La trilogie de la villégiature
(La trilogia della villeggiatura)

1978

Dopo l’edizione milanese del 1954 e quella per il Burgtheater di Vienna di vent’anni più tardi, Giorgio Strehler porta in scena per l’ultima volta, al Théâtre de l’ Odéon di Parigi con i prestigiosi attori della Comédie-Française, questo “grande ritratto di un mondo in decadenza”. Ezio Frigerio è, come già nel 1974, autore dell’impianto scenografico, mentre Franca Squarciapino lo affianca nel disegnare gli eleganti costumi. La via verso il realismo indicata da Goldoni e messa in rilievo della lettura del regista triestino viene ulteriormente amplificata dalla traduzione, attuale e immediata, di Félicien Marceau. Il successo presso il pubblico francese è tale da rendere La trilogie de la villégiature un vero e proprio spettacolo di culto.

Personaggi e interpreti

Filippo Pierre Dux / Bernard Dhéran
Fulgenzio Jacques Eyser
Guglielmo François Beaulieu
Leonardo Claude Giraud
Paolo Marcel Tristani
Cecco Yves Pignot
Tognino Gérard Giroudon
Ferdinando Jacques Sereys
Sabina Denise Gence
Costanza Françoise Seigner
Giacinta Ludmila Mikaël
Brigida Catherine Hiegel
Vittoria Catherine Salviat
Rosina Bernadette Le Saché

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Franca Squarciapino ed Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi
Assistente alla regia Jean-Claude Auvray
Assistente alle scene Mauro Pagano

Testo di Carlo Goldoni
Adattamento di Giorgio Strehler
Traduzione di Félicien Marceau

Regia di Giorgio Strehler

Parigi, Théâtre National de l’Odéon, 16 dicembre 1978

Strehler ne parla

La fine di un mondo, tra Goldoni e Čechov

Questi attori sono fantastici. A venticinque anni hanno già recitato tutto. Dopo otto ore di lavoro, hanno capito tutto. Ti chiedi cosa ci fai là. Non hai che da andartene… Però sono soltanto attori. E io sono là per insegnargli a essere umani. È la cosa più difficile.

Già nel 1954 avevo avuto l’idea di restringere un po’ i tre tasselli che compongono la Villeggiatura. Il primo, Le smanie per la villeggiatura, è un testo comico. In quell’epoca, i Veneziani erano impazziti per le seconde case. Prima l’aristocrazia, poi i borghesi, grandi, piccoli e medi, che si rovinavano per passare un mese in campagna e fare “bella figura”… La seconda parte, Le avventure della villeggiatura, è già meno allegra: le coppie si formano e si sciolgono per la vita a partire da malintesi, a causa di stupide convenzioni in cui il denaro ha un ruolo fondamentale. È il Turgenev di Un mese in campagna. Ma la fine, Il ritorno dalla villeggiatura, con tutte le sue promesse fittizie, tutte le sue delusioni, è Čechov. E, se nella mia regia io faccio del Čechov, è che lui e Goldoni hanno descritto la fine di un mondo, di una società, con gli stessi mezzi.

Riportato da Guy Dumur, “Le Nouvel Observateur”, 11 dicembre 1978

Una compagnia di attori dalla preparazione straordinaria

Gli attori della Comédie-Française sanno tutto, sono molto ricettivi, capiscono immediatamente quello che gli viene detto. Ma l’abitudine di lavorare molto velocemente, di recitare – con poche prove – i grandi classici, comporta una certa difficoltà d’introspezione, di scendere in profondità. Si potrebbe dire: in quindici giorni sarà tutto pronto. Perché sono abituati a recitare tutto. Hanno interpretato quasi la metà della letteratura teatrale. Ho trovato qui una compagnia di attori dalla preparazione straordinaria dal punto di vista professionale. Sono persone molto disponibili. All’inizio avevano un po’ di paura, poi hanno capito che io volevo che facessero le cose partendo dall’interno, per arrivare a esteriorizzarle con la loro arte.

