all’ora giusta! 

Qui il meccanismo non è montato a priori. È per caso questo; potrebbe però essere benissimo un altro, e con un altro motivo di lite, di incomprensione, un altro difetto di Padron Fortunato, un altro amore, altre cose di vita umana. I termini non muterebbero nella sostanza. La macchina non è montata dall’autore ma dalla ineluttabilità delle cose dell’uomo, che si muovono ora in un certo modo ora in un altro. L’autore non le riordina, le sceglie, ne sceglie alcune, non le più straordinarie, e ce le fa diventare assolutamente straordinarie per virtù di poesia. Perché le Baruffe riescano a far trapelare dal pianto e dal riso, dal futile e l’utile, dal giusto e l’ingiusto della vicenda, al di là dei caratteri, delle psicologie popolari, dei tratti di classe, dei rapporti – insomma al di là della propria storia individuale e della propria “storia” come tempo storico – anche una specie di eternità dell’avventura umana, una specie di trasalimento universale, è probabile che sia necessario recitarle senza dare corpo compiuto e concluso a ogni atto, facendole invece vivere tutte d’un fiato, scandite da tempi diversi, colori diversi, umori diversi, con brevi sospensioni, come una specie di ripresa di respiro, come una certa inevitabilità della ripetizione dei gesti e delle parole, o con una certa variazione sul tema degli stessi gesti e delle stesse parole, senza timore di essere in fondo monotoni, non troppo straordinari, non troppo divertenti… Senza dare troppa importanza “drammatica” alle cose che avvengono, senza tentare di farle diventare come delle parti a sé, degli effetti a sé: lasciare che avvenga quello che deve e può avvenire, che il riso nasca dove e quando può nascere, e così le tenerezze, e così tutto. E che tutto passi, alla fine, come ombra dopo sole e sole dopo ombra e ombra ancora, per poi cominciare altrimenti l’indomani. Che la commedia umana si sospenda, a un tratto, in una festa improvvisata e resti così a mezz’aria, senza vera soluzione, senza conclusione definitiva… E che il pubblico solo “dopo” rievochi l’affanno di questo piccolo mondo, così particolare, così chiuso nelle sue dimensioni psicologiche e storiche, eppure forse così aperto alla grande avventura della vita. Le Baruffe dovrebbero produrre la sensazione di qualcosa di breve, senza trama, da non sapere bene raccontare se non a piccoli tratti, ad accenni – qualche particolarità, un momento, un tipo. Ma nello stesso tempo un qualcosa di vario, di umanamente mobile nella mobilità del tempo, di un giorno qualunque, in un paese, vero e lontano, presente e dimenticato. Un’eternità in un attimo. 

 

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93 

La scenografia

Giorni di pena per le scenografie delle Baruffe. Luciano, con la barba lunga e gli occhi spiritati, che schizza con i carboncini e cancella scene su scene. Meglio: idee di scene, abbozzi, tentativi di scene, così come vengono da un nostro discorso. Io parlo, leggo brani di appunti fatti sulle Baruffe e lui segue le parole con i segni. Come una misteriosa stenografia teatrale. Ma ci siamo arenati. Dopo Chioggia, pieni di tante immagini, abbiamo infilato una strada cieca, probabilmente. Ma io penso che tutto rifluirà decantato, però, dall’immediatezza, dal dato di fatto per il dato di fatto.

Cogliere l’essenziale, il luogo, il vuoto o lo spazio in cui si muove idealmente un mondo come quello delle Baruffe. Ovviamente non un “luogo” reale ma un luogo plausibile, ricco di verità e di poesia, utile per recitare, comprensibile e bello per chi lo vede.

Si tratta, come sempre, di decantare a poco a poco il reale, il naturalistico, dalle scorie della retorica, del vissuto per il vissuto, per isolarlo nella luce incandescente della ribalta – les yeux de la rampe di Molière! – in una specie di eternità, ma senza imbalsamarlo, senza renderlo conchiglia vuota, guscio di madreperla, calcificazione della vita in un simbolo, in una pittura, per quanto sapiente possa essere, e senza nemmeno cadere nel gusto dell’oggetto per l’oggetto, della cosa che si tocca – legno o pietra o altro – come se questa potesse racchiudere magicamente la poesia, che è sempre lavoro di scelta, modellazione, mutamento del dato di fatto da parte del poeta. Nessuna cosa reale, così com’è, è poesia. La poesia sarà sempre dopo. O prima. Memoria o preveggenza, quel che volete.

Respiro delle Barufferitmo scenico, in rapporto ai luoghi, alla scenografia, agli oggetti. Sono sempre due elementi che si alternano; uno aperto e uno chiuso, uno popolare e uno borghese, uno povero e uno ricco, uno vivo – movimento umano di gente che va e viene, ama, ride, baruffa, lavora, dorme, mangia e respira – e l’altro esangue, quasi spento, un qualcosa di antico in declino, soffuso – un vecchio che si aggira tra carte antiche e un ragazzo che aspetta in una grande poltrona di cuoio nero, davanti a un lunghissimo tavolo vuoto. La gente talvolta viene, un poco impaurita, chiede giustizia o viene interrogata – sempre una persona alla volta – e si allontana appena può.

Ed ecco le prime equivalenze: povero, vivo, aperto, per popolare; chiuso, ricco, decadente, esangue per aristocratico-borghese. Così una scena popolare, piena di luce e di aria, di gente viva, viene a ogni quadro cancellata dalla penombra di una grande tela che scende dall’alto e che trema nel momento in cui tocca il suolo, per assestarsi subito in una sua dimensione di stanza, di interno, di luogo chiuso.

Colore delle Baruffe. Colore visivo e colore fonico. Qual è il tono? Il folclore del costume. Il costume popolare. I pescatori e le loro donne: nella realtà storica, colori rossi, verdi, bianchi, etc.; le calze sguarde, lo zendale, etc.; il tombolo. Tutto ciò deve essere visto, nel rispetto storico, con occhio nuovo.

È possibile pensare a una “musica” assai rilevata, quasi sgradevole in certi punti? Cioè a un accordo tonale più aspro?

È legittimo, per togliere la “retorica” del goldonismo, etc.?

Un vuoto d’aria, di vento o caligine, inverno o estate, tenue azzurro diffuso. Nel fondo una linea di vecchie case. Lunghi e antichi squeri, spalancati sulla riva: colore dei secoli – la barca che nasce, la barca morta, affondata nell’acqua immaginaria. Una linea di vita e morte degli oggetti del lavoro sul mare, ininterrotta e sempre rinnovata.

La calma dell’aria sulla vicenda delle cose, che seguono anch’esse il ritmo dell’uomo. Il ritmo dei giorni, delle stagioni.

Dunque, nel fondo, il ritmo delle stagioni o del tempo, più avanti il ritmo delle cose del mare, le cose degli uomini, della nostra poesia teatrale, più avanti ancora, alla riva, una grande tartana, disarmata, grigia, nera, lavata da mille piogge e mille soli: come un punto di passaggio tra l’immobile del fondo e il mobile di ciò che formerà il primo piano della nostra scena. L’oggetto è in disuso, ma ancora solido. I bambini giocano tra riva e coperta e sottocoperta, luoghi di meravigliose avventure. I vecchi seduti hanno il colore del legno e guardano accanto.

E poi, ancora più avanti, due lembi di case che si nascondono alla vista di noi spettatori e di cui noi sentiamo un profilo, una linea di muro o camino, a riportarci il tepore di una famiglia, il ricordo di una stanza – il letto e fogu dei pescatori –. Un tratto da una parte, l’altro dalla parte opposta e, tra i due, un segno lungo che li unisce, in alto. È un breve palpitare di lembi bianchi di tela limpida e liscia nel sole. La terra: un rincorrersi di lunghe tavole di legno, scure e chiare, qua e là interrotte da una calafatura, non sai se teatro o nave; e sul legno il disegno netto, il profilo di una casa, stagliato dal sole, che a poco a poco si muove, si rimpicciolisce, mentre il profilo della casa opposta si allunga, sempre più a segnare il cammino del sole da un’ora all’altra. Più avanti ancora, una riga di ombra fonda, come il segno immaginario di un portico scuro. Più avanti ancora, un’altra riga di luce, che taglia l’avanscena in tutta la sua ampiezza. Un gruppo di sedie, poche, a destra, accanto e quasi attorno al lembo di casa, e un altro sul lato opposto. Le donne, sedute intente al lavoro. Le vecchie, immobili, con gesti d’eternità. Le madri pesanti di corpo e rapide di mano, teste reclinate sul lavoro. Le giovani, mani leggere, teste levate, occhi vivi e attenti e una canzone a mezza bocca, da un lato e dall’altro della scena. Parole che si gettano all’aria. Un gomitolo che rotola verso la ribalta. La corsa di una ragazza per afferrarlo prima che cada giù. La figura di un’altra creatura, rilevata di colore nel fondo, presso la barca antica e immobile, con le gonne fasciate di vento. E un piccolo, breve turbine di sabbia e fili nel vento, che di colpo anima il cielo e cose e gente, mentre la prima parola, dal fondo, dal rosso forse dell’abito, dal bianco chiaro del volto, arriva come un richiamo: “Creature, cossa diseu de sto tempo?”

La scena della cancelleria è invece vastissima. Ciò che prima è occupato dalla piazza e dalle case popolari ora è occupato da una sola stanza. Ma è piuttosto uno spazio, non è fastosa. È diversa, con accenni di ricchezza. È uno stanzone lungo e largo, con un soffitto basso e grandi travi. Un pavimento di cotto a larghi quadrati o rettangoli, un poco smangiato. I muri di colore tenue, a calce, invecchiati ma “nobili” di tono. I toni dell’intonaco sono morbidi, pastelli azzurro o ocra pallido, il tutto sbiadito, lontano, come una memoria. Si sente grattare la penna del Comandador quando scrive sulla carta. Nella dolcezza tonale c’è qualcosa che si spegne, senza speranza, anche se ancora si attarda sulla scena e quando, al lume delle candele – poche, una o due verso sera, per non spendere troppo – sbattendo una porta, farà tremare leggermente tutte queste pareti, come a un soffio d’aria, quando la scena avrà un brivido di freddo, nell’ombra e penombra, dovremmo forse percepire la dolce precarietà di tutto un mondo e intuire l’annuncio della sua prossima fine.

Sulla parete di fondo, due o tre larghe finestre, ma basse. Quasi come rettangoli astratti. Al di là, si intravede il blu. A destra e a sinistra, una porta principale, un poco importante, ufficiale, e una porta piccola. Un tavolo lungo e un tempo ricco. Ora zoppica, ma ha tracce di lacca sbiadita e oro scrostato, una gamba zoppica ed è assestata con qualche manoscritto, qualche pratica piegata in quattro; un seggiolone importante, di cuoio nero, funebre e solenne come il felse delle gondole, con un po’ di peluche nero intorno ai cuscini. In un angolo, forse un altro tavolino per il cancelliere. E ai muri pile di pratiche burocratiche, legate con un nastro rosso, mai archiviate. (Gli archivi italiani: parole e parole rilegate e abbandonate in stanze polverose per secoli). Un’altra sedia, quasi popolare, per la “gente” che viene. Verso la ribalta potrebbero esserci una o due valige e dei bauletti – poca roba –, una sedia con una giacca e le scarpe vuote sotto. Il Coadiutore sta partendo, prepara i bagagli. Cambia luogo, se ne va. Questa è l’ultima “missione”, è l’ultimo gesto di “simpatia” e di “autorità”, che vuole portare a buon fine prima di lasciare Chiozza. Ma ha anche un po’ di fretta. È stufo della sua esperienza, va verso altre avventure umane (vedi Memorie di Goldoni). Le circostanze ritardano la partenza (le partenze goldoniane!).

Nel mezzo della festa popolare del finale, il Coadiutore sparirà, verrà inghiottito, il ballo lo cancellerà.

Dietro il ballo si potrebbe forse, in alto, sulle spalle di un commandatore o di un facchino della cancelleria, veder passare le valige scure del Coadiutore che se ne va; attraversare la scena mentre le coppie immemori danzano, ridono, mangiano e parlano al pubblico, accomiatandosi…

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I costumi

Il costume deve dare una dimensione storica ai personaggi e nello stesso tempo far sentire la loro realtà permanente.

Costume di teatro = finzione e, nello stesso tempo, possibile verità.

La verità delle cose diventa espressiva e poetica e stile di un tempo lontano da noi, eppure ancora nostro.

Riuscire a stabilire per un pubblico di oggi tutti questi rapporti e, nello stesso tempo, comporre il quadro plastico in modo “artistico”, piacevole, bello ma non decorativo. Il timore del decorativo è pari al timore dell’eccesso di “realtà”. Necessità di trovare l’equilibrio tra i due punti.

Tentare di dire tutto con un costume è sempre dannoso.

È l’insieme delle parole, gesti, colori, costumi ecc. ecc. che fanno un tutto.

Ricordarlo.

Fino a che punto il “carattere” dei personaggi deve essere identificato dal costume?

Mia estrema diffidenza verso i costumi che fanno il personaggio.

Pure l’essere umano, il personaggio, ha una sua dimensione fisica, un suo viso, una sua voce.

Il costume individuale deve avere qualcosa di comune e qualcosa di unico, di personalissimo.

