Arlecchino servitore di due padroni

1973. Quinta edizione

1973. Quinta edizione, detta “di Villa Comunale”

Alla ricerca di un rigore sempre maggiore, cambiano i costumi e si muta la distribuzione. Pantalone è Gianrico Tedeschi, Beatrice è Anna Saia, Smeraldina è Marisa Minelli, Silvio è Giancarlo Dettori. I nuovi costumi di Ezio Frigerio danno la preferenza a tinte meno brillanti, più cupe. Soleri è un acclamato Arlecchino, giocato sull’immagine di un uomo in bilico fra fisicità pura e puro calcolo, fra le strette di una condizione servile e il savoir faire di un nobiluomo, fra il destino della vittima e i giochi di un maestro di imbrogli.

Personaggi e interpreti

Pantalone Gianrico Tedeschi
Clarice Ginella Bertacchi
Il Dottor Lombardi Andrea Matteuzzi
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Anna Saia
Florindo Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Cip Barcellini
Un facchino Angelo Corti
Secondo cameriere Giorgio Naddi
Suonatori Vincenzo Brandi, Tolmino Marianini, Giorgio Oltremari

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi
Maschere di Amleto Sartori
Assistente alla regia Gianfranco Mauri

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Villa Comunale, 24 giugno 1973

Lo spettacolo è ripreso a Verona, La Spezia, Venezia, Dubrovnik e Salisburgo.

 

Riprese

1974

Pantalone Gianrico Tedeschi
Clarice Ginella Bertacchi
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Anna Saia
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Cip Barcellini
Un facchino Angelo Corti
Camerieri Angelo Corti, Guido Gagliardi

Milano, Villa Litta, 2 luglio 1974

Dopo le repliche a Legnano, Monza, Fano, Modena e Prato, lo spettacolo in agosto torna a Villa Litta per essere immortalato dalle telecamere della Radiotelevisione Italiana.

 

Strehler ne parla

Dall’improvvisazione al copione

Tutte le volte in cui l’Arlecchino è stato ripreso si è trattato molto spesso, se non sempre, di una parziale reinvenzione di molti fatti dello spettacolo, il quale pur restando sempre se stesso, volta per volta subisce modifiche e aggiunte e variazioni da prima improvvisate, che poi diventano studiate da parte di tutti coloro che partecipano allo spettacolo, registi e attori.

Testimonianza riportata da Bruno De Cesco, “L’Arena”, 16 giugno 1977

 

 

Arlecchino a Villa Litta: il teatro nel teatro

Nel 1973, in occasione della nuova messinscena alla Villa Comunale di Milano, Strehler sviluppa l’idea di “teatro nel teatro”, ossia che una compagnia di Comici dell’Arte, giunta sulla piazza di una città, si accinga a mettere in scena l’Arlecchino. Entrano così a far parte dell’originale copione di Carlo Goldoni anche una serie di spassosissimi “a parte”, lazzi e scenette esilaranti di vita vissuta dagli attori, intorno alla pedanina dove si svolge la “vera” commedia. Sono tutte note a margine che gli attori si trasmetteranno di generazione in generazione e che si ritrovano ancora nell’edizione attualmente rappresentata.

Ecco come Strehler stesso, nella prima, lunga nota di regia del copione, illustra la nuova versione del suo spettacolo:

 

ATTO PRIMO

Due grandi carri hanno bloccato le loro ruote sul prato. I cavalli sono stati staccati, portati via. Due scalette di legno ne fanno quasi due piccole case, affrontate a poche decine di metri l’una dall’altra. In mezzo, gli attori che ne sono scesi hanno rizzato il palcoscenico: una pedana pressoché quadrata, delimitata da un lato dalle file degli schermi per le candele – le luci della ribalta – e dal lato opposto da due montanti e una traversa in legno: sulla traversa due riloghe, sulle quali scorrono i fondali che fanno da scena: una calle, un “salotto-in-casa-di-Pantalone”, un interno d’osteria, eccetera. Tra palcoscenico e carri – in un ordine che non esclude frange di disordine – le cose dei comici: quelle che serviranno per lo spettacolo, quelle che serviranno per altri spettacoli: tamburi, elmi di re e drappi di regine per la tragedia, maschere per la commedia, un pollo di cartapesta, un trofeo, un idolo Incas per chissà quale dramma su Cortez… E dietro il palco, due tavoli con tutto il trovarobato necessario alla recita della sera. Più lontano, ai due opposti dell’area delimitata dai carri, due “cartelli” – qualcosa a mezzo tra il tabellone del cantastorie e una Sacra Imagine da processione – raffigurano Arlecchino e Brighella, debolmente illuminati dalla fiamma di due fiaccole, mossa dal vento. I comici si aggirano tra carri, palcoscenico e oggetti vari, entrando e uscendo dalla grande casa padronale, o dalla villa, davanti alla quale hanno posto la sede del loro nomade teatro. Il padrone di casa – nobile o ricco mercante che sia – ha gentilmente concesso l’uso di un paio di stanze al pianterreno, dove i comici potranno rifocillarsi con qualche gotto di vino altrettanto gentilmente offerto. Il pubblico s’aduna, il sole è tramontato: calano le prime ombre della sera.