Riportato da Beatrix Andrade, “Comédie-Française”, dicembre 1978 / gennaio 1979

1954, 1974, 1978: tre diverse versioni della Trilogia

È la terza volta, questa, che allestisco la Trilogia, o meglio – come recitano di preciso i titoli delle tre commedie – Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura. La prima volta fu a Milano, nel ‘54, una stagione che considero “chiave” nel mio cammino artistico; una seconda volta fu a Vienna, in tedesco, il novembre ‘74, con Andrea Jonasson protagonista, al Burghteater, nel ruolo che fu a Milano di Valentina Fortunato e che oggi è, a Parigi, di Ludmila Mikaël.
Le commedie, è ovvio, sono le stesse, lo stesso è il “taglio” dato alla Trilogia che ne fa un tutt’uno, un affresco delle vanità (di ieri? di oggi?) che spingono a spese eccessive, una satira alle vacanze viste non già come sano riposo bensì come gara di lusso e occasione di sperperi: è un grande ritratto di un mondo in decadenza. Differenze: certo, se è possibile, con l’andar degli anni, e di lingua in lingua, lo spettacolo mi pare abbia ancora accentuato quel suo carattere di profonda malinconia che sta dietro all’apparente intreccio d’amori, di ripicche e di gelosie, per scaraventare sopra la fatuità esteriore tutta la visione accorata di Goldoni (altro che “buon papà”!) sulla debolezza degli uomini e del mondo. Il Mondo e il Teatro: i due eterni poli attorno ai quali ruota l’universo poetico goldoniano. Guardateli bene, questi protagonisti “vacanzieri”: la loro caratteristica – già lo si avvertiva nel ‘54, ma oggi lo si vedrà meglio, credo – non è già la spensieratezza salottiera di un immaginario Settecento: la loro caratteristica è la solitudine, la rassegnazione…

Intervista di Ugo Volli, “la Repubblica”, 19 dicembre 1978

Documenti

Ezio Frigerio. La vendetta del Teatro

Lavorava duro, Giorgio, molte ore al giorno per quasi due mesi. Sondava l’attore, poi gli strappava di mano la battuta e sfruttando quelle corde segrete lo ricreava in nuovi modi di fare, di porgere le parole, di atteggiarsi, sedersi, uscire dalla porta. Un misterioso balletto che ogni giorno imprecando lui ritoccava, quasi disperato, alla ricerca della perfezione. Insomma fra urli, imprecazioni e qualche raro sorriso, così nasceva la regia del nuovo spettacolo.
E poi arrivò la sera fatale. Diciamolo pure, un grande successo… gli applausi non finivano mai, tutta Parigi si disputò i biglietti per vedere, per sentire questa commedia dove c’era una foga tutta italiana in teatro!
Per una cinquantina di giorni il teatro fu pieno, la gente fuori aspettava di trovare un biglietto, ma il cinquantesimo giorno ci venne dato uno strano segnale. Era una sera speciale, riprese per la televisione, il teatro ingombro di telecamere, di rotaie, di proiettori, ed era anche l’ultima in cui si teneva lo spettacolo. Sia chiaro, la televisione in fondo non è teatro, ne è la triste copia… in casa, in poltrona, il caffè sul tavolino, senza pubblico, il contatto di mano, senza applausi… insomma, senza il teatro con il suo bel boccascena dorato no, non guardatelo alla televisione il nostro teatro, non è lui, non lo riconosciamo. Ma ecco, al culmine del terzo atto, come se quel luogo santo, il palcoscenico, rifiutasse quell’oltraggio televisivo… con un colpo secco, che fece tramare la sala, il grande cristallo antifuoco che proteggeva la fiamma del caminetto acceso scoppiò con un rumore secco, le schegge arrivarono quasi in platea e da quel camino di carta e cartone uscì una prepotente fiammata, spenta subito dai sapeurs-pompiers. Un po’ di spavento ci fu in sala, un po’ di panico, per un momento non fu chiaro se fosse stato un gioco di teatro o un pericoloso incidente. E così tristemente la radio-télévision française dovette rimediare un finale improvvisato su quel palcoscenico che sembrava fieramente indignato.
Tutti si domandarono che cosa era successo, ma nessuno mai lo seppe; il teatro è vivo, ha i suoi amori e le sue vendette, non meravigliatevi, dunque, se quella sala dell’Odéon si oppose a quella ripresa televisiva che sui piccoli schermi voleva sminuire le sue glorie.
Signori, il Teatro è il Teatro.

Ezio Frigerio, “La Provincia”, 25 ottobre 2020

Ludmila Mikaël. Strehler in cerca della perfezione

La caratteristica principale del suo [di Giorgio Strehler, ndr] modo li lavorare è la ricerca della perfezione; non una perfezione teorica, ma una perfezione che serve a trovare il momento preciso, tanto in profondità quanto in superficie, specifico a ogni istante. Può essere così, perché quando si recita Goldoni non ci sono grandi drammi, ma sentimenti che cambiano costantemente. La perfezione è mettere tutto, dalla testa ai piedi, al proprio posto. È vero; quando una mano è troppo in alto, cambia tutto e questo mi entusiasma. Strehler obbedisce a un’evidenza, cerca la semplicità, la verità dell’arte nell’istante.

