Arlecchino servitore di due padroni

1977. Sesta edizione

1977. Sesta edizione, detta “dell’Odéon”

Nello spettacolo di Parigi, al Teatro dell’Odéon, i comici, cacciati dalla capitale, giungono stanchi e affamati in un palazzo nobiliare in rovina. I muri sono decrepiti, scrostati, in un angolo, un cavallo di pietra sta abbandonato, come il reperto di un’antica statua equestre. Sopraggiungono dei contadini e subito, con i candelabri in mano, gli attori improvvisano ancora una volta una ribalta e danno inizio alla loro recita: la scena si illumina di una luce fioca che mette sapientemente in rilievo la plasticità delle maschere. Si va a cominciare…

Personaggi e interpreti

Pantalone Nico Pepe
Clarice Pamela Villoresi
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Roberto Chevalier
Beatrice Anna Saia
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Elio Veller
Un facchino Carlo Boso
Secondo cameriere Piergiorgio Fasolo
Il suggeritore Armando Benetti
Suonatori Raoul Emarten, Antonio Cavazzuti, Leonardo Cipriani

 

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi
Maschere di Amleto Sartori
Registi assistenti Carlo Battistoni, Enrico D’Amato
Movimenti mimici di Marise Flach

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Parigi, Théâtre de l’Odéon, 4 ottobre 1977

Dopo le recite di Parigi, lo spettacolo è rappresentato a Pavia, Modena, Milano, Lecce, Cremona, Brescia, Bergamo e Ravenna.

 

Riprese

1978

Dopo una ripresa, in gennaio, al Piccolo Teatro di Milano, in estate, lo spettacolo torna in scena con la seguente distribuzione:

Pantalone Gianfranco Mauri
Clarice Susanna Marcomeni
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Roberto Chevalier
Beatrice Anna Saia
Florindo Aretusi Umberto Ceriani
Brighella Renzo Fabris
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Elio Veller
Un facchino Carlo Boso
Secondo cameriere Francesco Cosenza
Il suggeritore Armando Benetti

Leningrado, Teatro del Palazzo della Cultura, 4 luglio 1978

 

1979-80

Pantalone Ettore Conti
Clarice Susanna Marcomeni
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Roberto Chevalier
Beatrice Anna Saia
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Elio Veller
Un facchino Carlo Boso
Secondo cameriere Riccardo Magherini
Il suggeritore Armando Benetti

Pisa, Teatro Verdi, 10 gennaio 1979

Lo spettacolo è ripreso a Lugano, Milano, Roma, Tokyo, Yokohama, Parma, per poi tornare in scena a Milano, in ottobre, e da lì a Firenze, Perugia e Roma. L’anno successivo è, invece, a Napoli, Salerno, Bari, Venezia e Verona.

In alcune recite il ruolo di Florindo Aretusi è interpretato da Umberto Ceriani; quello di Brighella da Renzo Fabris; quello del Facchino da Augusto Di Bono.

1982

Pantalone Tino Carraro
Clarice Susanna Marcomeni
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Stefano Onofri
Beatrice Valentina Fortunato
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Enrico Maggi
Un facchino Ettore Gaipa
Camerieri Mauro Cerana, Rocco Mortelliti
Il suggeritore Alighiero Scala

Berlino, Theater am Schiffbauerdamm, 8 ottobre 1982

Lo spettacolo è ripreso a Nizza, Parigi e Villeurbanne.

 

1983

Pantalone Ettore Conti
Clarice Susanna Marcomeni
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Stefano Onofri
Beatrice Valentina Fortunato
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Enrico Maggi
Un facchino Ettore Gaipa
Camerieri Mauro Cerana, Rocco Mortelliti
Il suggeritore Alighiero Scala

Milano, Teatro Nazionale, 13 aprile 1983

Lo spettacolo è ripreso a Caracas.