Nell’imminenza della recita la scena si anima: ora sentiamo giungere qualche voce di attore. E il suono di un campanello che un servo di scena agita, passando tra i carri e il palco e la roba, e accanto alla villa, come a chiamare a raccolta i comici e ad avvertirli che tra poco “si va su”.

 

IL DOTTORE Già ora?

IL SERVO DI SCENA Tra diese minuti.

(Il dottore si allontana, scompare dietro un carro, di dove lo si sente provare la voce.)

IL DOTTORE Là là là là laaaaà!

(Un altro servo di scena principierà ad accendere le candele del proscenio e quelle a fianco del palco. Il suggeritore – velada e tricorno, come tutti – sistema il proprio sgabellino davanti al palco, proprio al centro.)

IL DOTTORE Là là là là laaaaà!

(Pantalone si avvicina al suggeritore.)

PANTALONE Gh’aveu ripassà la parte col brilante?

IL SUGGERITORE Sior sì.

PANTALONE Andemo, ch’a sentimo.

(Si avviano a fianco della scena, dove si incontrano con il comico interprete di Silvio. Si fermano e provano:)

SILVIO “Ecco Pantalone. Mi sento tentato di cacciargli la spada nel petto!”…

PANTALONE (rifacendogli il gesto) “…nel petto!”…

SILVIO “…nel petto!”

PANTALONE Più anemo, più anemo! Più cattiveria! Se gh’ha da sentir la spada che la sbusa! Come mi nei “Orassi e Curiassi”!

(La piccola prova continua a soggetto. Escono dalla villa il primo amoroso, la servetta, le maschere; i suonatori indossano le livree splendenti d’ori, provano qualche strumento, una tromba, un tamburo… Smeraldina entra in un carro, ne riesce con una tinozza da cui butta con largo gesto l’acqua nel prato, quasi schizzando i lucidi stivali del primo amoroso.)

FLORINDO (seccato) E vvia!…

(Ma Smeraldina ride e si allontana.)

(Si risente il campanello del servo di scena. Arlecchino attraversa il prato tra i due carri, le spalle coperte da un corto mantello, quasi un asciugamano. Brighella dà un’occhiata al pubblico.)

BRIGHELLA Gh’avemo gente, stasera.

IL DOTTORE (ricomparso a fianco di Brighella) Siamo pronti?

BRIGHELLA Pronti, pronti: appena i se senta…

IL DOTTORE Stasera, al terzetto, voglio andare al do basso.

BRIGHELLA (scettico) Rivarghe!

IL DOTTORE Sta attento: “In ve-ri-tà!”

(Canta: mi re sol do. Il risultato è dubbio, Brighella scuote la testa.)

BRIGHELLA Invece di pensare al do basso, sta attento a non mangiarmi la battuta.

IL DOTTORE Ma quala?

BRIGHELLA (esemplificando) Co-co-co. Co-co-co…

IL DOTTORE Basta non farla troppo lunga, amico mio, e io non mangio battute a nessuno.

BRIGHELLA Non farla troppo lunga?! Ma se la gente non aspetta altro: non la speta altro che mi a fassa…

IL DOTTORE Tutto si può dire di me, ma non che io manchi del senso del pubblico. Io l’ho qui! Qui! Nelle orecchie! In testa!

(Si schiaffeggia nella foga la testa e le orecchie.)

