Eccolo Goldoni alla Comédie-Française. È un avvenimento e si deve a Giorgio Strehler e alla stima e all’affetto, per non dire al vero e proprio entusiasmo di cui il nostro regista è circondato qui, dove ogni volta che appare alla ribalta, alla fine dei suoi spettacoli col Piccolo Teatro (e ora c’è stato anche il successo del Simon Boccanegra), è un’acclamazione unica, un «bravó» fragoroso e quasi commosso. Così, questa Trilogie de la villégiature, realizzata sul palcoscenico del vecchio Odéon, con i sociétaires della Comédie, continua e, in qualche modo, conclude il ciclo iniziato da Strehler tre anni fa, in questo stesso teatro, con Il giardino dei ciliegi, Re Lear e Il campiello del Piccolo.
È un ciclo che rievoca e sintetizza poeticamente un’emozionante memoria storica, la vicenda dei comici italiani a Parigi, dal XVI secolo a oggi […].
La Trilogia goldoniana è un testo a cui Strehler è particolarmente affezionato. È una caravella ilare e malinconica che, da quando fu varata, nel remoto 1954, sul palcoscenico del Piccolo Teatro, messa a riparo per vent’anni nel cantiere della memoria, approdò poi al Burgtheater di Vienna (1974) nella versione in lingua tedesca. E ora eccola qui, sulle assi dell’Odéon. E sempre, mi ricordo, il momento culminante, il vero e proprio senso dell’operazione, mi si è rivelato alla fine del secondo “pezzo” della Trilogia quando Giacinta […] rimane sola in scena. E ci offre, con discrezione amara ma anche ironica, il riassunto di una scena non scritta, la grande scena-monologo dell’amore in lotta col dovere, e poi tace, come sopraffatta, e la giornata alla fine (siamo in villeggiatura, sulle colline toscane) ha un trasalimento già autunnale. Allora la chiamano, da fuori e da lontano, i compagni di quell’estate: «Giacinta!…»
Bene, quel grido che ripete il richiamo del Giardino dei ciliegi («Anja»), in Goldoni non c’è. È un’invenzione di Strehler. E sempre, fosse in scena la Giacinta di Valentina Fortunato, nella prima edizione, o quella di Andrea Jonasson al Burgtheater o quella di Ludmila Mikaël qui a Parigi, in quel momento qualcosa scattava. E ci si accorgeva di come Strehler, per tutto quel secondo tempo dello spettacolo, avesse fatto compiere a Goldoni il salto di un secolo, immettendolo nella zona di un intimismo e realismo decadenti, dandogli uno strazio e un senso che le sue parole, apparentemente bonarie, suggerivano soltanto ma certo non esprimevano compiutamente. […]
Strehler lo riconosci sempre da come agisce sugli interpreti, da come si immedesima con essi, sino a far trasparire nei loro toni e nei loro gesti se stesso e le proprie ipotesi istrioniche e il proprio guizzo emotivo. Avendo a disposizione gli attori della Comédie, così professionalmente attrezzati, così radicati in una tradizione, si è servito di questa solida base di esperienza e di mestiere come di un terreno straordinariamente adatto a gettarvi i semi di un estro mimico e vocale diverso.
Ha fatto per esempio di quel grosso e antico attore che è Pierre Dux (anche, per pochi giorni ancora, amministratore generale dell’istituto) un singolare, comicamente stupefatto e come consapevolmente imbalordito Filippo […]. Ha fatto di Claude Giraud, che è Leonardo, colui che diventerà il marito di Giacinta (e avrà presumibilmente una vita dura), un nevrotico violento e debole, dalla vocalità e dalla gestualità esasperate. Ha fatto di François Beaulieu, che di Leonardo è il rassegnato rivale, una specie di malinconico emblema dell’impassibilità e dell’autocontrollo.
Ed ecco Ludmila Mikaël come Giacinta: così lineare e lucida nel turbinio della prima parte e così turbata e confusa e perplessa dopo, nel lento scorrere di quella villeggiatura che, per lei, è anche rivelazione di moti oscuri, di sillabe del cuore. […]
E poi a contenderle quasi gli onori della serata, ecco quel delizioso piccolo animale da palcoscenico, quel mostriciattolo di istrionismo, tutta spilli di gridi e d’estri, che è Catherine Salviat; e il formidabile Jacques Sereys, foscamente pagliaccesco, nero e pallido d’ambiguità come il trucco che gli disegna la faccia, nella figura dello scroccone; e Denise Gence, che tratteggia con una comicità pudica, sotto la quale trema una maschera tragica, il personaggio di Sabina, tardona indomita. E tutti gli altri, intorno, veramente perfetti e come accesi da un entusiasmo nuovo.
Strehler lo riconosci sempre, allestisca spettacoli in Italia, in Germania o in Francia, al crepitio delle atmosfere, al movimento degli elementi scenici (quegli interni realistici ed emblematici, quegli esterni distesi e assorti, di Ezio Frigerio) all’impiego eccitante delle musiche (di Fiorenzo Carpi), ai tocchi di malinconia autunnale (quegli impermeabili neri, quegli ombrelli lustri del ritorno in città), alla piccola trovata poetica che sembra interrompere l’azione e invece vi inserisce quasi il palpito di una farfalla o lo spezzarsi improvviso, cecoviano, di una corda di violino. Sono tutti gli elementi di uno spettacolo che, profondamente maturato attraverso gli anni, sta entusiasmando, già da queste prime sere, il pubblico parigino.
L’ho vista due volte, questa Trilogia della Comédie, che dura quasi cinque ore […]. E tutt’e due le volte, dopo la battuta di congedo pronunciata da Pierre Dux davanti agli spezzati delle scene ammonticchiati sul fondo, già smontati, a indicare l’effimero del teatro, il pubblico si è scatenato, in piedi negli applausi e, all’apparire di Strehler fra gli interpreti, ha letteralmente raddoppiato le acclamazioni.
Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 21 dicembre 1978