1984

Pantalone Ettore Conti
Clarice Susanna Marcomeni
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Stefano Onofri
Beatrice Valentina Fortunato
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Mario Porfito
Un facchino Ettore Gaipa
Camerieri Roberto Petrolini, Domenico Valente
Il suggeritore Alighiero Scala

Milano, Teatro Lirico, 11 aprile 1984

Lo spettacolo è ripreso a Bologna, Madrid, Francoforte e Los Angeles.

Strehler ne parla

Ancora e sempre Arlecchino

Ancora l’Arlecchino servitore di due padroni. Ancora e sempre. Sempre uguale e sempre diverso. È questo il carattere straordinario di un lavoro di teatro che dura nel tempo offrendosi a pubblici e a generazioni che passano e che mantiene intatta la sua carica di vitalità, di comunicazione, di emozione, attraverso gli anni. Ormai più di trenta. Ma è poi esatto definire “straordinario” il sorpassare gli anni, anche i secoli, per un’opera di teatro, per un qualsiasi gesto della poesia degli uomini? Non è questa invece – o non dovrebbe essere questa – la caratteristica dell’opera d’arte in quanto opera d’arte? La vera opera d’arte parla con accenti diversi, con prospettive diverse ma sempre contemporanee alla gente a cui si rivolge. Mutano i suoi interpreti, si cambiano certi moduli espressivi, cambiano certi ritmi, “le texte” resta.

Così quest’Arlecchino intramontabile ha il segno della vita che passa e si rinnova. È sangue che pulsa e scorre nelle vene di un teatro reale e immaginario, come in un corpo umano.

Del resto, lo spettacolo del Piccolo Teatro dell’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, con la mia direzione (la mia regia), ha avuto edizioni diverse, talvolta simili, talvolta totalmente diverse, non nello spirito ma nella forma, cosicché almeno ogni cinque o sei anni il pubblico ha visto un altro spettacolo, non la copia del precedente, non il suo contrario, ma la sua continuità dialettica, uguale e differente al tempo stesso. Come la vita.

Così siamo giunti alla quinta edizione. Questa edizione ha una particolare caratteristica. Essa è nata nel 1977 a Parigi, al Théâtre Odéon. È stata pensata, provata e recitata in quel teatro, per quel teatro, per quelle dimensioni, quell’atmosfera e persino per quel sipario dipinto, quel drappo di velluto rosso finto che Arlecchino, ad un certo punto, solleva a fatica con le sue mani e le sue spalle perché lo spettacolo continui.

Noi, infatti, la chiamiamo “Édition Odéon” e tale resterà nella nostra storia per sempre.

È un’edizione che amiamo particolarmente, perché essa è stata approfondita soprattutto sul versante del controcanto dei comici che fanno ed assistono allo spettacolo dell’Arlecchino servitore di due padroni. Gli inizi di ogni atto, i finali e tante idee, invenzioni, sospensioni malinconiche, certo gioco del teatro nel teatro, certo diario di vita di comici di un secolo meraviglioso e lontano appartengono solo a questa edizione francese. Come se l’averla fatta nascere e il viverla su un palcoscenico francese, in un teatro tanto amato e tanto ricco di storia, come l’Odéon, così pieno di fantasmi teatrali antichissimi, avesse in qualche modo riportato alla nostra fantasia la necessità di riallacciarsi ad alcune nostre radici europee, alla storia dei viaggi dei comici italiani nel cuore del Seicento, Settecento, per tutta l’Europa, per portare teatro sì, ma anche per legare uomini a uomini, per creare alcune storie misteriosamente profonde, e che sono durate nel tempo, come semi di umanità e di vitalità e immaginazione, della grande cultura Europea.