Il problema è sempre di individuare questo qualcosa di unico, senza che diventi un simbolo, un frego con la matita rossa e senza, soprattutto, che esso appartenga alla facilità delle tipologie teatrali. L’importante è che carattere di classe e carattere individuale abbiano l’aspetto della realtà, cioè di qualcosa di non codificato, di non valido per tutti allo stesso modo: non tutti i grassi sono placidi, non tutti i pescatori sono rudi, non tutti i popolani sono buoni, tutti i borghesi cattivi, tutti gli innamorati belli e piacevoli e via dicendo. Nello stesso tempo occorre ricordare che il teatro è un luogo di verità convenzionale.

Ovviamente i personaggi “borghesi” debbono fatalmente apparirci più distaccati, diversi, senza essere totalmente appartenenti a una mitologia.

Il proletariato ha mantenuto quasi immutate alcune costanti – abitudini, gesti, metodi di lavoro, condizioni quotidiane del vivere, attitudini generiche e no. È necessario che, accanto alla sensazione plastica, visiva, che il tempo si muove, che tutto muta, resti anche il concetto reale che molte cose si muovono troppo poco o non si sono mosse affatto.

Anche in queste Baruffe, commedia popolare, “giocosa”, del 1762, di Carlo Goldoni, il problema si pone con uguale chiarezza.

Questi pescatori goldoniani quanto sono goldoniani, settecenteschi e quanto sono ancora pescatori di oggi, quanto rispecchiano una realtà direi nazionale?

Il costume, oltre al gesto, al tono, al modo di essere, ha una funzione fondamentale per chiarire tutto ciò.

Pescatori – uomini e donne, popolo antico e moderno. Il cesto, l’oggetto del lavoro, la rete, la fatica, il gesto, il passo, sono immutati, anche se dalle case si alzano le antenne della televisione o un altoparlante urla lo strazio di una canzonetta!

Certi rapporti, certe condizioni – l’alienazione del lavoro (parlo della vera alienazione, non delle solitudini dell’intellettuale di estrazione borghese o piccolo borghese) – sono quasi gli stessi oggi.

Ecco perché penso che l’arrivo degli uomini dal mare, dal lavoro, dovrà essere molto più vicino ai nostri giorni rispetto all’attesa delle donne sull’uscio di casa (anche questo gesto antico, di sempre).

Ecco perché gli uomini al lavoro dovranno apparirci assai più uomini di sempre al lavoro.

Ed ecco perché, mano a mano che essi si spoglieranno della loro veste di uomini al lavoro, potranno sottolineare le differenze profonde di costume, di modo, di atteggiamento plastico che li dividono dai pescatori-popolo di oggi.

Direi che si può tracciare così una scala schematica di variazioni del costume. Dal più “storico” al più contemporaneo.

1 – L’aristocratico (nelle Baruffe non c’è), storicissimo – un “marziano”.

2 – Il gran borghese: un grado di meno.

3 – Il piccolo borghese/l’intellettuale piccolo borghese/il funzionario (cogitore, Comandador): già fissato in una “moda” allontanata nel tempo, ma purtuttavia già con un legame, in qualche particolare, con l’oggi.

4 – Il piccolo proprietario/commerciante, etc., proletario (i bazariotti, i mercanti col ‘barretton de veludo’) e, con alcune varianti in meno, Padron Vincenzo.

5 – Il popolano (pescatore etc., uomini e donne) padrone di tartana (famiglia di Toni).

6 – Il popolano non padrone di tartana (famiglia Fortunato – Titta Nane).

7 – Il popolano povero, senza mestiere, cioè senza lavoro di pesca (il venditore di zucca barucca).

Costui a rigor di logica potrebbe essere un “contadino” (del retroterra di Chioggia, degli orti famosi di Sottomarina, etc.).

Altre particolarità: quello delle donne che aspettano i mariti è appena appena più “costume” di quello degli uomini che arrivano dal mare. Poi gli uomini si spogliano degli attributi del lavoro, escono dal guscio del lavoro e si allontanano un poco nel tempo, si unificano – nella dimensione storica – con le donne.

Se le donne e gli uomini si mettono a festa, come penso debba succedere quando vanno al palazzo di giustizia, acquistano un aspetto più storico, sempre minore del “costume” del piccolo borghese che li interroga, a simbolo del potere aristocratico ormai demandato sempre più alla classe dominata e dominante (la borghesia) ma purtuttavia assai più storico del costume del lavoro o dell’attesa.

L’abito a festa dei personaggi popolari è il punto massimo di “storicità”, di decorativismo, di piacere del colore, nei costumi del popolo.

Il costume del piccolo borghese, in privato (cogitore all’inizio del secondo atto, se si farà il gioco introduttivo del cogitore che detta un dramma al Comandador o che se lo detta da solo), rappresenta, in maniche di camicia, in gilet, senza parrucca, il punto minimo di storicità per questo tipo di personaggio.

Il costume dei bazariotti è invece il punto massimo di imborghesimento delle figure popolari: Padron Vincenzo, che noi consideriamo un pescatore colpito anni prima da una disgrazia in mare e che è diventato uomo di terra e si è tramutato in un pescatore che commercia il pesce, lo vogliamo vedere forse senza un braccio.

Il suo non è un salto di classe, né un tradimento di classe. È una necessità di vita, che i pescatori intorno a lui capiscono e accettano. Per loro Vincenzo è un po’ un sindaco segreto, il consigliere, quello che sa leggere e scrivere, quello che compra il pesce per rivenderlo (quindi mercante, quindi tendenzialmente bazariotto), ma con altro spirito, direi altri prezzi. Purtuttavia il suo abito già tende al “baretton de veludo”, per necessità di lavoro e anche per fatale mutazione di stato. Probabilmente Vincenzo è il più ricco, o perlomeno il diversamente abbiente. Si tratta sempre di differenze relative, appena percettibili, ma chiare.

Così la differenza tra i padroni di tartana e gli altri esiste, ma è di particolari minuti, qualche attitudine, qualche gesto, un oggetto. Per esempio, quando tornano le tartane, le donne di Padron Toni ricevono un regalo comprato a Senigallia. Le donne di Padron Fortunato non lo ricevono, non lo chiedono neanche. È Fortunato che chiede del tabacco perché ha perduto la scatola in mare.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I personaggi

Una distribuzione non dovrebbe mai essere fatta per ogni singolo personaggio bensì sempre per tutti i personaggi-attori insieme. I caratteri, i personaggi, i tipi, nel teatro non sono mai “indipendenti”. Esistono sempre in rapporto agli altri. Una distribuzione esatta è una questione di esatti rapporti tra i vari personaggi, più che una distribuzione esatta di ogni singolo personaggio.

soprannomi: ecco un tipico procedimento del realista Goldoni. Egli non fornisce nessuna spiegazione sui caratteri e sui tipi dei personaggi. Tutto è racchiuso nel testo e nei rapporti tra i personaggi. Solo qua e là qualche accenno diretto: un’età, un soprannome buttato là.
I soprannomi dei personaggi delle Baruffe sono dunque una “indicazione” valida per l’interpretazione dei caratteri? E se sì, fino a che punto?

Toffolo Marmottina – l’immagine popolare corrisponde a quel tanto di subdolo un po’ femmineo, sornione, che ha il personaggio. Forse ne indica anche la pigrizia o l’andare in letargo, a tratti, o lo svagarsi, o il dormire troppo. Ci sono molte possibilità, affidandosi al nome, di approfondire con qualche tocco un carattere umano. Il problema è quello di non sovraccaricare un personaggio di troppa storia personale, di troppa “osservazione umana” e nello stesso tempo di non schematizzarlo, non semplicizzarlo in categoria storica, sociale, o in superficialità del tratto, di una caratteristica.

Così per Lucietta, il soprannome Panchiana, “conta frottole”, “conta balle”, indica un che di ambiguo del personaggio, una mancanza di franchezza in genere, o forse meglio una tendenza all’amoreggiare, al farsi corteggiare, a “spezzare i cuori”. Infatti, il carattere di Lucietta non è falso, almeno nei rapporti sentimentali con Titta Nane, anzi piuttosto fiero, di poche parole… È certo la più femminile delle tre ragazze. Basta ciò per chiamarla Panchiana? C’è un accenno ad una storia d’amore passata piuttosto enigmatica. Oppure è soltanto un pettegolezzo? Comunque, è Lucietta che provoca Marmottina, è lei la più “disinvolta”, quella che sa stare di più al gioco amoroso.

Perché Pasqua Fersora? Perché Libera Gallozzo?, quando ad esempio il carattere di Libera è meno violento, meno esplosivo di quello di Pasqua?

Queste prime osservazioni sui soprannomi ci porterebbero a pensare che essi non siano una misura per costruire i caratteri. Che i caratteri siano autonomi rispetto ai soprannomi, che questi ultimi corrispondano solo talvolta in qualche tratto secondario, tal altra con maggiore aderenza immediata, tal altra come memoria di un gesto o attitudine del passato per noi irrintracciabile.

Il testo può avere un agguato nella semplicizzazione del problema – a tal soprannome, tal “gesto” fondamentale. Pure un nesso forse più evidente deve esistere. È un problema aperto che probabilmente non si chiuderà mai del tutto.

Famiglie, coppie, caratteri

Appunto per Luciano: costumi Baruffe

famiglie – rapporti – caratteri base.

Il popolo

Famiglia a): Padron Toni

Donna Pasqua, moglie di Toni

Lucietta, sorella di Toni

Beppo, fratello di Toni

È la famiglia più ricca – relativamente. Toni è padrone di tartana. Età (visiva): 50 anni Toni, 45 Pasqua, 22 Lucietta, 28 Beppo.

La famiglia è quella che noi chiamiamo “degli alti”. Il meno alto è Beppo.

Famiglia b): Padron Fortunato

Donna Libera, moglie di Fortunato

Orsetta, sorella di Libera

Checca, sorella di Libera

È la famiglia meno ricca – non ha barca.

Età: 60 anni Fortunato, 45 Libera, 24 Orsetta, 17 Checca.

La famiglia è quella che noi chiamiamo “degli strani”. Meno alti, eterogenei – fisicamente e psicologicamente.

Titta Nane: lavora per Padron Toni, è fidanzato a Lucietta. Anni 25, è anche lui un alto – tipo nordico, biondo, pulito.

Padron Vincenzo: ex padrone di tartana, ora mercante in proprio di pesce. Anni 50. È il saggio, il più colto, il “sindaco” della comunità: appena appena imborghesito, tipo pacifico, accomodante, ride molto.

Toffolo Marmottina: non va per mare, battellante, anni 22.

Coppie:

Lucietta-Titta Nane

Orsetta-Beppo

Checca-Toffolo

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Padron Toni e Madonna Pasqua

Padron Toni: è un capo. Figura potente e appesantita, occhi azzurri, ex biondo ora imbiancato, testa tonda, indole pacifica, non è intelligente ma sa a fondo il suo mestiere. I suoi movimenti sono piuttosto grevi e calmi.

In famiglia non comanda lui – fa finta di comandare. Capisce poco di ciò che non è il suo lavoro. È lento di movimenti. Rumina.

Pasquaun poco fredda, un poco nordica. Tipo genovese, più che veneto. Voce bassa, modulata. Parla con un tono forte. La si sente rombare da lontano, sempre. Carattere energico. Quando litiga diventa violenta, ma poi le passa. Con Padron Toni fa una buona coppia di “Gran Lombardi”. Ha più carattere del marito, sebbene il marito sembra che ne abbia di più a parole. È più tenace di lui negli odii, nelle baruffe. Più orgogliosa, più chiusa, conosce di più la vita, è più saggia. In un certo senso è la moglie del padrone di tartana. Non lo fa pesare, ma si sente che intende comandare sugli altri.

Tutto ciò non contraddice una bontà naturale che tutti i personaggi hanno, un certo tipo di solidarietà pratica e psicologica che li accomuna tutti.

Nella scena con Lucietta e Titta Nane (Atto II, scena III), Pasqua si preoccupa seriamente del comportamento eccessivo di Lucietta. Valuta le cose, valuta Titta Nane, che in fondo l’affascina un poco perché anche lui è un capo, un maschio vero. Ne subirebbe volentieri il dominio, come certamente in un primo tempo ha subito il fascino di Toni, capo e “Gran Lombardo”.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Lucietta e Beppo

Lucietta: È il carattere più completo e complesso delle Baruffe. La più femminile, ma non la più debole.

Anzi è dura, cocciuta, chiusa. Rossa, con lentiggini. Minuta di viso ma con qualcosa di forte e popolare, nonostante tutto. Longilinea. Dura e morbida, passionale e trattenuta al tempo stesso. Certo la più intelligente, ma la più femminilmente intelligente. Quindi la più tendenzialmente seduttrice, la più difficile come gusti, la più orgogliosa, la più viziata anche, se si può parlare di vizi nella realtà sociale in cui si muove.