Ludmila Mikaël, riportato da Beatrix Andrade, “Comédie-Française”, dicembre 1978 / gennaio 1979

Pierre Dux. Nulla sarà lasciato al caso

Lavorare con Strehler mi dà tanto. È un uomo meraviglioso; questo grande regista inizialmente era un attore. La regia è, quindi, per lui un lavoro molto completo che include la concezione dello spettacolo, della scenografia, dell’illuminazione, dell’atmosfera, ma che comporta soprattutto il lavoro sugli attori. In questo campo ha fatto un’operazione meravigliosa. Ha, innanzitutto, una conoscenza molto solida e molto profonda del testo che porta in scena e descrive i personaggi in tutti i loro dettagli. Sappiamo che quando reciteremo, nulla sarà stato lasciato al caso.

Pierre Dux, riportato da Beatrix Andrade, “Comédie-Française”, dicembre 1978 / gennaio 1979

Jacques Sereys. La musicalità di ogni rumore

Strehler è un discepolo di Stanislavskij, ma è più completo. Stanislavskij parla dell’approccio drammatico; è abbastanza efficace nello smontaggio del meccanismo umano, ma non crea qualcosa di artistico. Strehler aggiunge la stilizzazione. Quando abbiamo trovato qualcosa in scena – per esempio, un momento che sembra giusto, verosimile, il movimento è buono, l’intonazione è corretta – ecco, adesso rendiamolo più artistico. E quindi non si tratta più soltanto del punto di vista dell’attore, ma anche di quello dell’opera nella sua interezza. Se un urlo è giusto, Strehler si impegna affinché quel rumore non sia un semplice rumore, ma qualcosa di musicale. Se c’è una tazza che cade e si rompe, non si accontenta del rumore della tazza che cade, ma vorrà trovare una tazza che musicalmente si rompa, in modo da creare un determinato suono, su un dato materiale che ha scelto per il suolo.

Jacques Sereys, riportato da Beatrix Andrade, “Comédie-Française”, dicembre 1978 / gennaio 1979

Jacques Eyser. Strehler è la quintessenza del Teatro

Strehler è la quintessenza stessa del Teatro, con un’immensa T maiuscola, con tutto quello che ci si può aspettare di appassionato, d’intelligente nella psicologia dei personaggi, nella conoscenza degli attori, nella tecnica della scena.

Jacques Eyser, riportato da Beatrix Andrade, “Comédie-Française”, dicembre 1978 / gennaio 1979