Proprio in Francia, anima lucente dell’Europa, questa avventura di comici che inventano il teatro, palazzo, stanza, granaio, strada, che sia, insomma, mondo e che parlano una lingua diversa e pur universale, che imparano i linguaggi altrui e li assimilano, che si lasciano prendere ed assimilare a loro volta dalla Francia, che diventano attori francesi (ah! Carlo Antonio Bertinazzi, Thomassin, Silvia, italiani e poi francesi, ah! gli attori adorabili e adorati di Marivaux) proprio qui ha acquistato una sua necessità di essere rappresentata. Altrove no. I motivi della creazione sono segreti e intoccabili ma hanno la loro ineluttabilità. Noi abbiamo sentito col cuore tutto ciò e il nostro Arlecchino “dell’Odéon” è un segno di fraternità, di amicizia irripetibile. E anche il segno, uno tra i tanti, di una volontà di essere europei proprio essendo ciascuno di noi, noi stessi, con le nostre storie, le nostre lingue, i nostri dialetti, le nostre particolarità.

 

(Giorgio Strehler, dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1983-84)

 

Video

L’apoteosi di Arlecchino sulla nuvola, tratto distintivo dell’edizione dell’Odéon, in un video realizzato a Tokyo, dove lo spettacolo andò in tournée nel marzo 1979.

Documenti

Ferruccio Soleri. Gli attori del Piccolo come i comici dell’arte

La novità più importante è stata quella di sviluppare un’idea di Strehler, già accennata fin dell’edizione del ‘52, cioè di farne un momento di vita di una compagnia settecentesca di comici dell’Arte. Lo spettacolo è ambientato in un misterioso palazzo abbandonato, che dà una dimensione dell’isolamento e della solitudine dei teatranti nella società in cui vivono e operano. Che è poi la storia di noi del Piccolo: ammirati, portatori all’estero di spettacoli-bandiera del teatro italiano ma costretti in patria a lavorare in una sede angusta, insufficiente (la sala di via Rovello ha solo 500 posti). Da anni aspettiamo una sede più grande e più funzionale, ma finora abbiamo ricevuto solo promesse e rinvii.

 

(Ferruccio Soleri, intervista di Luciana Fusi, Annabella”, 23 novembre 1977)

Ferruccio Soleri. La pedana scompare dalla scena

Strehler lavorò partendo dalla condizione di rifiuto e di allontanamento subìto dai comici italiani in Francia; prima adorati, gli attori italiani furono cacciati e la Comédie Italienne fu sciolta. Questa era l’idea, il pensiero di Strehler: far vedere una compagnia di comici vaganti che probabilmente rientrando in patria si accampano in un castello semi abbandonato per pernottare. E lì, spontaneamente, ripassano la loro parte e scoprono che ad un certo punto qualcuno sta entrando, richiamato forse dai lumi, dalle voci… È il pubblico; e allora si avvia il meraviglioso meccanismo del teatro e gli attori cominciano a recitare, dimentichi di tutto il resto. Questo era l’inizio dello spettacolo, fatto a sole candele perché naturalmente questi comici vivevano al buio… e quindi fu una cosa straordinaria dal punto di vista dell’atmosfera… e questa tristezza che svapora… Prima l’Arlecchino era uno spettacolo solare, completamente fatto a cielo scoperto, con il sole in pieno giorno. Invece trovandoci a farlo di sera, ci mise, involontariamente, in una tensione diversa, ma molto interessante. La cosa che invece, da un punto di vista tecnico, ci sconvolse all’inizio delle prove fu l’eliminazione della pedana. I comici recitavano nelle piazze, su una pedana che dava loro – dal punto di vista tecnico – la possibilità di valorizzare al massimo ogni salto e ogni capriola. Senza la pedana, l’impatto con il suolo ha aumentato le difficoltà di costruire con leggerezza quello che è un gioco di agilità e di acrobazia.