Nei rapporti sentimentali è una donna gelosa della sua dignità, dei suoi abbandoni, ma che sa darsi totalmente agli affetti, senza lasciarlo parere. Probabilmente una sensuale molto trattenuta verso l’esterno. Come tutte le vere femmine, vuole evidentemente dominare. Sebbene l’ultima sua battuta potrebbe forse insegnarci il contrario, cioè farci credere che abbia imparato qualcosa in quella giornata, Lucietta non sa ancora, né forse saprà mai, dominare con dolcezza, con astuzia. Semmai adopera queste armi nella lotta con le rivali, o presunte tali, nelle sue inimicizie femminili. Non con il maschio. Lì la lotta è diretta. Non è capace di cedere o fingere. Forse vorrebbe, ma le parole non le escono di bocca. Sono difficili, sassose, e gli occhi le si riempiono di lacrime tutte trattenute dentro le ciglia. Sono importantissimi i suoi silenzi, i suoi sguardi. Colpisce la sua “dignità”, anche se questa dignità la spinge fino alla testardaggine più ottusa, fino all’esasperazione, fino al puntiglio, cioè a piccolezze. Ma è importante che sia così: anche questo carattere piuttosto straordinario di donna, di ragazza popolana, ha le sue ombre, come deve essere, come è giusto che sia. Quando si intestardisce su qualcosa, diventa quasi stupida, insistente, ma è più forte di lei. Forse cambierà con il tempo. Se qualcuno saprà farla cambiare. Affronterà comunque la vita con chiarezza e con coraggio. E già così è qualcosa e qualcuno.

Beppo: fondamentalmente animale da lavoro, è il più primitivo. Senza problemi, in fondo è un debole con le donne e in tutto, perché sprovveduto. Un finto duro. Non ha ambizioni, ama perché così si fa, si sposerà perché così si fa. Farà figli per la stessa ragione. Un fiducioso con crisi di gelosia non sue: poiché tutti sono gelosi, anche lui deve esserlo.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Padron Fortunato e Madonna Libera

Padron Fortunato: rinsecchito, rughe e sole, con qualcosa di strano dentro. Ha un suo mondo segreto dentro, infantile, covato in solitudine. Probabilmente è stato un timido, un brutto, un isolato che si è tenuto dentro una certa sua poesia, una tenerezza e uno stupore per il mondo.

Ha un certo estro, un suo non-conformismo, soprattutto una sua dolcezza e bontà e direi anche indipendenza. Ha finito per inventarsi un suo linguaggio, che è al tempo stesso segno della sua solitudine e della voglia di dire molto e presto. Il suo modo di parlare non è assolutamente frutto di una vera deficienza fisica. Non balbetta, porta soltanto alle estreme conseguenze un modo di esprimersi che è già, in misura minore, una caratteristica del suo dialetto. Sta in disparte ma partecipa a tutto. Forse capisce più di tutti gli altri, ma non si dà da fare per dire e agire. Il mondo intorno gli pare buono e strano e lo diverte e gli pare degno di essere vissuto, nonostante tutto.

Sa che tutto alla fine si aggiusta e che tutto, come il tempo sul mare, cambia e si mette in pace.

La gente non lo ha mai capito, in fondo, e lui non ha fatto niente e non fa niente per farsi capire (ormai sembra ci sia in lui un lampo di divertimento, di ironia): che facciano un poco di fatica, loro, per sapere!

Tenero in famiglia. Notare: la moglie è l’unica che lo capisce quando parla al suo modo.

Libera: è la più furba, è il carattere più meridionale. Simpatica. La brutta simpatica, moglie del brutto strambo. Quando litiga, va verso i toni alti, come Donna Pasqua va verso i toni bassi. È mobile, piuttosto grassa, non molto alta, sullo scuro di capelli.

Tendenzialmente è incline a una certa pigrizia del sud, levantina. Non comincia infatti mai lei a litigare. Se però lo fa, diventa assai aggressiva, alla napoletana, un po’ rapida, gridata, mentre l’altra è più sullo strascicato, sul pedale di basso. È in fondo più umana di Donna Pasqua. Forse perché è più povera. Non pare, ma sta attenta alle sue sorelle. Vuol bene con tenerezza materna al marito, lo conosce nell’intimo. Fa andare avanti lei la casa. Perché in casa il marito è un po’ un bambino che sta tra i piedi a far confusione. Ma lei sa quanto vale come lavoratore. Sa che lavora tanto, in solitudine, e che non è riuscito a metter su tartana in tutta la vita per altre ragioni, diverse dalle sue capacità di lavoro. Libera conosce quel poco o tanto di poesia che c’è in Fortunato.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Titta Nane

Titta Nane: è il compagno giusto per Lucietta, è suo complementare. A tal punto però che finisce per assomigliarle troppo. È un duro, un maschio, ma anche lui ha dentro tenerezze nascoste, parole da dire, un sentimento amoroso profondo e vero e totale.

I due si attraggono e si respingono. Lottano ad armi pari. Penso che alla fine, nonostante tutto, nessuno dei due vinca. Sarà un amore lungo e giusto, ma sempre teso, fatto di poche parole, di pochi gesti e di molto amore.

Lucietta piace a Titta Nane in tutti i sensi, completamente. È l’unica coppia che emana qualcosa nelle Baruffe e che non è, né sarà, convenzionale. Lui è un nordico caldo, ma incrociato dalmato-slavo. Colori pallidi, ma moti dell’animo violenti e sicuri. È un uomo. Un generoso, un onesto, nel profondo. Un bell’esemplare di classe popolare. Può sembrare strano, ma non è un rivoluzionario. È un uomo d’ordine. È naturalmente legato a un rituale di classe e di morale convenzionale. È sensibile a ciò che dice la gente. Tendenzialmente sa di essere considerato un tipo e la cosa non gli dispiace. In fondo si ama, si sente forte e bello e amato. Non ne approfitta, ma lo sa. Luce e ombra anche in questo carattere positivo. Per quanto riguarda la “violenza” del personaggio, io sarei molto cauto. Fino a ora è stato il tratto caratteristico di Titta Nane: uno che si arrabbia subito, che minaccia, prende fuoco.

In realtà Beppo, il più semplice, non si comporta diversamente da Titta Nane allorché sospetta di Toffolo Marmottina. E Toni del pari: a una sassata probabilmente involontaria, non sapendo nulla, tira fuori il coltello, etc.

Il fatto è che Titta Nane dà la sensazione di fare più sul serio. Cioè è più vero, nel fondo, meno legato a una specie di rituale dell’ira. È un carattere più solido. Da ciò nasce la sensazione di una maggiore violenza. Ma è una sensazione che è stata presa in genere come unica realtà del personaggio. La sua realtà è altra: passione, amore, dignità popolare che diventa quasi schema, orgoglio, testardaggine, cavalleria, forza, etc.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Orsetta e Checca

Orsetta: detta Meggiotto.

Probabilmente la più anziana delle giovani. Da un certo punto di vista, un carattere un po’ pallido. Ma più probabilmente più che pallido è un carattere “semplice” e per questo assomiglia a quello di Beppo, il fidanzato. Innanzitutto, il “dramma” d’amore di Orsetta non esiste. Pure lei viene lasciata da Beppo. Ma le sue reazioni sono relative. Non perché non lo ami, ma perché il suo è un amore “normale”. Si fa così perché si fa così. Perché è giusto, naturale, innamorarsi, sposarsi, avere figli e morire. E naturalmente anche invidiare, fare baruffe, etc.

Da una parte, il soprannome può far pensare al giallo dei capelli.

Dall’altro, il suo rifiutare il soprannome con argomenti così precisi può significare tutto il contrario. Comunque, è la più florida, la più sana, la più lineare. Voce popolare con notevoli ruvidezze, violenze tonali.

La difficoltà è rendere questo personaggio non problematico, in senso positivo. Non è grigio. È semplice. È diretto. Le sue reazioni sono le reazioni più normali di questo mondo. Reagisce però con una certa aggressività alle difficoltà. In fondo ha il carattere di famiglia. Presa dal timore della giustizia, adopera, ad esempio, le sue uniche armi: si difende aggressivamente, senza misura, senza una grande intelligenza, ma con molto naturale buon senso.

Checca: forse il carattere più misterioso delle Baruffe. Forse perché in formazione o altro. È la più giovane. Ma a me appare come la più maliziosa, la più – come dire? – guasta. Probabilmente ha un aspetto abbastanza “nobile”. Ed è pensabile che piaccia di più appunto per questo a Isidoro, borghese. È molto sveglia per la sua età. Calcola molto, vuole probabilmente rompere al più presto il cerchio della famiglia. Non è lineare. Parla della doppiezza di Lucietta, ma in realtà è lei che si porta dentro questo sentimento. Non la vedo affatto come la giovane amorosina, tutta ingenuità e con un minimo di malizia femminile.

È lei che in gran parte conduce il gioco, anche se, ad esempio, posta di fronte alle conseguenze, si spaventa più di tutte. Ma è giusto che sia così. C’è tutta una storia misteriosa con Toffolo da appurare. È vero che si sono molto parlati e che lei ha detto cose che Toffolo non può riferire? O se le inventa Toffolo, come parrebbe dalla mancanza di altri riscontri? La smania di trovare marito è comunque più un mezzo di evasione che un fatto sentimentale, un bisogno fisico. Pure è molto femminile. L’unico che le piace veramente è Titta Nane. C’è una mezza passione nascosta per Titta Nane, non solo come infatuazione della ragazzina per il bello del paese.

Checca è una certa parte di Lucietta, cui peraltro è antipatica. È un altro polo della femminilità: quella più morbida, in fondo più infida, meno sicura ma più aggraziata, più astuta, più apparentemente arrendevole, etc. Non so come andrà a finire la storia con Toffolo. Probabilmente più male che bene. Comunque, Toffolo sarà sicuramente vittima.

Di tutti i personaggi, Checca è quella che più si avvicina a certa decadenza del secolo, all’altra classe. Quindi, considerando come classe dominante la borghesia/aristocrazia veneziana, Checca è la più veneziana, la meno popolare.

Ovviamente tutto ciò va riferito a una condizione astratta. Nel testo le caratteristiche popolari sono fondamentali, ma non univoche. Goldoni non ha inventato un popolo ideale, indifferenziato, bensì una realtà dialettica, con i suoi estremi, i suoi poli positivi e negativi. Ha scritto, insomma, da grande realista, non da naturalista o da idealista.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Padron Vincenzo e Canocchia

Padron Vincenzo: alla prima lettura appare un personaggio inesistente. Ma non è vero. Ha una sua precisa funzione, non solo di comodità, ma anche di tipo, di carattere.

Anche se non è l’unica soluzione, è certamente la più semplice, la più comprensibile, e a me pare la più giusta, l’averlo immaginato un pescatore (Goldoni dice pescatore) tipo Padron Toni, più anziano però, che “ha perso” la sua tartana in un certo momento della sua vita, probabilmente quando era troppo tardi (troppo avanti negli anni) per rifarsi.

Ammettiamo che abbia subìto anche una menomazione fisica: la perdita di un braccio, per esempio. A questo punto Padron Vincenzo aveva due strade: o “naufragare”, diventare un relitto o, avendone le capacità interiori, cambiare mestiere, cioè trovare una funzione diversa nel mondo dei pescatori. È quello che ha fatto. Si è “trasformato”, per necessità, in mercante in proprio di pesce. È certo sempre un intermediario tra pescatore e consumatore, ma di tipo più primitivo, meno capitalistico. Non è cioè un bazariotto, non è un mercante all’ingrosso che compra il pesce a partite, a terra, e quindi ovviamente stabilisce un prezzo generale di mercato – il più basso possibile – per i pescatori. È, al contrario, un pescatore che solo in parte non può più essere dei loro, che vive comprando il prodotto ma a prezzi più alti, più equi, quasi un aiuto per i pescatori, i quali a loro volta gli consentono di avere i mezzi per vivere.

È questa l’unica spiegazione realistica, in gran parte assolutamente suffragata dal testo, per cui Padron Toni (cioè il pescatore) non considera Vincenzo, che pure fa il mercante, uno sfruttatore, bensì uno dei loro. Vincenzo, dunque, è un pescatore che fa un mestiere collaterale, un collegamento tra produzione e consumo. Oggi Vincenzo potrebbe essere forse a capo di una cooperativa. Tolto forzatamente al lavoro quotidiano del mare, manuale e diretto, Vincenzo ha impiegato probabilmente il tempo delle attese in altro modo: “istruendosi” più degli altri, cosicché sa leggere e scrivere e aiuta a leggere e scrivere gli altri pescatori, li aiuta a risolvere i loro problemi quotidiani, finanziari e anche sentimentali – baruffe, matrimoni, liti, etc.

Ha finito per assumere una specie di ruolo di sindaco in una società primitiva e sottosviluppata. Tiene lui i contatti con le autorità. Ha imparato un po’ a saperci fare, ha inoltre contatti giornalieri, anche di lavoro, con gli altri ceti più elevati. I pescatori si affidano a lui senza timore (è dei loro) perché ha più tempo, ne sa di più e conosce di più e più gente. Volendo spiegare il suo soprannome (Lasagna), io credo che potrebbe significare uno buono come il pane, anche un po’ bonaccione e magari noioso, pesante.

A forza di svolgere questa funzione, Padron Vincenzo ha ovviamente ceduto un poco delle sue caratteristiche popolari, direi anche di censo. In fin dei conti sta un po’ meglio degli altri, è più ricco – tutto in relazione, s’intende! –, è un po’ più borghese degli altri, anche nel vestire, direi anche negli atteggiamenti popolari, frammisti a modi un po’ borghesi (spallata di saluto, occhiali e foglio di carta con conti e penna, etc.).