(Di nuovo il campanello del servo di scena. Ora tutti si animano, si aggiustano i vestiti e i costumi, si legano al volto le maschere. Pantalone si affaccia a chiamare Brighella e Il Dottore.)

PANTALONE Movive, movive, che andemo!

IL DOTTORE Là-la-là-laaaaà!

PANTALONE Silenzio, silenzio!…

(Gli attori, divisi in due gruppi, si schierano a fianco del palcoscenico. I tre suonatori sono accanto ad uno dei carri, vestiti di tutto punto delle scintillanti livree, tamburo, tromba e chitarra in posizione. Silenzio assoluto per un attimo, poi la voce di Pantalone capocomico e regista:)

PANTALONE Via!…

(D’un balzo, i comici sono sul palcoscenico, ne invadono strategicamente ogni zona, si fermano in bella disposizione, il braccio destro levato a salutare il pubblico.)

PANTALONE (dà il ritmo) Uno!, due!, tre! quattro!

(Zan, zan, zan: attacca la piccola banda: inchino degli attori al pubblico, inchino di ciascun attore al proprio antagonista: Arlecchino a Smeraldina, Florindo a Beatrice, Silvio a Clarice…, poi un allegro carosello, con gli attori che si alternano al centro e ai margini della scena prendendosi per mano e volteggiando con piccole grida. Il libero carosello si trasforma in un girotondo, mentre la piccola banda compie la sua sfilata dimostrativa trasferendosi da un lato all’altro del palcoscenico; il girotondo si scioglie man mano che i comici – Pantalone per ultimo – spariscono dietro il fondale attraverso un suo taglio centrale: la comune. La piccola banda – dominante tonica dominante tonica – mette il punto alla introduzione cantata e ballata.)

(Ai piedi del palco si è preparato un giovane comico: ha in pugno una mazza, con la quale dovrà dare – come d’uso – il segnale d’inizio dello spettacolo vero e proprio: una piccola parte, ma anche questo si può fare bene o si può fare male. Il dottor Lombardi – forse è suo padre? – gli è vicino e lo incoraggia; come per un esame.)

IL DOTTORE Forza, via: attenzione e calma!

(Il giovane è sul palco: trema un poco ma si assesta sulle gambe: sbarra gli occhi, forse intendendo dare la prova della propria sicurezza di sé, poi batte la mazza al suolo: un colpo, due colpi, poi una serie di piccoli colpi, un ultimo colpo più forte, e via! Gli avevano detto di allontanarsi subito, e lui scende come una furia addirittura. Il Dottore non c’è più – si è recato dietro il palco per prepararsi all’uscita – ma due o tre più anziani colleghi sono lì ad accoglierlo con un “Bravo!” di incoraggiamento.)

(Il pubblico fa silenzio: attraverso la comune, attraverso il taglio del fondale che – nella dotazione dei comici – rappresenta la “Camera in casa di Pantalone” entra anzitutto lo stesso Pantalone che tiene per mano Clarice e Silvio, ed entrano al suo fianco il Dottore e Smeraldina, e un poco più dietro Brighella. Anche in questo caso “l’invasione” del palcoscenico tien conto delle leggi della scalcaria: Pantalone, Silvio e Clarice al centro. Il Dottore e Smeraldina negli opposti angoli avanti, Brighella un poco più indietro.)

PANTALONE Via, via, via, no ve vergogné: deghe la man anca vù, cussì saré promessi, e presto presto saré marìo e muggieeeer!

CLARICE Sì, caro Silvio, eccovi la mia mano. Prometto di essere vostra sposa.

SILVIO E io prometto essere vostro.

IL DOTTORE Bravissimi, anche questa è fatta. Ora non si torna più indietro.

SMERALDINA (a parte) Oh bella cosa! Propriamente anch’io me ne struggo di voglia!

PANTALONE Vualtri saré testimoni ecc. ecc…

 

Copione, 1973, Archivio Piccolo Teatro di Milano

Video

Arlecchino all’aperto. Dopo il debutto a Milano, a Villa Comunale, il 2 luglio 1974 lo spettacolo è riallestito a Villa Litta, dove era andato in scena undici anni prima.