(Ferruccio Soleri, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997)

Pamela Villoresi. Le involontarie acrobazie di Clarice

Dall’esperienza dell’Arlecchino ho imparato tantissimo; intanto è divertente – a parte la bellezza – è proprio divertente da fare perché, con questo doppio gioco teatrale che in realtà noi rappresentiamo come una Compagnia di allora, dobbiamo ricreare anche tutti i difetti teatrali di un certo modo di fare teatro, con le liti interne di una compagnia, il primo attore che brontola ai giovani e può succedere di tutto… che so, nel duetto di Clarice si può prendere una stecca micidiale e non sei tu che la prendi, ma l’attrice dell’epoca di Goldoni…

Ricordo una volta a Parigi – di episodi se ne possono citare un’infinità perché oramai l’Arlecchino è fatto di oltre quarant’anni di cose successe dal vero e immesse da Strehler nel gioco teatrale – al Teatro Odéon, una sera, è mancata l’elettricità alla fine del terzo atto e si sono accese le lucine nei palchetti e in palcoscenico è entrata una luce di servizio, ma eravamo praticamente al buio. Allora a un’attrice della compagnia venne in mente di prendere delle candele che erano dietro, in fondo, come a illuminare il palazzo signorile e metterle davanti, in proscenio, e qualcuna in mano da mettere sotto il viso dell’attore che in quel momento aveva il monologo o la tirata. E tutto si è svolto ai lumi di candela fino alla fine dell’atto. Tornata la luce, grande effetto e applauso alla regia. Andiamo avanti se non che il palcoscenico era costellato di gocce di cera ovunque e si scivolava. Dovevo fare il monologo di Clarice. Esco facendo l’inizio del monologo, «Oh, oh oh», becco col tacco una goccia di cera enorme e, come gatto Silvestro, finisco con le gambe per aria e un tonfo in orizzontale sul palcoscenico, ricadendo con un botto. E tutti a dire: «Insomma questi attori dell’Arlecchino che acrobati!». Per fortuna andando giù di piatto non mi sono fatta niente. Poi Strehler l’ha rifatto nell’edizione dell’Addio, ma perché era già successo, e spesso lui stesso lo cita come un caso straordinario.

Recitando nell’Arlecchino ho imparato che a un attore, in scena, può succedere quasi tutto; basta che lo risolva da personaggio e fa parte del nostro mestiere artigianale.

(Pamela Villoresi, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997)

Anna Saia. Come dentro a un quadro

Tornai per la ripresa della stagione 1977/78 nell’Edizione dell’Odéon che fu, a mio ricordo, la più straordinaria fra quelle cui ho partecipato. Venne Strehler a provare, ci fu questa nuova scenografia… e lo stare in scena diventava una magia costante, vivevamo come dentro a dei quadri. In una delle ultime prove io stavo seduta, dietro un siparietto, su un baule con sulle spalle uno scialletto; i candelabri creavano una luce dalle atmosfere suggestive… “Sembri un quadro”, mi disse Strehler. Era così, ci si guardava, si guardava attorno a noi e tutto sembrava far riemergere, rievocare fantasmi d’altre epoche, di altri mondi. Non eravamo più noi.

(Anna Saia, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997)

Stefano Onofri. Un cappello troppo grande

L’impatto con la macchina Arlecchino non è stato dei migliori. Telefonavo a Roma agli amici e dicevo continuamente: «Non ce la faccio, non ce la faccio, mollerò». Mi procurava un’ansia terribile perché mi si richiedevano delle prestazioni molto simili a quelle dei miei predecessori. (…) Arriva il giorno fatidico: viene il Maestro. Tutti pronti, grande atmosfera di panico a iniziare dalle sarte perché lui prova solamente con gli attori da vestiti e truccati. Mi mettono la parrucca ma non avevano fatto in tempo a mettermi il cappello. Quello che c’era a me non andava bene. Se non che si incomincia la prova come se fosse stato lo spettacolo. Entro in scena e Strehler blocca tutto: «Alt, alt, perché questo ragazzo non ha il cappello?» Io terrorizzato gli dico: «Se non ce l’ho è perché non me l’hanno dato» e lui «Ma come, quindici giorni che provate e ancora questo Cristo non ha il cappello! Deve avere un cappello assolutamente». Tra le quinte mi lanciano un cappello di prova: mi stava molto grande e immediatamente mi cade sugli occhi. E lì lui incominciò a divertirsi. Il cappello che mi cadeva sugli occhi e che io tentavo ad ogni colpo di tirarlo su per vederci, lo divertiva da morire; venne in palcoscenico e mi montò una serie di gag sul fatto che io lavorassi alla cieca per cui andavo a sbattere di qua e di là con il cappello che mi cadeva sul naso nei momenti più incredibili…