Non è un traditore della sua classe, ma non è più del tutto parte di essa. In altri casi – ma non è il suo – potrebbe diventare un nemico di classe.

Per il suo carattere, non va dimenticato né il riflesso della sua condizione fisica sulla psiche né il fatto che egli è probabilmente solo. Ignoriamo, infatti, se ha famiglia, ma mi pare logico pensarlo solo. Perché? Forse ha perso la moglie molto tempo prima. Forse non ha avuto figli o se ne sono andati in cerca di lavoro e altri sono morti anch’essi. Oppure potrebbero lavorare con Toni.

Spesso solo, Vincenzo si interessa ai casi degli altri. Forse è diventato un po’ pettegolo e curioso, ma sempre a fin di bene. Riempie con gli altri la sua solitudine e reagisce alla tristezza con un carattere tendenzialmente allegro, magari in eccesso.

Forse ride più del necessario e in questo modo nasconde il suo vuoto, la sua disgrazia. Un riso aperto, un poco teso, o troppo teso. È un personaggio da rendere con pochi tocchi, ma fondamentale all’interno delle Baruffe. Interessante come “caso umano”, nella società dei pescatori che vediamo sulla scena. Un personaggio da far scivolare tra gli altri, ma che deve lasciare una sua traccia. Un uomo un poco nell’ombra, non un’ombra.

Canocchia: il vecchio pescatore è l’ultimo termine della società sottosviluppata. Non è una visione allegra, questo vecchio magro, allampanato, secco secco, aguzzo, che gira per le calli dei poveri, dei pescatori, come è stato lui per quarant’anni, attorniato da bambini che gli chiedono la zonta, che anche lo sfotteranno – perché i bambini fanno così –, che cercheranno di fregargli qualche pezzo di zucca, che magari gli faranno anche scherzi crudeli. È il vecchio che canta con voce tremula la canzoncina della zucca e che si guadagna faticosamente da vivere con il piccolo cabotaggio della zucca arrostita, con la tavola e la carriola tutto il giorno, invece che starsene al sole, dopo tanto lavoro, dopo tutta una vita. Direi che è la visione di ciò cui allude Toni quando dice: “I vuol tutto per lori”. Non c’è molto margine di speranza per questi “allegri” pescatori chioggiotti del Settecento, e ovviamente neanche per quelli di oggi.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Toffolo Marmottina

Toffolo: un altro personaggio straordinario, un altro termine di una società popolare. È il popolano, figlio di pescatore, che non fa il pescatore, ma ha scelto o è stato scelto dal caso a fare un mestiere a esso attinente, ma non quello del mare aperto. Perché? Immaginiamo, o possiamo immaginare, molte cose. La più semplice è lo choc per la morte in mare del padre. Perché lo direbbe se non fosse importante? Goldoni è più grande di quello che si crede comunemente. Come tutti i grandi realisti, nulla di ciò che il testo contiene è inutile. Ovviamente lo dice con indifferenza – a Chioggia è un fatto naturale –, ma probabilmente ha orrore del mare aperto. Ha paura. Non ha madre, forse è stato allevato senza affetti infantili, in casa d’altri – forse da un parente, forse no.

Indubbiamente un tratto di solidarietà popolare è dato dal fatto che nelle Baruffe le famiglie allevano i figli di coloro che sono morti. Ne è derivato in Toffolo un carattere contraddittorio, scontroso, apparentemente vile, forse complessato. Avendo avuto paura del mare aperto ha scelto il lavoro in laguna. È naturale, quindi, che i pescatori lo considerino una “donnetta”, benché in realtà il suo sia un mestiere duro come quello di tutti gli altri, solo meno pericoloso, probabilmente più solitario.

Toffolo ha inoltre bisogno di indipendenza proprio perché è vissuto dipendendo da altri come orfano. A suo modo è un pigro o, più che un pigro, un sognatore, uno che pensa, che guarda la gente. Si è fatto una sua specie di filosofia, magari un poco cinica: bisogna arrangiarsi, ognuno per sé. Si sente un poco a disagio in mezzo ai giovani pescatori, ma si difende dicendo magari che loro son fessi, che lavorano di più, rischiano di più, mentre lui lavora meno ed è più indipendente, e guadagna di più. Da qui il suo gironzolare intorno alle donne nel primo atto. La sua giornata lui se l’è già guadagnata, ha lavorato a trasportare verdura dall’alba fino a pieno mattino, ha preso i suoi soldi, adesso con la sua giornata in tasca può permettersi di non far niente.

Può persino offrire la zucca, esser galante: ecco i vantaggi di essere battellante! Gli altri, tuttavia, non lo stimano. Per ragioni di funzione sociale, di mestiere. È un caso tipico. Non giusto, umanamente, ma psicologicamente possibile.

In genere si rappresenta Marmottina come un essere subdolo, vile, carogna, etc., come una specie di ometto popolano “voglio ma non posso”, bulletto e cretino. Io credo invece che lo choc della morte del padre, la solitudine, la paura del mare, il suo lavoro, abbiano indubbiamente marcato il suo carattere, rendendolo più debole, in un certo senso, più femminile, benché sempre in rapporto ai rudi marinai. Il suo isolamento lo ha portato all’irritabilità; il soprannome lo definisce veramente più di tutti ed è indice di una specie di malevolenza degli altri verso il giovane popolano che non fa come loro: non ha forza, diranno, è un vigliacco.

E indubbiamente è fisicamente meno forte degli altri, adusati a un lavoro più violento. È meno sano. È meno forte anche come carattere. La durezza del lavoro fortifica il carattere in genere, quando non stronca. Ma non è il classico tipo del vigliacchetto, del Marmottina, tutto pigrizia, un poco subdolo, addormentato, etc. Il suo è un soprannome peggiorativo e un poco malvagio, ma in un certo senso, anche se solo in parte, corrisponde al vero.

Non bisogna dimenticare, del resto, la sua età. Toffolo è il più giovane fra i maschi, è ancora in formazione. Dal punto di vista sentimentale è un timido, un introverso che è attratto ovviamente dalla più giovane delle ragazze e dalla più relativamente delicata: da Checca. Proprio perché timido e non molto amato, nell’occasione iniziale si comporta più galantemente del necessario. Fa sbagli su sbagli, subisce la volontà di Lucietta e cade nel gioco, contro il suo interesse: cioè Checca.

La sua è debolezza, inesperienza, è il lanciarsi a fare ciò che fanno gli uomini o meglio ciò che vede fare ai signori – corteggiamento, frasi, modo di stare seduto, modo di offrire la tabacchiera, etc.

Si sente importante, in quel momento, solo maschio fra tante femmine, e fa il di più. E casca male. Poi se ne accorge e dimentica quindi la cattiveria delle donne contro di lui. Perché proprio di cattiveria femminile si tratta, nel finale del primo atto. Di donne alleate contro il maschio debole. Torna quindi per chiedere scusa lui a Checca. In fondo aveva torto.

“Le pierae”! Perché no? Dicono che sia un gesto femminile. E perché? Innanzitutto, non porta il coltello, perché non è violento, non è forte fisicamente. Sebbene sia solido di braccia, viene aggredito da Beppo, non aggredisce. Si difende come può. Tira i sassi solo quando teme per la sua incolumità e li tira ai piedi. Poi passa anche all’attacco. Ha una dignità sua da difendere. Perché non lo lasciano stare? Egli non sa, notate bene, cosa è successo in quel gruppo famigliare durante la sua assenza, ignora le baruffe, etc. Non c’è ragione per lui che Beppo lo insulti.

Toni è un accidente. Titta Nane è l’unica paura. Ma Titta Nane è un duro. È un rusticano. Ciò che spaventa Toffolo non è tanto il coltello quanto il suo “Vardete!” – l’annuncio del duello rusticano col coltello, cui Toffolo non può opporre nulla, neanche le “pierae”. Non può far altro che smarrirsi – il margine è troppo a suo sfavore. Con gli altri è invece combattivo, anche violento. Quando cade, nessuno lo aiuta. Le donne lo cacciano anche a pedate. E qui scatta la vendetta: la querela. Non è tipicamente italica? Ma nasce da un complesso di circostanze, non come atto gratuito.

Toffolo è di nuovo solo più che mai, tradito, ingiustamente maltrattato da chi non c’è. Perché nella baruffa Checca non c’è. Ed è giusto che sia così.

Alla fine, il suo matrimonio è triste, direi drammatico. Ma lui non se ne accorge. Ama la Checca, vuole riempire la solitudine. Di tutte le coppie, la sua è la più problematica, la più slegata, quella che fa presagire un dramma sospeso.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: Isidoro

Isidorol’unico di altra classe. “L’altro”. In questa commedia popolare, col popolo protagonista, realisticamente non manca il termine dialettico. In una città abbandonata dalla classe dominante, Isidoro rappresenta il potere pubblico. L’aristocrazia dei palazzi e del senato è la classe dominante. Il popolo è la classe dominata. E in mezzo c’è la borghesia degli avvocati e dei medici, dei funzionari, via via fino al piccolo funzionario. Questi, il piccolo borghese, rappresenta la classe di tramite, quella che detiene in effetti il piccolo potere quotidiano e che tra poco si impadronirà del grande potere con la Rivoluzione Francese. Isidoro vive la sua realtà borghese, con le sue velleità per ora letterarie, come realtà affascinante del popolo con il quale è a contatto (lui impropriamente lo chiama “divertimento”) subendo duplici attrazioni: da una parte l’aristocrazia, da cui ha tratto il vestire, certe attitudini, lo spadino, il tricorno, il mantello forse scarlatto, insomma l’eleganza aristocratica però avvilita da stoffa di non molto prezzo, dalla scarpa un po’ scalcagnata, dal buco nella suola, dai capelli un poco spettinati sotto la parrucca, da mille segni di parsimonia, dalla fame anche (gli brillano gli occhi alla parola pesce, accetta subito il regalo); dall’altra, l’attrazione esercitata dal popolo – da cui un’attitudine amorevole, simpatica, di sincero interesse, un’attenzione per un’umanità naturale, una tendenza anticonformista – “non son lustrissimo” – a stare in maniche di camicia, senza parrucca, magari lavorando, di mettersi in posizioni comode e poco plastiche, da darsi in fondo da fare per i popolani, senza ricevere peraltro molta gratitudine. In mezzo agli attributi del piccolo borghese – un po’ formalista, in parte ligio alla funzione di cui lo hanno investito e che vuole esplicare bene – c’è della simpatia vera, una sincera adesione al popolo, un certo paternalismo, un certo “essere democratico” o parere a se stesso di esserlo, un compiacersi in fondo del proprio stato di superiorità e delle proprie possibilità di fare del bene: piccola borghesia con tendenze proletarie, abbastanza illuminata, tipo socialdemocratico.

Realisticamente un siffatto tipo sociale, che ha studiato, ma a fatica, che ha visto il padre lavorare con decoro, ma duramente, etc., ha in sé molte contraddizioni e molti pregi e difetti dell’una e dell’altra classe, tra le quali pare essere equidistante. In realtà, assume certi pregi e anche certi vizi di entrambe le classi, per esempio un certo dongiovannismo del tempo, soprattutto nei confronti delle classi popolari: “Il popolo può essere adoperato come istrumento di piacere”. Ma sotto sotto, in questo caso, può anche esserci, come mi pare indubbio ci sia, un’attrazione vera verso la carnalità, la verità, la semplicità, la “libertà” del popolo, nonostante tutto.

Nella popolana Checca, Isidoro ritrova certi attributi della sua classe ma popolarizzati – per esempio un visino d’angelo, da ritratto in miniatura, il bel collo, il bel seno e così via.

In fondo, una parte di Isidoro invidia il popolo: «Fate sempre l’amore i me disi». E una parte lo ripugna – sono ignoranti, poveretti e qualche volta un po’ di bastone gli farebbe bene, etc.

Accanto a questi attributi di classe, che in Isidoro sono molto importanti, perché assolutamente tipici (un altro enorme merito del realismo di Goldoni), troviamo gli attributi del carattere personale. Ma è giusto dire che essi sono un po’ in penombra.

Nel parlare del se stesso di tanti anni prima, Goldoni ha colto con un tratto di estrema genialità, e anche di coraggio e di sensibilità storica, il lato fondamentale della sua avventura chioggiotta, nel suo rapporto Coadiutore-popolo di quegli anni lontani, visto con chiarezza, direi con spietatezza, stupende. Ma quando ha dovuto mettere qualcosa di suo nel personaggio, qualcosa di sé, si è come arrestato, si è avvolto in una penombra troppo discreta. Volendo evitare di “fare diario”, Goldoni ha creato un personaggio un po’ gelato, un po’ velato, in certe componenti umane.

Non dimentichiamo mai che Goldoni è un personaggio misterioso. È tutto e sempre nascosto. Le sue memorie non ci dicono quasi niente di lui, se non gesti, atti, avventure, lavoro e fatti esteriori.

L’uomo di teatro è sempre tutto nascosto dietro alle sue commedie.

Solo l’uomo di teatro?

Isidoro uomo, cioè non rappresentante di una classe sociale, è un po’ un enigma e non ha parole e tratti chiaramente delineati.