Rassegna stampa

Strehler lo riconosci sempre

Eccolo Goldoni alla Comédie-Française. È un avvenimento e si deve a Giorgio Strehler e alla stima e all’affetto, per non dire al vero e proprio entusiasmo di cui il nostro regista è circondato qui, dove ogni volta che appare alla ribalta, alla fine dei suoi spettacoli col Piccolo Teatro (e ora c’è stato anche il successo del Simon Boccanegra), è un’acclamazione unica, un «bravó» fragoroso e quasi commosso. Così, questa Trilogie de la villégiature, realizzata sul palcoscenico del vecchio Odéon, con i sociétaires della Comédie, continua e, in qualche modo, conclude il ciclo iniziato da Strehler tre anni fa, in questo stesso teatro, con Il giardino dei ciliegi, Re Lear e Il campiello del Piccolo.
È un ciclo che rievoca e sintetizza poeticamente un’emozionante memoria storica, la vicenda dei comici italiani a Parigi, dal XVI secolo a oggi […].
La Trilogia goldoniana è un testo a cui Strehler è particolarmente affezionato. È una caravella ilare e malinconica che, da quando fu varata, nel remoto 1954, sul palcoscenico del Piccolo Teatro, messa a riparo per vent’anni nel cantiere della memoria, approdò poi al Burgtheater di Vienna (1974) nella versione in lingua tedesca. E ora eccola qui, sulle assi dell’Odéon. E sempre, mi ricordo, il momento culminante, il vero e proprio senso dell’operazione, mi si è rivelato alla fine del secondo “pezzo” della Trilogia quando Giacinta […] rimane sola in scena. E ci offre, con discrezione amara ma anche ironica, il riassunto di una scena non scritta, la grande scena-monologo dell’amore in lotta col dovere, e poi tace, come sopraffatta, e la giornata alla fine (siamo in villeggiatura, sulle colline toscane) ha un trasalimento già autunnale. Allora la chiamano, da fuori e da lontano, i compagni di quell’estate: «Giacinta!…»
Bene, quel grido che ripete il richiamo del Giardino dei ciliegi («Anja»), in Goldoni non c’è. È un’invenzione di Strehler. E sempre, fosse in scena la Giacinta di Valentina Fortunato, nella prima edizione, o quella di Andrea Jonasson al Burgtheater o quella di Ludmila Mikaël qui a Parigi, in quel momento qualcosa scattava. E ci si accorgeva di come Strehler, per tutto quel secondo tempo dello spettacolo, avesse fatto compiere a Goldoni il salto di un secolo, immettendolo nella zona di un intimismo e realismo decadenti, dandogli uno strazio e un senso che le sue parole, apparentemente bonarie, suggerivano soltanto ma certo non esprimevano compiutamente. […]
Strehler lo riconosci sempre da come agisce sugli interpreti, da come si immedesima con essi, sino a far trasparire nei loro toni e nei loro gesti se stesso e le proprie ipotesi istrioniche e il proprio guizzo emotivo. Avendo a disposizione gli attori della Comédie, così professionalmente attrezzati, così radicati in una tradizione, si è servito di questa solida base di esperienza e di mestiere come di un terreno straordinariamente adatto a gettarvi i semi di un estro mimico e vocale diverso.
Ha fatto per esempio di quel grosso e antico attore che è Pierre Dux (anche, per pochi giorni ancora, amministratore generale dell’istituto) un singolare, comicamente stupefatto e come consapevolmente imbalordito Filippo […]. Ha fatto di Claude Giraud, che è Leonardo, colui che diventerà il marito di Giacinta (e avrà presumibilmente una vita dura), un nevrotico violento e debole, dalla vocalità e dalla gestualità esasperate. Ha fatto di François Beaulieu, che di Leonardo è il rassegnato rivale, una specie di malinconico emblema dell’impassibilità e dell’autocontrollo.
Ed ecco Ludmila Mikaël come Giacinta: così lineare e lucida nel turbinio della prima parte e così turbata e confusa e perplessa dopo, nel lento scorrere di quella villeggiatura che, per lei, è anche rivelazione di moti oscuri, di sillabe del cuore. […]
E poi a contenderle quasi gli onori della serata, ecco quel delizioso piccolo animale da palcoscenico, quel mostriciattolo di istrionismo, tutta spilli di gridi e d’estri, che è Catherine Salviat; e il formidabile Jacques Sereys, foscamente pagliaccesco, nero e pallido d’ambiguità come il trucco che gli disegna la faccia, nella figura dello scroccone; e Denise Gence, che tratteggia con una comicità pudica, sotto la quale trema una maschera tragica, il personaggio di Sabina, tardona indomita. E tutti gli altri, intorno, veramente perfetti e come accesi da un entusiasmo nuovo.
Strehler lo riconosci sempre, allestisca spettacoli in Italia, in Germania o in Francia, al crepitio delle atmosfere, al movimento degli elementi scenici (quegli interni realistici ed emblematici, quegli esterni distesi e assorti, di Ezio Frigerio) all’impiego eccitante delle musiche (di Fiorenzo Carpi), ai tocchi di malinconia autunnale (quegli impermeabili neri, quegli ombrelli lustri del ritorno in città), alla piccola trovata poetica che sembra interrompere l’azione e invece vi inserisce quasi il palpito di una farfalla o lo spezzarsi improvviso, cecoviano, di una corda di violino. Sono tutti gli elementi di uno spettacolo che, profondamente maturato attraverso gli anni, sta entusiasmando, già da queste prime sere, il pubblico parigino.
L’ho vista due volte, questa Trilogia della Comédie, che dura quasi cinque ore […]. E tutt’e due le volte, dopo la battuta di congedo pronunciata da Pierre Dux davanti agli spezzati delle scene ammonticchiati sul fondo, già smontati, a indicare l’effimero del teatro, il pubblico si è scatenato, in piedi negli applausi e, all’apparire di Strehler fra gli interpreti, ha letteralmente raddoppiato le acclamazioni.

Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 21 dicembre 1978

Sarcasmo e tenerezza fusi in un impasto screziato

Un’autentica ovazione ha salutato Giorgio Strehler e gli attori della Comédie-Française al termine della prima della Trilogie de la villégiature di Goldoni, nella fastosa cavea dell’Odéon.
[…] Strehler ha messo subito le carte in tavola, non ha esitato nel grottesco: ha imposto agli attori un preciso registro fonico e gestuale, e il risultato è di un’aggressività rapinosa: un gran vorticare di corpi, un crepitio di voci aspre o acidule scandisce questo concertato dell’ambizione frustrata, dello sterile orgoglio.
Il pubblico è sconcertato e rapito: ma subito, a controcanto, nel secondo atto, che corrisponde alle Avventure, Strehler sembra voler mutare bruscamente registro. Sullo sfondo di una Toscana dolcissima quanto irreale, la grande smania lascia il posto a una spossatezza inguaribile. Ora che le meschine rivalità sociali hanno trovato sfogo, emergono, lancinanti, i conflitti del cuore. […]

Strehler, con misura e finezza, miscela di continuo il sociale e l’individuale, alterna, con mano vigile, sino a fonderli in uno screziato impasto, il sarcasmo e la tenerezza. Ci sono sequenze splendide, in questo secondo atto, per felicità inventiva: i villeggianti seduti a cerchio, mentre scende il tramonto, dinanzi a un’orchestrina che accenna a una furlana (le musiche sono di Fiorenzo Carpi); o mestamente aggruppati intorno a una locanda di campagna, quando già si addensano le prime nebbie; o, nel buio notturno, attoniti dinanzi a un teatrino di ombre cinesi, mentre i giovani sfogano a mezza voce la loro inquietudine.
Nonostante l’eleganza che informa ogni scelta di Strehler, non c’è ombra di estetismo in queste immagini: la suggestione scenica è, di per se stessa, discorso critico: incide a fondo nel tessuto sociale quanto più sembra restituircelo sotto vetro.
Lo si vede, a chiare lettere, nel terzo atto, quello del Ritorno. Svanita l’illusoria felicità di quel labile Eden, tutto è cupo, freddo, nella città in cui i villeggianti sono rientrati, sotto la morsa di un precoce autunno. Chiusi nelle loro nere mantelle incerate (i costumi li hanno ideati Frigerio e la Squarciapino), i personaggi si rincorrono, in un assedio di debiti, citazioni, sequestri. Non c’è più posto per i sentimenti, in questa aggrottata, piovorna Babele. Sola, nel suo aristocratico isolamento intellettuale, Giacinta (certo la più moderna creatura goldoniana) si macera e consuma. Alla fine dovrà cedere, anche lei, alle leggi della convenienza. Dinanzi alle mura ingrommate di casa della più povera villeggiante, la signora Costanza, il cerchio si chiude: in un’atmosfera rarefatta, nelle cui lame di silenzio ti sembra di percepire i battiti tumultuosi del cuore di quelle sagome immobili, i giovani acconsentono a nozze cui non credono, si sacrificano in nome della sopravvivenza.
Grande finale di un grande spettacolo.

Guido Davico Bonino, “La Stampa”, 21 dicembre 1978

Il duro lavoro della creazione

Uno che non fosse Strehler avrebbe forse diluito La villeggiatura nella dolciastra e polverosa messa in scena di un XVIII secolo all’acqua di rosa. Invece egli ha fatto scaturire dalla sua bacchetta magica uno spettacolo sfavillante. Queste “scene di vita coniugale” si incastrano le une nelle altre alla velocità di una meteora; i quadri mutevoli che sfilano davanti ai nostri occhi ci avvolgono nei loro sortilegi. Lo spettacolo è messo in rilievo dai bellissimi scenari di Ezio Frigerio, la cui collaborazione con Strehler raggiunge la vera comunione artistica. I costumi, tavolozza delicata di toni sfumati, sono frutto della raffinatezza di Franca Squarciapino, la moglie di Frigerio. Il tutto è sapientemente bagnato da illuminazioni in controluce, che tuffano lo scenario nell’atmosfera chiaroscura propria a Strehler.

Degno erede di Luchino Visconti, Giorgio Strehler è un perfezionista. Solo chi ha assistito alle prove del maestro può capire fino a che punto egli porta la cura del rifinito. Fa ricominciare agli attori fino a quindici volte un movimento, un’intonazione; è il primo regista che abbia fatto “sgobbare” in tale misura gli artisti-soci della Comédie-Française. Sotto la sua direzione hanno conosciuto i lavori forzati della creazione. Ma la perfezione vale questo prezzo.

Didier Bréchet-Anaheim, “La Provincia”, 1 marzo 1979

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