Stefano Onofri, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Ezio Frigerio. L’autunno di Arlecchino

È stato un Arlecchino di tono un po’ malinconico, anche se sempre profondamente allegro e gioioso. Arlecchino (Soleri) era verso i cinquanta e io l’ho vissuta così, l’ho vissuta un po’ come un tramonto, il tramonto di questo spettacolo. Era come se fossimo tutti un po’ vecchi, gli attori sotto il cerone portavano le rughe degli anni, Arlecchino aveva già i capelli grigi… Io poi non è che seguo gli attori giorno per giorno; ritrovandomi a contatto con loro a distanza credo di vent’anni o più, mi sono trovato di fronte agli anni passati di colpo. Ho cercato di dare a questo spettacolo l’aria di questo passar del tempo, di questo autunno in senso crepuscolare se vogliamo. Ecco quello stanzone vuoto, di una villa tipicamente italiana; una stanza probabilmente riservata ai servitori o decaduta ad altri usi come spesso avvenne nelle ville italiane specie nel Veneto, i muri consunti dal tempo, una grande porta seicentesca che cade a pezzi… L’unico segno del teatro là dentro era una specie di vecchio cavallo marino di cartone che stava in angolo, appoggiato a una cesta per i costumi: abbastanza severo e abbastanza drammatico, devo dire. La scelta del cavallo marino? Mah, queste cose non si sanno mai! Magari avevo visto un’immagine che era rimasta poi legata alla mia memoria, chissà, non so. Comunque mi sembrava, in quel momento, la cosa più teatrale che mi si potesse presentare e poi era di cartapesta… E in questo vuoto gli attori continuavano i loro lazzi, la gente continuava a ridere, ma io sentivo che il tempo era passato, così come anche Strehler sentiva che non c’era più quella freschezza che apparteneva a un altro momento della nostra vita. Per il finale c’era l’idea della fuga di Arlecchino sulla nuvola che provvidenzialmente scendeva dall’alto a rapirlo alla Compagnia che lo inseguiva.

(Ezio Frigerio in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997)

Rassegna stampa

Le mani applaudono da sole

Poi c’è Ferruccio Soleri, Arlecchino, questo strano animale della Commedia dell’Arte. È fenomenale, mezza bestia, mezzo uomo, mimo, attore, acrobata, meccanico e vivo allo stesso tempo, minaccioso e minacciato, di un’inumanità bizzarra, come creata artificialmente dal dio del teatro, marionetta in cui circola il sangue, buffone, certo, e che sconvolge continuamente l’ordine delle cose, ma allo stesso tempo affascina come qualcuno venuto da un altro pianeta. A vederlo, le mani applaudono da sole.

(Pierre Marcabru, “Le Figaro”, 7 ottobre 1977)

Un pubblico per il teatro, un teatro per il pubblico

Gli applausi interminabili, le acclamazioni estasiate che l’altra sera sono andate alla compagnia italiana e che l’accoglieranno ogni sera, quelle acclamazioni erano ringraziamenti per un piacere così raro, una rivincita su innumerevoli serate perdute, del tutto o in parte, su tanti sprechi, pretese, goffaggini, falso avanguardismo o autentica amatorialità. Quegli applausi ci dicono che esiste, che sempre esisterà, numeroso, fervente ed entusiasta, un pubblico per il teatro quando gli si presenta un teatro per il pubblico.