Goldoni volle così e incentrò la commedia sui rapporti all’interno del popolo. Quindi Isidoro è un deus ex machina, umano quel tanto che occorre, proiezione di quell’altra classe assente, definita in un carattere marginale alle funzioni che esplica, cioè meneur de jeu, Coadiutore, etc.

Non va dimenticato, purtuttavia, l’importanza che Goldoni attribuisce al secondo atto e a molte scene del terzo. Da una parte, non definisce il personaggio del Coadiutore, o forse non vuole, o non può definire se stesso maggiormente; dall’altra, però, dilata l’azione popolare in un rapporto con l’altra classe per quasi un atto intero e per parte del terzo, cosicché Isidoro diventa più importante di ciò che dovrebbe o potrebbe essere. Certo, nelle scene della cancelleria è possibile tentare di lasciare che sia sempre meno interessante dei popolani e delle loro reazioni. Ma ci si accorgerebbe che nonostante tutto è un forzare il testo. Lì, e in molti altri punti, Isidoro è alla pari, se non addirittura in posizione preminente.

È possibile, senza alterare il testo, integrare il carattere umano di Isidoro? Forse sì.

Alcuni esempi: innanzitutto con l’età, con i rapporti di età fra i personaggi. Il Coadiutore deve essere giovane e in fondo inesperto, voglioso di vita, attratto dalla realtà giovanile, popolare, libera del volgo, povero ma più vero di lui.

Si diverte, si annoia, osserva, dimentica, pensa ad altro, si perde nei suoi sogni a occhi aperti; guarda fuori dalla finestra come i ragazzi a scuola, ma poi viene riattratto dai suoi “compiti”, dal dovere politico, dalla simpatia umana, dalla curiosità e anche da un certo interesse “sentimentale” verso la gente e le ragazze del suo “caso”: Al Coadiutore le poppute giovanette piacciono. Pencola un po’ verso di loro negli interrogatori, sbircia la grazia di Dio che sfora dalle scollature, i bracciotti (goldoniani) nudi e sodi.

Necessità di trovare non una “malizia” sordida, bensì un simpatico compiacersi e, ove fosse possibile, un simpatico godere della femminilità.

Il Coadiutore non è asessuale. Le ragazze lo sanno. E lo sanno anche i maschi (vedi molte battute chiave). È questo, del resto, l’unico punto “chiaro” del carattere di Isidoro.

L’unico sul quale hanno, più o meno, fatto leva le interpretazioni precedenti.

E poi, riuscendo a far sentire dentro al Coadiutore un destino diverso – quello del teatro –, una specie di fascino segreto che lo fa più strano ed enigmatico di ciò che appare. In lui vi è una curiosità quasi un po’ perversa nel guardare il “popolo”.

Perversa non perché cattiva, ma perché un po’ troppo da spettatore allo zoo, qualche volta. Talvolta si diverte, ad esempio, a far star in pena i litiganti con sospensioni e anche con frasi un po’ difficili. Li guarda socchiudendo un occhio. Li stampa nella memoria.

In lui vi è una simpatia umana: al fondo di ogni osservazione c’è, nonostante tutto, un moto di affetto.

Un’attitudine democratica che è parte sì della natura veneta, dell’aristocrazia democratica veneta, delle abitudini di convivenza del signore col povero, ma che è anche un’attitudine tutta goldoniana, moderna, illuminista anche – perché no – verso la “plebe”.

Dare insomma alle contraddizioni del personaggio un segno particolare, pur non avendo molte parole per suffragarle. Quindi gesti, attitudini, tonalità, modo di guardare, posizioni, silenzi che possono dare densità al carattere di Isidoro. Un materiale, dunque, gestuale che però non può mai tenere luogo della parola e che se non usato bene può riuscire stucchevole gioco mimico, fonte di incomprensione per il pubblico. La difficoltà di interpretare il Coadiutore è tutta qui: riuscire a dare densità umana a un termine, importantissimo dialetticamente ma non del tutto realizzato poeticamente, come entità completa, come personaggio.

Per il pubblico non deve importare che il Coadiutore sia in fondo Goldoni ragazzo. Ma deve sentire una certa aria affettuosa-ironica (atteggiamento goldoniano tipico) intorno al personaggio. Non troppo misterioso e allusivo, anzi quasi per nulla, ma con un qualcosa di “affascinante”. (Esempio: Gérard Philipe che facesse il Coadiutore, al tempo della sua adolescenza). E deve avvertire come un distacco (il tema della partenza). Ecco il perché della partenza, che sento sempre presente come un agguato.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

I caratteri: il Comandador e gli altri

Comandadorè l’altro termine del potere. Il Coadiutore è il giovane funzionario, lì per caso, lui è il vecchio funzionario lì da sempre. È l’archivista, l’impersonale padrone vero, il topo, il nunzio, il messo, etc. Ogni sedici mesi si sono avvicendati tanti coadiutori e lui sempre lì, sempre a fare le stesse cose, col solito passo da secoli. Non completamente a torto la tradizione ha fatto diventare questo individuo un esangue morto in piedi, che porta le notizie del tribunale. È un portare alle estreme conseguenze un fatto reale, per sfruttarlo comicamente. O forse farlo diventare più popolare. È la Repubblica che agonizza? Come in questo caso, la tradizione popolare dei comici ha colto un segno profondo. Penso che, purtuttavia, possa essere un errore portare alle estreme conseguenze il personaggio. Pur non nascondendomi che il personaggio impallidirebbe togliendogli la “caratteristica” della tradizione. Ma, nell’economia del lavoro, il comandadore non può diventare ciò che è diventato sulle scene, cioè un grande personaggio comico, un mero pretesto per ridere.

Nello stesso tempo, non deve diventare un’ombra, una voce di comodo. La difficoltà: riuscire a dare una vita al piccolo-grande personaggio del comandadore, una vita che sia né più né meno ciò che gli spetta, sul filo della tradizione e della realtà del testo. Occorre inventare e divagare sul personaggio quel tanto che è giusto per trovare cosa e quanto occorre. Richiede fantasia, senso del limite, libertà e misura.

Nella grande stanza vuota di questa pretura di povera gente, in una città abbandonata dai ricchi, un giovane pretore scrive commedie o meglio tragedie, sogna imprecisamente il teatro futuro, amministra come può la giustizia, corre dietro alle ragazzine del popolo ma non combina nulla, sta col popolo e ne è al di fuori, ha simpatia per il popolo e nello stesso tempo curiosità. Intorno a lui si muove una specie di vecchio carabiniere in feluca, vestito di nero, che si aggira tra carte d’archivio, borbotta, giudica a sua volta, introduce, tratta, indifferente e stanco, senza prospettive né speranze. E al massimo si consola, ogni tanto, con qualche ombretta di vino bianco che si paga o si fa pagare per qualche servizio speciale o più rapido. Ha sempre lo stesso passo, né svelto né lento, gli stessi gesti, le stesse reazioni o non reazioni, continua a introdurre carte e a portarle via; scrive e la penna gracchia sulla carta…è questa indifferenza della vecchia repubblica, estranea ormai alla vita, con la livrea funebre e solenne, ora frusta, che talvolta lo fa sembrare un becchino. Una figura indimenticabile, ma fatta di niente.

Intorno ai personaggi le figure più o meno mute:

I bazariotti: mercanti di pesce ricchi (è relativo – sono poverissimi!) con una vestigia di velluto, fedine lunghe, parlottano fra loro e comprano. Sono la classe “nemica”, che sfrutta il lavoro dei pescatori. I capitalisti dei poveri!

I marinai della tartana: pescatori anonimi, senza destino, mani grandi e spalle muscolose, teste grosse e chine, giovani ma tutti segnati già dalle rughe.

Le due vecchie: due elefanti al tramonto. Non parlano, non fanno nulla, si lasciano morire lentamente. Forse le nonne di famiglia. Non hanno più niente da dire. Sono come le barche che si sfasciano, laggiù nello squero. Hanno fatto ciò che dovevano. Lavoro e figli. Non servono più.

I bambini: giocano e passano. Un lampo. Non ci si accorge neanche. Gridano. Sono vita che nasce, che non sa ancora.

Il garzone (Menola): è il bambino più grande, che comincia a sapere. Lavora. Si diverte ancora lavorando, coi grandi, sulla barca. Ma già capisce cosa l’aspetta. Gioca ogni tanto, ma poco. È già troppo serio. I bambini lo invidiano. Lui non riesce a stare insieme a loro.

I due servitori (Sansuga e un altro): ombre di una sottoclasse piccolo borghese di servitori, al servizio dei piccoli funzionari.

Il garzone dei bazariotti: uno schiavo tutto muscoli, giovane ma ebete di lavoro e schiavitù. Direi che non gli si vede la faccia. Come se avesse un sacco in testa, come i carbonai che scaricano carbone a riva. Nero, mani e sacco.

I suonatori: suonatori popolari, cioè pescatori che suonano, oppure, come è probabile e meglio, suonatori da piccole feste in provincia. Artisti falliti. Mezzi dilettanti che suonano al casino dei signori di Chioggia – diremmo oggi: “al circolo nautico”.

“L’orchestra dei quattro Willies con Manfredino”…Due violini e un mandoloncello. Quasi servitori, con un che di stralunato e vinto.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

Baruffe d’amore

Rileggendo le note delle Baruffe, mi accorgo che esse non seguono tutto un cammino di conoscenza, un lavoro teatrale di verifiche, di annotazioni, che è stato fatto in un mese, nella casa di Venezia, da solo e con l’aiuto fraterno di quel piccolo mondo di compagni, solidale, attorno al mio affannoso cercare la realtà delle Baruffe. Manca il lavoro sui personaggi, sugli attori, appunti di “cose”, comprensioni di alcune verità psicologiche dei personaggi, soprattutto alcuni rapporti, le basi sociali. E mi accorgo che mano a mano questa conoscenza delle Baruffe corre sempre di più verso un mondo poetico, verso un tentativo di poesia – o di poetizzare? – il testo di Goldoni.

Nel riflettere ai pericoli di ciò, al voler cioè caricare un testo di poesia che non può sopportare, mi nasce questa sera una certezza, come una conquista: che l’unica maniera per affrontare un testo “comico” sia quella di affrontarlo con estrema serietà, non pensandolo affatto come “avvenimento comico”. Dimenticarsi che tale scena o tal personaggio possono essere “ridicoli”, cercare intorno tutto quello che può esserci di vita, di cose serie, poetiche, vere, umane, senza occuparsi mai della comicità possibile degli eventi o delle parole. La dimensione comica non è mai un punto di partenza. Qualora esista è un risultato finale, un qualcosa che rientra nelle possibilità di quella vita che si inventa sul palcoscenico, in maggiore o minore misura, a seconda dei casi. Come un fatto fortuito, senza calcolo.

Se le Baruffe è un testo comico, io dico che è anche un testo comico.

Certamente non è un testo “spensierato”, tutto gioco liberato, piacevolezza del suono etc… e certamente il suo mondo, sostanzialmente fatto di durezze e fatiche e povere cose, non è visto in una dimensione tragica. Ma tra questi due poli, quante possibilità intermedie, quanta possibile verità poetica…E quanta difficoltà a cogliere l’equilibrio di ogni scena, di ogni gesto o parola!

In fondo, sul palcoscenico basta lasciarsi guidare con modestia, giorno per giorno, dalle parole che si muovono, per ritrovarsi la verità di un testo fra le mani, anche se nel gioco della fantasia, nella ricerca dei motivi, di tutti i motivi, sei andato troppo avanti o sei rimasto troppo indietro, per timidezza, timore, rispetto o altro – i mille fattori che fanno parte del gioco umano dell’interpretazione.

Per ora un disegno umano e poetico delle Baruffe esiste, intorno, e lo lascio così, non troppo a fondo, più come sensazione che come segno fissato. Il resto verrà da sé – nulla mai viene da sé – verrà dal lavoro del teatro, se sarà fatto come deve essere fatto.

Il mio unico vero timore è tutto qui, in fondo, sul come sarà fatto, da me e dagli altri insieme. Se saremo capaci di lavorare giusto, in accordo, con quello che il testo ci indicherà, se sapremo leggere giusto, insieme, sul palcoscenico, in mezzo ai mille agguati del tempo, dei caratteri, dei visi, dei vizi di ognuno di noi.

Dagli appunti di regia, 1964, dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicati con tagli nel programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

Una presa di contatto con la contemporaneità

Io mi sono messo davanti alle Baruffe; ho tirato le mie conclusioni e, anziché scrivere un saggio, le ho messe in scena. Se fossi stato uno scrittore avrei buttato giù cinquanta cartelle, ma sono un regista e le mie idee sulla validità scenica del testo di Goldoni le ho espresse realizzandolo sul palcoscenico. Ho tagliato il finale di Lucietta che, secondo l’uso del tempo, invita gli spettatori ad applaudire, e a non credere che le donne di Chioggia siano tutte “baruffanti”. Oggi l’invito all’applauso è un assurdo, e assurde sono anche le giustificazioni di Goldoni. Infatti, a Chioggia era considerato uno di fuori, non certo uno di loro, e le Baruffe non hanno fatto piacere ai chioggiotti, i quali le hanno accettate solo venticinque anni fa. Prima del 1940 ritenevano che il testo goldoniano disonorasse Chioggia. Insomma, è questo che intendo quando parlo di “presa di contatto con la contemporaneità”. Certe cose, necessarie allora, non lo sono più oggi, quando invece ne sono necessarie altre. La partenza del Coadiutore dalla festa finale? Goldoni lo fa restare. Io l’ho fatto andar via perché questo Coadiutore è un uomo in mezzo a un mondo non suo, una specie di meneur des jeux, il quale, finito il suo compito, si butta addosso il mantello e parte. Teniamo presente questo: Goldoni se ne va da Chioggia. Scrive solo un’altra commedia, Una delle ultime sere di carnovale, ch’è il suo addio a Venezia, e poi se ne va per sempre, a Parigi. Questo Coadiutore che nella scena finale, in mezzo alla festa, va via, piuttosto triste, è Goldoni che lascia Chioggia e anche Venezia un po’ prima di aver scritto il suo addio.

Strehler si difende, “Panorama”, luglio 1965

Le Baruffe per una nuova stagione del Piccolo Teatro

Uno spettacolo come Le baruffe chiozzotte rappresenta la continuità di un lavoro su Goldoni che partendo dal Servitore di due padroni arriva oggi a quella che io considero la grande fase poetico-realista di Goldoni. Cioè chiude allo stesso tempo un periodo di lavoro e ne apre un altro. Non a caso, infatti, Le baruffe chiozzotte hanno inaugurato una stagione capitale per la storia del Piccolo Teatro che, a mio avviso, non è stata sufficientemente capita, né sottolineata, nelle sue implicazioni “rivoluzionarie” di sostanza. Non a caso le Baruffe segnano l’apertura di un organismo a gestione pubblica, per la prima volta, nella realtà concreta, al pubblico popolare senza discriminazioni di censo o classe. Si ha, cioè, la nascita “nella realtà” di un “teatro popolare” in Italia che sia, al tempo stesso, teatro d’arte e strumento di cultura “per tutti”.

E, naturalmente, questa “azione” culturale-sociale non poteva non portare con sé alcune implicazioni anche di carattere estetico, formale e sostanziale. Era possibile approfondire alcuni temi, nelle scelte, scartare alcune soluzioni e metterne in evidenza alcune altre, persino nella scelta di alcuni attori, nella composizione di un gruppo di lavoro sul palcoscenico, accentuare alcune caratteristiche e tralasciarne alcune altre. Ma, nella sostanza, mi pare che, nonostante tutto ciò, la mia attività di questi venti anni ha esemplificato continuamente, con tenacia, direi con caparbietà, alcuni temi che le Baruffe racchiudono in se stesse: il problema di un teatro nazionale popolare, secondo un concetto gramsciano che a me non pare affatto superato, tutt’al più da ritoccare in qualche affermazione estrema, la ricerca nel nostro paese di un linguaggio, il superamento del dialetto per costruirci sul teatro una lingua che ci rappresenti nella nostra realtà nazionale e via dicendo. I classici visti non come “museo” di gloria, ma come una possibilità permanente di comunicazione ed emozione.

Drammaturgia e teatro popolare, “Rinascita”, 27 novembre 1965

Il mio teatro è tenuto insieme dalle note di Fiorenzo Carpi

Nelle Baruffe chiozzotte siamo riusciti a ottenere, con lotte incredibili, quattro violini e viole e un chitarrone. E certo non fu uno degli ultimi fatti a dare, a quell’ultimo finale, a quel ballo popolare nella sera italiana che scendeva, la presenza viva di questi strumenti, suonati sul palco anche con sfasature e sbagli spesso, a dare dico quel tono così “umanamente” inconfondibile di una “verità trasposta” per poesia. E sempre a proposito delle Baruffe, non è certo stata poco quella tua musica. Mai la tua musica è stata poco cosa. Essa è il filo sottile che unisce tutta la mia storia di teatroIl “mio teatro” è tenuto insieme dalle tue note. Molto spesso la tua musica ha dato, all’inizio o durante il lavoro, la “chiarificazione” interna di cui avevo bisogno, l’illuminazione di un “tutto” che non riuscivo ad afferrare. Molte altre volte (soprattutto in questi ultimi anni, quando la stanchezza, il tempo più si facevano sentire), arrivando alla fine, quasi all’ultimo momento, davano sempre il suggello, la sigla perentoria a ciò che avevo fatto. Perché tu, Fiorenzo, hai sempre colto quello che per me è la prima cosa essenziale della musica di teatro. La sua “necessità” ineluttabile. Essere, cioè, la cosa musicale giusta per quel teatro che si stava facendo. Mai al di sopra o al di là, mai in contrasto profondo. Semmai in contrasto dialettico, per mettere ancora più in chiaro qualcosa sulla scena.

Io so che “pochi” hanno capito quanto importante la tua musica e la musica in se stessa sia per il teatro non solo italiano. E pochi sanno cioè che cosa il teatro ti deve. È uno di quegli oscuri rimpianti e sentimenti di ingiustizia che porto, perennemente, nel cuore.

Un giorno, in una casa a Venezia (al tempo delle Baruffe) stavi con le spalle appoggiate alla finestra aperta, con un foglio piccolo e sgualcito di musica in mano: era il tema finale delle Baruffe. L’avevi scritto, come quasi sempre, a matita con le tue piccole note, le tue crome e semicrome che io riconoscerei tra mille, perché sono “la tua calligrafia” e, naturalmente, mi avevi avvertito che era: «Così… una robetta… mah?… chissà?… Eh?…». Volevo sentirla subito; non c’erano strumenti. E allora ti ho detto: cantala. Mi hai guardato come se fossi pazzo. Ho capito che mai avresti potuto “cantare”, così, davanti a me, da solo. E ho cercato un compromesso onorevole, ti ho detto: «Se non vuoi cantare, fischiala. Puoi fischiarla». Allora hai tirato fuori, rassegnato e dignitoso, dal taschino i tuoi occhiali, li hai inforcati come “un professore di musica”, hai teso davanti a te la carta rigata e con una serietà incredibile ti sei messo a fischiare il tema finale delle Baruffe, girando pagina, proprio come un professore che suona con lo spartito. Se sbagliavi, riprendevi. Poi hai finito, hai tolto gli occhiali, li hai riposti e mi hai guardato dicendo: «Ecco!». Oh, caro, caro il mio Fio, che cantava, anzi no, fischiava solitario ed infelice ma serio la sua musica, per far contento un suo vecchio amico sempre in frenesia teatrale, sempre in fuoco divoratore che voleva subito sentire! […]

Ma ecco quello che volevo dirti: credi che sia stata inutile, quella povera musica, poveramente fischiata dal tuo cuore di artista, vero, grande quanto tu non sai, contro quella finestra, per il mio lavoro fatto, dopo? No, Fio: è stato fondamentale per le Baruffe. Perché tu avevi capito, dritto al cuore, quello che volevo fare e quello che le Baruffe erano.

Lettera a Fiorenzo Carpi, novembre 1966, pubblicata in Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli Editore, 1974

Documenti

Paolo Grassi. Goldoni per un teatro nazionale e popolare

Nessun testo, a nostro avviso, poteva meglio dare l’avvio all’impostazione del teatro popolare del Piccolo Teatro quanto Le baruffe chiozzotte. La trama, i personaggi, il linguaggio che essi parlano, appartengono infatti alla realtà popolare italiana più veraLe baruffe chiozzotte portano la data 1762: Goldoni, che conosceva bene Chioggia per esservi vissuto qualche tempo parecchi anni prima, scrivendole poteva fare una commedia che parlasse appunto della gente del popolo, la quale aveva diritto anch’essa, diceva, di vedersi rappresentata in teatro, come i nobili e i borghesi, dal momento che anch’essa frequentava i teatri. Scegliendo con Le baruffe chiozzotte una delle assolutamente più belle commedie di tutta la drammaturgia italiana, il Piccolo Teatro intende accentuare, se possibile, il proprio carattere di teatro nazionale e popolare.

Paolo Grassi, intervista di Luigi Lampredi, “Il Popolo”, 30 novembre 1964

Ottavia Piccolo. L’amore di Strehler per gli attori

Credo che Strehler mi abbia scelto per interposta persona. Un suo assistente, Fulvio Tolusso, mi aveva visto in Le visioni di Simone Marchand di Brecht diretto da Menegatti, che avevo fatto dopo Anna dei miracoliMi chiamarono al Piccolo senza neanche un provino, mi trasferii a Milano con mio padre. C’è anche lui nelle foto dei primi giorni di prove a tavolino, quando Strehler passava ore e ore a parlare, spiegare, immaginare Goldoni, il ‘700, le maschere, la Commedia dell’Arte. In una, mio padre ascolta attentamente, nell’altra, è appisolato. Erano sedute meravigliose, ma né lui né io eravamo abituati a tanto. Poi si cominciò a provare in palcoscenico, al Lirico, e per me inizio il terrore. Strehler mi urlava dalla platea «Non ti sento, lo capisci che non ti sento?». Io ce la mettevo tutta, non ottenevo niente e mi veniva la febbre. Ma ero molto giovane, un po’ bestia, quindi incosciente e sono sopravvissuta.

[…] Spettacolo bellissimo, aveva una malinconia speciale. Io non ero nessuno, ma con me c’erano Lina Volonghi, Giulio Brogi, Corrado Pani. La sera della prima Strehler mi mandò un mazzo di fiori e un biglietto commovente. Era fatto così. Si dice fosse tirannico, in parte forse lo era, ma amava gli attori.

Intervista di Sara Chiappori, “la Repubblica”, 17 gennaio 2017

Luciano Damiani. In principio fu uno zoccolo

«Andiamo a Chioggia» disse lo Strehler «ti faccio vedere la scena: un muro con una finestrella, di là il mare…».

A Chioggia non troviamo più la scena: «Fa niente!». Ritorno a Chioggia.

Da solo, il mattino presto, voglio vedere l’arrivo dei pescatori. Li osservo, seduto ai piedi d’un ponte: ne vedo arrivare tanti, alcuni con pantaloni su, al ginocchio; ai piedi stivali di gomma ripiegati, altri hanno gli zoccoli. Quelle gambe mi avevano colpito per la somiglianza con alcune stampe di marinai del ‘700.

Lungo la riva, andando verso la fermata del vaporetto, mi fermai davanti a un portone con esposte delle reti con i galleggiamenti di sughero: diedi uno sguardo dentro: fra le ante cose utili: utensili, remi, su una mensola vidi uno zoccolo con la parte di legno di uno spessore di sei centimetri e una forma di cuoio arrotondata davanti, molto bella: doveva essere vecchio! Chiesi se era in vendita. «Uno solo… che se ne fa? Lo prenda». […]

Iniziai a disegnare dal vero: prima le gambe dei pescatori, in barca, a terra, con le calze di razza […].

Quando Strehler li vide: «Ma cosa è questa roba?». «Ho iniziato con la parte più difficile da risolvere» dissi, «poi faccio i pantaloni, il torso, poi le teste… uomini e donne…». «Tu sei pazzo!». «Poi farò la scena.»

Dalle memorie dattiloscritte di Luciano Damiani, in Lorenzo Arruga, Strehler fra Goldoni e Mozart, Milano, Skira Editore, 2017

Elio Crovetto. Risciacquando i panni nelle acque di Chioggia

Mamma mia, com’era difficile quel chioggiotto; Strehler ci mandò per quindici giorni a risciacquare i nostri panni nelle acque dell’isola, e devo dire che i più pronti a imparare furono i genovesi, la povera Lina Volonghi e io, mentre i veneti, che pure erano nati a quattro passi di distanza, facevano una fatica d’inferno per impossessarsi di quel dialetto che pure per loro suonava “foresto”. Poi, come andò tutti lo sanno, fu un enorme successo.

Elio Crovetto, intervista di Angelo Falvo, “Corriere della Sera – ViviMilano”, 11 novembre 1992

Gianni Garko. I due mesi di prove con Strehler

Come prima cosa, per iniziare a preparare Le baruffe chiozzotte, Strehler fa quattro o cinque giorni di prolusione o analisi molto particolareggiata sul testo della commedia. Ci presenta il lavoro dal punto di vista storico, dal punto di vista della storia del teatro, inquadra la vicenda nell’epoca storica in cui viene ambientata dall’autore, ci parla moltissimo, sostenuto da pezze d’appoggio di critica letteraria, di critica teatrale; ci parla molto della tradizione dei comici, del modo di interpretare Goldoni ecc. E ci descrive molto minuziosamente la vita dei pescatori. Analizza il testo in modo affascinante, con tutti i mezzi a sua disposizione; costruisce l’identikit dei personaggi attraverso il livello letterario e attraverso quello poetico. E poi ci descrive la scena, ci descrive molte cose che avverranno in scena, ce le racconta in modo dettagliato e colorito e con dei documenti – ci fa vedere i bozzetti delle scenografie e dei costumi, ne discute con Damiani, pone delle domande insieme a noi su tutto questo: ci rende partecipi della genesi dello spettacolo.

Dopodiché, tutto il gruppo degli attori va a Chioggia a imparare il dialetto chiozzotto con un maestro di Chioggia (io peraltro ero già vissuto a Chioggia anni prima). Tornati a Milano, facciamo ancora prove a tavolino. Se bene ricordo, ci furono due mesi di prove abbondanti, prima di andare in palcoscenico.