(Dominique Jamet, “L’Aurore”, 7 ottobre 1977)

Argento vivo sempre e ovunque

E Giorgio Strehler, attento alla voce del suo autore, non cambia una virgola. Fa semplicemente esplodere il tutto, facendo scorrere nelle scene l’andante (un poco) e il furioso (moltissimo), aiutato da attori a molla, fantastici per grazia, pittoresco, vivacità. Ferruccio Soleri più di tutti gli altri (e lo sa Dio!), il cui Arlecchino sciocco e scaltro, qui meccanico (la marionetta: straordinario!), là elastico, argento vivo sempre e ovunque, guizza nella perfezione assoluta.

(Henri Rasine, “La croix”, 13 ottobre 1977)

 

Un sogno un po’ folle

In questa nuova messa in scena, ricreata senza sosta da trent’anni, Strehler non si è più accontentato solamente di qualche saggio di bravura – come la famosa scena in cui Ferruccio Soleri fa volare i piatti e le stoviglie come nessun giocoliere ha mai fatto. Non sono più soltanto i personaggi mascherati, tipici della Commedia dell’Arte, Arlecchino, Pantalone, il Dottore, Brighella, ad essere trattati come attori del teatro di piazza, ma anche tutti gli altri. In una sorta di sogno un po’ folle, Strehler ha voluto far rivivere i modi di recitare del Settecento italiano.

 

(Guy Dumur, “Le Nouvel Observateur”, 17 ottobre 1977)

 

Uno spettacolo gustoso e brillante

Questo nuovo allestimento strehleriano dell’Arlecchino, il sesto dal 1947, è tutto centrato sull’idea di ambientare la commedia nella vita di una compagnia di comici dell’Arte. All’inizio il sipario è aperto e gli ultimi preparativi per la recita avvengono davanti agli occhi del pubblico. Dietro un siparietto che reca dipinti i fondali delle singole scene si vede agevolmente un ambiente più vasto, un retroteatro dove riposano gli attori dopo i loro interventi, sonnecchia il suggeritore, i musicisti fanno orchestra, gli inservienti preparano le scene.

Questo straniamento del testo nell’atmosfera un po’ cialtrona dei comici settecenteschi è continuamente sottolineata durante lo spettacolo: arie d’opera opportunamente arzigogolate e trucchi da baraccone, tutto serve ad aggiungere alla comicità del testo e delle maschere un altro livello di ironia un po’ complice. Il risultato è uno spettacolo gustoso e brillante, ma insieme ricco di uno spessore che gli deriva certamente dalla sua lunga storia e permette di cogliere in ogni scena citazioni, allusioni, alternative sperimentate e scartate.

(Ugo Volli, “la Repubblica”, 17 ottobre 1977)

Arlecchino tra le pieghe della memoria

Tutto appare come più stilizzato, come passato attraverso il filtro d’una memoria che isoli solo alcuni elementi dell’idea originaria, caricandoli d’una suggestione poetica più intensa, la suggestione dell’allusività. Ora la recita si svolge sullo sfondo d’una parete da salone patrizio, un po’ logora, un po’ velata dal tempo, con un’altra porta sul fianco e, dall’altra parte, la scultura d’un cavallo marino (le scene e i costumi sono sempre di Ezio Frigerio).

Solo piccoli paraventi mobili alludono agli ambienti. Tutto è manovrato a vista durante lo spettacolo, in un continuo gioco di finzione esplicita; anche i patetici riflessi dell’acqua sulla parete di fondo, quando Pantalone ricorda momenti di vita della sua Venezia.

Questa continua, sorridente e malinconica sinfonietta del disincanto culmina alla fine nella fuga di Arlecchino che, inseguito da tutti gli altri personaggi, scende, come sempre, in platea, ma poi risale sul palcoscenico, suo luogo naturale e viene rapito da una nuvola-conchiglia calata dall’alto con le funi, vera macchina da teatro che risale, col suo carico istrionico ancora palpitante, nella soffitta della tradizione.

 

(Roberto De Monticelli, Corriere della Sera”, 09 novembre 1977)

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