Gianni Garko, in Giancarlo Stampalia, Strehler dirige. Le fasi di un allestimento e l’impulso musicale nel teatro, Venezia, Marsilio, 1997

Davide Verga. Il ballo delle Baruffe chiozzotte: «una verità trasposta per poesia»

«Credi che sia stata inutile quella povera musica?» scriveva Strehler a Fiorenzo Carpi, «No, Fio: è stata fondamentale per le Baruffe perché tu avevi capito, dritto al cuore, quello che volevo fare e quello che le Baruffe erano». Di musica, in verità, nelle Baruffe chiozzotte dirette da Strehler ce n’è pochissima: ad eccezione della manciata di secondi di un coro di pescatori preregistrato che accompagna l’arrivo della barca a metà del primo atto, nulla per quasi due ore. Poi, inaspettata, giunge la musica di un ballo, che fiorisce dal testo di Goldoni chiudendo lo spettacolo:

Isidoro: Novizzi, allegramente. V’ho parecchià un poco de rinfresco; gh’ho un pèr de sonadori: vegnì con mi, che vòi che se devertimo. Andemo, che balleremo quattro furlane.

Orsetta: Qua, qua balemo, qua.

Isidoro: Sì ben, dove che volé. Animo, porté fuora delle careghe. Fé vegnir avanti quei sonadori; e ti, Sansuga, va’ al casin e porta qua quel rinfresco.

Ed ecco entrare quattro suonatori – due violini, una chitarra, un mandoloncello –; si portano due sedie per loro. Posizionati di lato, ma pienamente inseriti nella diegesi drammatica (sono in costume, sorridono agli altri personaggi e interagiscono con loro), eseguono la furlana composta da Carpi. Intanto, al centro del palcoscenico, s’intrecciano le danze. […]

Il tema composto da Carpi si sarebbe rivelato fondamentale per conferire alle Baruffe «quel tono così umanamente inconfondibile» – lo definiva Strehler – «di una verità trasposta per poesia». A risuonare, scandita dal ritmo di furlana, è una gioia ruvida, punteggiata nei momenti di maggiore esaltazione dai soffi in battere nel collo di una fiasca; eppure, è assente in questa musica qualsivoglia nota folkloristica: Strehler parlava, semmai, di grazia malinconica. Anche qui l’elemento realistico-documentario, comune a tutta la rappresentazione – dalla lingua chiozzotta alla connotazione locale della furlana (‘filologicamente perfetta’ la giudicò un critico) – non ha valore di per sé, non è mai folklore: «Le usanze sono dettagli indispensabili, ma non sollecitano alcun interesse etnografico; la realtà scoperta è semplicemente umana» – chiosava Bertani su L’Avvenire – e, dunque, poeticamente universale. Come «il dialetto è in stretta funzione lirica, non è abbandonato alle bocche dei personaggi, ma elaborato secondo necessità d’arte, non strumento di colore, ma linguaggio individuale», così l’elemento popolare, finanche documentario della musica, fortemente calato nella rappresentazione quasi ne sgorgasse per lievitazione, si carica di valenze simboliche, incarna una festa che – dichiarava Strehler – «ha una grande ambiguità di fondo. […] Può essere anche un rito mortuario, terribile». È che quel condensarsi poeticamente del tempo in una celebrazione dell’armonia ritrovata, fissato nel continuo roteare del tema principale («un’eternità in un attimo» diceva Strehler) non cancella ma anzi traduce la percezione di un’esistenza che continuerà, dopo la danza, uguale a se stessa, con le sue baruffe, i suoi sorrisi, le sue sofferenze, immersa nel succedersi indifferente delle stagioni. La musica esprime la vitalità coraggiosa dell’uomo di ogni tempo, della sua fragilità riscattata dalla speranza, dalla condivisione; ed è, soprattutto per questo, una musica ‘povera’, quasi improvvisata, eseguita da chi è ai margini, da chi è nella folta schiera dei vinti, nella Chioggia del Settecento come oggi: «I suonatori: suonatori popolari» – se li immaginava Strehler –, «cioè pescatori che suonano, oppure, come è probabile e meglio, suonatori da piccole feste in provincia. Artisti falliti. Mezzi dilettanti che suonano al casino dei signori di Chioggia – diremmo oggi: “al circolo nautico”. “L’orchestra dei quattro Willies con Manfredino” … Due violini e un mandoloncello. Quasi servitori, con un che di stralunato e vinto».

È – come nella maggior parte degli allestimenti goldoniani di Strehler – musica dal vivo, prodotta a vista da personaggi portatori di un loro carico di realtà: è necessario che sia còlta nel suo essere creata dall’uomo perché possa essere tramite poetico dell’Umano. Corpo e anima devono rimanere uniti, pena l’uccisione della vita, pena il fallimento del miracolo del teatro, «perché» – scriveva Henri Barraud a proposito della musica di scena – «musica e teatro si contengono l’un l’altro, esattamente come il corpo contiene l’anima nel concreto, ma l’anima contiene il corpo al di là delle apparenze sensibili».

Allo stesso modo, nel tramonto in controluce che si crea sulla scena, virato dal dondolare delle lanterne nella tinta del sogno, gli uomini e le donne che danzano divengono sagome, protagonisti di un balletto di ombre cinesi: dalla realtà traluce ciò che di eterno vi è contenuto. Mentre la musica, inanellando ritornelli, continua a girare su stessa: «Come nei teatri dell’Estremo Oriente» – commentava un recensore francese – «ogni gesto è vero perché è sottilmente falso: bloccato bruscamente nella sua corsa, o rallentato, o accelerato, o amplificato; attraverso il gioco delle teste, dei torsi, delle dita, delle gambe (ogni attore recita all’unisono o in contrappunto rispetto agli altri) lo spazio vibra, vive, diviene spazio della condizione umana».

Si compiono in quella danza le nozze tra il Teatro e il Mondo; mai viene meno – nella musica, nelle luci, nei movimenti – la presenza della ‘storia’: l’autunno delle Baruffe vi s’insinua, come la raggelante folata di vento con cui si apre lo spettacolo, a tradurre una condizione umana a cui sono concesse schiarite di sole soltanto fugaci. È un ballo a cui si giunge dopo che Lucietta, piangendo per la prima volta, ha dichiarato i propri sentimenti, dopo che i nodi nuziali sono stati allacciati: in un’esistenza di duro lavoro e piccole cose, rimane l’illusione di un amore in cui poter stemperare una vita di stenti. Da lì la gelosia e il possesso, da lì le baruffe, a cui i bambini – loro, il futuro, al centro del palcoscenico – assistono indifferenti mentre giocano, recitando una filastrocca, come di fronte a un’esistenza che sanno sarà presto la loro, senza mutamenti.

Non va infine dimenticato che la musica di Carpi è strettamente legata a una danza, e «la danza» – scriveva Baudelaire – «può rivelare tutto ciò che la musica custodisce di misterioso, avendo in più il merito di essere umana e palpabile». Già nella scena decima del terzo atto il baruffare delle donne viene realizzato da Strehler nelle forme di un balletto stilizzato, con le battute recitate secondo un riconoscibile ordinamento ritmico (enfatizzato, nella riedizione del 1992, dal battere degli zoccoli a scansione ternaria sulle assi del palcoscenico) mentre gli spostamenti dei corpi seguono, in moto ondoso, precise linee geometriche di schieramenti e incursioni: una danza senza musica – si direbbe –, di separazioni e scontri. Il ballo finale, di contro, s’invera nella musica quale atto di sintesi, di fusione. Durante tutta la commedia, il palcoscenico è il campo di continue divisioni spaziali: «Da sinistra a destra, dal fondo al proscenio» – nota bene Catherine Douël, – «le opposizioni all’interno di una stessa famiglia, tra due famiglie o tra due classi, si suddividono lo spazio scenico. Le separazioni esistono solo per essere eliminate. Ciascun gruppo oltrepassa, quasi a rotazione, i propri limiti territoriali che poi saranno, per un istante, eliminati durante la festa improvvisata alla fine della zuffa, quasi in una sintesi ideale delle antitesi spaziali, sociali e storiche».

La coralità della commedia, riconciliata, si realizza riassumendosi armonizzata dalla musica, coreografata nella danza; i musicisti – come indicato da Carpi nelle parti staccate per i suonatori – a metà della furlana si spostano continuando a suonare sul fondo della scena, integrandosi compiutamente nella piccola comunità chiozzotta. E proprio quando il quadro d’insieme pare perfetto, coeso e trasfigurato al punto da assurgere a espressione di un’universale manifestazione dell’Umano, di una collettività unita e armoniosa, si ha l’inaspettato distacco della figura di Isidoro, il coadiutore del cancelliere criminale. Anch’egli, toltosi cappa e parrucca, si era immerso nella danza, volteggiando di donna in donna e battendo ritmicamente i piedi, ebbro di gioia di vivere; a un certo punto però, nel vorticare della coreografia, quasi per un effetto di decantazione azionato dalla musica, si ritrova da solo, come fuori posto, senza una compagna a cui allacciarsi, escluso. A Isidoro, ‘il borghese’, non resta che allontanarsi da quel mondo che non è suo, contemplandolo dalla ribalta, da uno spazio esterno, ibrido: quello, in fondo, del pubblico; ed è col pubblico che al fine si ricongiunge uscendo dalla platea. Lo strugge non la ‘malinconia divina’ – quella che Francesco De Sanctis si lagnava di non trovare in Goldoni –, bensì quella vitale e terrena generata dal sentirsi distante da ciò a cui si guarda con amore, ma a cui non è dato di partecipare. Ai suoi occhi – e ai nostri attraverso i suoi – la realtà sulla scena va trasfigurandosi in poesia, mondo poetico da fissare nella mente, da conservare nel cuore e, magari, da raccontare; Isidoro diviene Goldoni che – sempre dall’angusta posizione di un estraneo – quel mondo in gioventù aveva conosciuto e amato; e di cui, nella malinconia del ricordo, aveva evidentemente distillato le profonde verità umane così da poterne fare, con le Baruffe, poesia universale.

L’amore, l’esistenza dei deboli, il senso di dignità dell’uomo, la solidarietà, le divisioni sociali: tutto si condensa nel ballo finale; e ciò senza le mediazioni intellettuali della parola, ma nel presente assoluto della musica e della danza. Di nuovo l’evocazione lirica dell’Universale sgorga dalla realtà, potenziata da una musica che non è aggiunta dall’esterno, ma di quella realtà è parte costitutiva. Nella riedizione del 1992, quando la messinscena – in tempi in cui sembra spegnersi la speranza in un mondo per l’Uomo – pare caricarsi di una rabbia sotterranea (si esacerbano i gesti e le voci degli attori), la furlana finale rimane immutata, commovente bagliore di un’antica verità dell’esistere che riluce nella penombra, come un faro. Con la stessa musica lieve, con ciò che da sempre custodiva d’ingenuo e di puro. […]

Quel ballo risuonava e ancora risuona in chi lo ricorda come il simbolo, straziante tanto era vero e umano, della fiducia in qualcosa di nuovo e di diverso. Una fiducia fragile, che il teatro dona nell’effimero. E gli spettatori giungevano all’ultima scena scoprendosi nel cuore il desiderio segreto che quella musica non finisse mai, che continuasse inesausta a vorticare.

Davide Verga, Musiche di scena e teatro di regia. Fiorenzo Carpi e gli spettacoli goldoniani di Giorgio Strehler, tesi di Dottorato di ricerca, Università degli Studi di Milano, a.a. 2011/12

Luigi Ciminaghi. Fotografare il teatro di Strehler

Sono arrivato al Piccolo Teatro in un modo bizzarro e divertente. Erano gli inizi degli anni Sessanta e, da fotoreporter, fotografavo regolarmente le manifestazioni del Circolo Turati, a Milano. A un incontro c’era Paolo Grassi […] seduto in poltrona che fuma un bellissimo sigaro con la sua faccia simpatica e ho cominciato a riprenderlo. A un certo punto mi chiede: «Lei non ha mai fatto foto di teatro?». E io: «D’abitudine faccio il reporter, però mi interesserebbe». «Mi porti un po’ di foto da vedere» risponde. Così ci siamo dati un appuntamento, al Piccolo, in un caldissimo giorno di luglio.

La proposta di Grassi era di fare tre mesi di prova a cominciare dal primo settembre. L’unica cosa che mi ha detto Grassi è stata: «Per noi le foto ideali sono quelle “alla” Ugo Mulas». Al che gli ho risposto: «Io non fotografo come Mulas che ha uno stile particolare». Allora amavo il cinema neorealista: guardavo all’Europa, insomma; Mulas all’America.

Le prime foto che ho fatto per il Piccolo sono state scattate a Chioggia per le Baruffe. Grassi mi ha chiesto un reportage sui pescatori e la loro vita e così ho fotografato i loro gesti, le vecchie barche, gli squeri. Quando sono tornato ho sviluppato le foto e le ho lasciate sul tavolo di Grassi che non c’era. La sera, poi, sono uscito, ma quando sono tornato a mezzanotte mia madre mi ha detto che Grassi aveva telefonato e che era entusiasta delle foto di Chioggia. Strehler invece non mi ha detto nulla, perlomeno all’inizio. Dava l’impressione che della fotografia non gli interessasse molto. Forse perché era convintissimo che ci fosse solo Mulas e che dopo la fine di Mulas era finito un periodo. Durante il lavoro per le Baruffe, però, ha cominciato a guardarmi con più interesse.

Poi è venuto Il Gioco dei Potenti ed è andata ancora meglio: abbiamo cominciato, adagio adagio, a intenderci, a creare un rapporto. Quando è ritornato al Piccolo come direttore unico mi ha abbracciato dicendomi: «Dobbiamo darci del tu, dobbiamo fare delle foto stupende, dobbiamo fare tutto di nuovo». Da lì è nato il mio rapporto vero con Strehler. […]

Fotografare il teatro di Strehler significa altro che fare una bella foto: centrare il discorso dello spettacolo o il discorso del regista sul testo. Cercare di fare una regia fotografica sulla regia del regista, insomma.

Luigi Ciminaghi, in Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e spettacolo, a cura di Maria Grazia Gregori, Milano, Leonardo Arte, 1997

Rassegna stampa

Chioggia a Milano

Il primo autentico testo della drammaturgia nazionale che abbia come protagonista il popolo, Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni – in una illuminante edizione critica, diretta da Giorgio Strehler – ha inaugurato stasera la stagione 1964-1965 del Piccolo Teatro, nella grande sala del Lirico. All’aprirsi del bianco siparietto a due ali, il semplice, casto diaframma brechtiano tra il pubblico e la scena, che lascia intravedere anche le ombre dei tecnici al lavoro o degli attori che prendono posizione per dissolvere l’ormai inutile magia del vecchio teatro, ecco la scena che si rappresenta in Chioggia. Ai due lati del palcoscenico, di profilo, umili, corrose facciate di case, finestre, porte, alti camini, in una luce chiara di mattina autunnale. È un angolo della cittadina lagunare, grigio di antica povertà, testimone di secolari fatiche, sul mare, che è lì dietro, di fronte, al di là del canale, in lontananza, le sagome di capannoni di legno, di scafi in costruzione, di carcasse di barche in disuso, per gli uomini, per i pescatori. Per le donne, che rimangono sole per tanti mesi e accudiscono alla casa e impiegano il loro tempo intessendo i merletti sui tomboli, sedute nella calle.

Arturo Lazzari, “l’Unità”, 30 novembre 1964

Ricordo di un paesaggio

Ma il regista non ha nemmeno calcato la mano sulla condizione storica di quel gruppo di pescatori, pur non rinunziando a definirla con una rude nitidezza nella quale alla povertà è dato il posto che le compete. In questa direzione Strehler non ha ceduto a nessuna lusinga di carattere esteriore. Ha rifiutato i movimenti atteggiati a qualsiasi apporto decorativo eliminando perfino il colore: le scene bellissime apprestate da Luciano Damiani sono tutte di tonalità grigia (un grigio che spicca sulla luminosità del cielo) come si addice a un paesaggio che sopravvive nella realtà del ricordo. In cambio Strehler ha dato evidenza ai valori poetici del testo con ispirata immedesimazione.

Si avverte in tutto lo spettacolo uno struggimento la cui presenza non è attenuata nemmeno dalla difficoltà di intendere a fondo, gravato com’è dalla cadenza locale, il dialetto chioggiotto […]. Essa è comunque servita a dimostrare fino a qual punto gli interpreti si sono impadroniti di un testo difficile. Bravissimi tutti, da Carla Gravina che è una Lucietta prontamente reattiva, tanto più indocile quanto più è innamorata, a Lina Volonghi, Madonna Pasqua violentemente corposa, ad Anna Maestri (Madonna Libera) che si è meritata un caloroso applauso a scena aperta, a Donatella Ceccarello (Orsetta), a Ottavia Piccolo apprezzata nella scena col Coadiutore. Quest’ultimo è impersonato con misurata ironia da Mario Valdemarin al quale si contrappongono l’ameno ed esilarante Tino Scotti (Padron Fortunato), Elio Crovetto (Padron Toni), Giulio Brogi (Beppo), Gianfranco Mauri (il Comandador) e Virgilio Gottardi, notevole nelle poche battute di padron Vincenzo. Ultimi, perché esigono un elogio a parte, si nominano Gianni Garko che risponde pienamente al personaggio di Titta Nane, e Corrado Pani che dà a Toffolo una naturalezza e una vivacità ammirevoli.

Raul Radice, “Corriere della Sera”, 30 novembre 1964

Un Goldoni nuovo? No, il vero Goldoni

Quando il sipario s’è levato, anzi, più precisamente, quando le due basse cortine di tela si son separate scoprendo la più sobria e insieme la più profonda delle scene, una riva senza tempo aperta su un canale scorrente da millenni, e antiche le case profilate ai due lati, e antichissima la barca stagliata su un cielo senza tempo, si è subito compreso che Strehler aveva trovato la chiave per fare delle Baruffe un grande spettacolo adatto anche a una platea di ventimila posti […].

Trovata la chiave dell’universalità, che importanza ha che il dialetto sia veneziano o chioggiotto, il teatro grande o piccolo, il ritmo rapido o lento? Il lento, se mai, è più adatto, dà tempo alla meditazione, permette la scoperta, ad uno ad uno, dei vari personaggi, senza, nello stesso tempo, che la composizione abbia a perdere nulla della sua mirabile unità.

Un Goldoni nuovo? No, il vero Goldoni, del quale non ci s’era ancora accorti.

Giovanni Mosca, “Corriere d’Informazione”, 30 novembre 1964

Strehler, un regista critico

Strehler non si è limitato a regolare i lieti ritmi e i divertenti intrighi delle Baruffe, non si è limitato a ricopiare una Chioggia “veristica” con i suoi colori e i suoi riflessi, non si è limitato a far stupire lo spettatore con la “fotografia” di una realtà che è molto discutibile dire quanto sia reale: ma ha preferito dare allo spettatore un cielo madreperlaceo aperto su una vastità incontrollata di laguna, ha preferito suggerire allo spettatore un’architettura e una topografia, ha preferito restituire ai pescatori i rozzi panni e alle loro donne la semplicità non sgargiante delle semplici vesti, ha preferito narrarci attraverso le parole del commediografo un mondo chioggiotto tutto diverso da quello che ormai la tradizione (ma la tradizione minuscola) ha consacrato.

Ne viene fuori una diversa dimensione umana, ne scaturisce un diverso rapporto fra uomo e uomo, fra donna e donna, ne nasce una favola non meno ilare, tutt’altro, ma meno artefatta, meno agghindata, meno facile. Anche l’uso del dialetto asperrimo di Chioggia, duro come una sorta di linguaggio ruzantino, a volte così aspro da sfuggire alla comprensione immediata, ha recato il suo peso nella novità dello spettacolo: e quello che non si comprende di parole è compensato da ciò che si comprende di azione, di vita, di armonia geniale.

Strehler si è confermato quell’altissimo regista che sappiamo: un regista che non lascia nulla in superficie e che scava anche i minimi fiati di poesia da battute apparentemente banali o superficiali. È un regista critico, che vuole vedere nel copione tutte le angolature che il copione stesso può offrire.

Paolo Sembranti, “La Nazione - Sera”, 30 novembre 1964

Un Goldoni suonato al violoncello

È un Goldoni suonato al violoncello, ravvicinato alle nostre canine malinconie di cittadini incalliti. È un Goldoni che avanza senza scosse, senza intrighi o soluzioni da commedia, ma che a ogni scena si fa più chiaro e profondo, ripensato. Il dialetto… non so dirvi se gli attori parlassero un chiozzotto passabile o una qualche approssimazione veneto-romagnola; ma, così aspro eppure aperto a improvvise dolcezze, ecco che anche il dialetto contribuiva ad aumentare una sensazione di vita misteriosa e definitiva, come le bellissime, scarne scene di Damiani, come le luci ora sforacchianti da finestre, ora incerte in una villa disabitata, ora crepuscolari su una laguna autunnale.

Ennio Flaiano, “L’Europeo”, 24 gennaio 1965

Il chioggiotto, dal palcoscenico ai salotti

Nei salotti, nuovamente riaffollati dopo il ritorno dalle vacanze invernali, le signore-bene di Milano hanno lanciato un nuovo giochetto. Sul più bello di un’animata conversazione c’è sempre qualcuna che chiede, sgranando gli occhi dalle lunghissime sopracciglia: «Coss’oggio fatto?», oppure finge indignazione, unicamente per esclamare: «Oe, parlé con rispetto». E chi ormai sa il gioco risponde: «No ve scaldè, patrona» oppure «Via, via, manco chiaccole». La “conversazione chioggiotta” è l’ultima invenzione per ravvivare le riunioni fra amici, dare un tono all’ormai monotono bridge, introdurre con garbo un ennesimo pettegolezzo. La strascicata parlata veneta, anzi chioggiotta, è diventata di moda dopo il clamoroso successo decretato alla splendida edizione delle Baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, le cui repliche si sono succedute per settimane nella immensa sala del Lirico su cui ha giurisdizione, da quest’anno, il Piccolo Teatro di Milano.

Gastone Geron, “Amica”, 7 febbraio 1965

Cosa può essere il teatro

Ci si siede dinnanzi a questo miracolo d’arte come se si capisse solo ora cosa può essere il teatro […]. Rigore e logica sono le conquiste più grandi di Giorgio Strehler e tutto ciò che sulla scena appare così vivacemente spontaneo, è in realtà esattamente composto […].

Il pubblico è stato conquistato dal ritmo e dalla ricchezza di recitazione di questo modello di spettacolo. Gli applausi finali hanno di gran lunga superato la consueta misura viennese.

Otto F. Beer, “Neues Ӧsterreich”, 24 aprile 1966

Naturalezza, non naturalismo

È un teatro realistico e “progressivo”, certamente una novità nella vita del teatro italiano. Giorgio Strehler, che è uno dei più significativi registi di oggi, realizza sulla scena il testo come una commedia realistico-popolare. Egli lascia che il poetico e il comico emergano autonomamente dal realismo della narrazione e si tratta di una poesia meravigliosa e di una comicità travolgente, che appaiono entrambe non come un mondo “artificiale”, bensì come elementi della realtà. Tutto appare sciolto, libero, tutto possiede una assoluta naturalezza, che - lo si noti bene - è esattamente il contrario del naturalismo. Si tratta cioè di una naturalezza che si fonda su una estrema perfezione artistica dietro la quale vi è una capacità artistica incredibilmente controllata e disciplinata. […]

Perfetto, compiuto, affascinante teatro. Un Goldoni totalmente nuovo. Un incontro meraviglioso con l’arte di Giorgio Strehler.

Helmut Ullrich, “Neue Zeit”, 10 maggio 1966

Un’opera d’arte perfetta e insuperabile

Ora abbiamo anche noi, qui ad Amburgo, purtroppo per poco tempo, davanti agli occhi la conferma del fatto che il Piccolo Teatro di Milano appartiene senza dubbio al numero dei più famosi teatri di punta del mondo.

Già una volta il complesso milanese di Paolo Grassi e Giorgio Strehler era stato ospite qui ad Amburgo: anche allora con un Goldoni.

Questa volta i celebri e amabili milanesi ci presentano un Goldoni da noi meno conosciuto, fuori dalla tradizione della commedia all’improvviso all’italiana: una commedia nata dalla spirito e dalla forza del teatro popolare.

Strehler ha creato, con queste Baruffe chiozzotteun’opera d’arte perfetta, insuperabile, condotta sino al minimo dettaglio, realizzando un divertimento profondo e terso.

Paul Theodor Hoffmann, “Hamburger Abendblatt”, 13 maggio 1966

Come inciso in un quadro

Ogni particolare di queste scene quotidiane resta fissato e come inciso in un quadro: il gioco di luce che si spegne nell’angolo di una piazza o sotto una porta, la camminata ancheggiante di una donna che lascia la penombra del tribunale, la tenerezza di un controluce, la curva di un dorso, l’eleganza di un dito. Gli attori sottolineano i più piccoli effetti con una perfezione che può destare invidia anche nelle nostre migliori compagnie.

B. Poirot-Delpech, “Le Monde”, 19 maggio 1966

Non credevo fosse possibile una simile perfezione

Io frequento il teatro sin dalla mia giovinezza, cioè da prima della guerra. In più di vent’anni, ho visto centinaia e centinaia di spettacoli – in Francia e all’estero. Non credevo, non avrei mai immaginato che fosse possibile una simile perfezione, che si potesse in questo modo, sotto gli occhi del pubblico, agire come se qualcosa di purissimo si creasse dinanzi a noi. Era come se avessi visto dipingere Guardi la Laguna della collezione Pezzoli, come se, abolito il tempo, avessi davanti Goldoni stesso e i suoi personaggi. Quel senso di immergersi nel tempo, di trascendere le apparenze – che ho provato a volte in Italia e soprattutto a Venezia – la regia di Strehler me l’ha dato al massimo.

8Lo ringrazi di avermi dato questa gioia.

Io non ho mai scritto in questi termini a nessun direttore di Teatro, poiché i miei più grandi entusiasmi venivano sempre smorzati, successivamente, dallo spirito critico. Due giorni dopo questa rappresentazione, io sono ancora affascinato e lo sarò per sempre.

Da una lettera di Guy Dumur, critico de “Le Nouvel Observateur”, a Paolo Grassi, maggio 1966 - Archivio Piccolo Teatro di Milano

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