Documenti

Marisa Minelli. All’origine dei lazzi di Smeraldina

Per l’estate milanese del 1973 era prevista la ripresa dell’Arlecchino alla Villa Reale di Milano. (…) Arrivò Strehler a provare “sul serio”. Non so come accadde ma non sentii il “chi è di scena”. Lui cominciava dal terzo atto perché c’ero io, nuova, da inserire nel gioco e la prima a entrare è Smeraldina. Io dovevo dire: «Ma guardate che discretezza della mia padrona…». L’emozione, la confusione, senza fiato per la corsa, butto lo scialletto che mi protegge dal fresco del giardino – ho già la voce roca e dovrò cantare – quasi il panico, comincio e… «Ma guardate che discretona della mia padrezza». Oddio ho sbagliato! Ripeto e… niente da fare, la battuta non mi viene. Ma l’errore diverte, diventa “parte”, sarà il nuovo inizio d’atto.

A Parigi, all’Odéon, entrerò dal fondo della platea mentre la compagnia mi cerca, mi chiama: «Marisa! Smeraldina!» Concitata, balbettando scuse, farfugliando un «Non ho sentito il chi è di scena… Arrivo!», raggiungo il palcoscenico, salto su, tremo ai rimproveri di Pantalone, mi inchino al pubblico e col fiato che mi rimane inizio: «Ma guardate che che discretona della mia padrezza…» e l’errore si ripete col suggeritore “a vista” che insiste a darmi la battuta giusta, mentre Florindo compare da dietro le quinte con l’aria colpevole ma compiaciuta come se il vuoto di scena fosse avvenuto perché la servetta si era concessa in camerino, come spesso avveniva nelle compagnie. Un altro modo di raccontare la nostra storia di teatranti.

Sempre per colpa mia, la servetta non ha la lettera da consegnare ad Arlecchino. Prima di entrare avrei dovuto infilarla nella scollatura e poi mostrarla al pubblico nel monologo che precede l’ingresso di Arlecchino, ma l’avevo dimenticata… disperatamente cercavo di far capire al suggeritore seduto sul panchetto, a vista, pronto a recitare con noi, a litigare con Balanzone, che doveva recuperarla: «Mandare con un biglietto… e poi manda i biglietti ad un altro…», gli ripetevo e facevo segni, ben scandendo la parola finché miracolosamente mi arriva il messaggio prezioso. Anche questo è rimasto da allora nello spettacolo e lei mie “sventure” sono diventate momenti teatrali dell’Arlecchino.

 

Marisa Minelli, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Ezio Frigerio. Una scenografia adulta

La scena era la stessa [dell’edizione del 1956], esistevano sempre il teatrino, i fondalini, però tutto era diventato più dotto, più disegnato, più architettonico: sono apparsi i famosi paraventi che adesso costituiscono un po’ la base di questo spettacolo, tutto è diventato un po’ più stringato, più severo e anche in qualche modo più adulto, cioè le ingenuità della giovinezza che corrispondono ad un tipo di ingenuità dello spettacolo, erano un po’ scomparse ed era rimasto sì lo stesso stile, ma tutto un pochino più fatto, più abile diciamo, più professionista, come se lo scenografo che l’aveva fatto quindici anni prima fosse un po’ invecchiato, si fosse impratichito nella tecnica di fare i teatrini.

 

Ezio Frigerio, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Rassegna stampa

In magico equilibrio, sopra e dentro la storia

La recita produce e riproduce il travaglio dell’invenzione ponendo gli attori dentro e fuori dallo spazio scenico in un ruolo interscambiabile e differenziato. Se Strehler avesse accentuato il lato storico del suo procedimento, lo spettacolo avrebbe perso genuinità e sarebbe diventato tortuoso e soggettivo: d’altro canto se egli avesse invece accelerato o preferito i semplici ritmi della farsa imprevedibile la recita si sarebbe risolta nel gioco codificato della tradizione delle maschere all’italiana. Così invece, in questo magico equilibrio, Arlecchino naviga sopra e dentro la storia, fedele alla sua ispirazione primaria e manifesto insopprimibile di uno slancio autentico e generoso alla ricerca delle matrici della nostra cultura popolare.

Questo Arlecchino, che è quotidiano e atemporale, spezza i limiti della cultura d’accademia, che infrange le gerarchie e che s’introduce nel presente storico, come atto di coscienza verso le origini del teatro, è un’affermazione vitale. Nella prima edizione del ‘47 lo spettacolo apparve stilizzato in una interpretazione allusiva e le maschere erano dipinte sul viso degli attori, ma già nel ‘52 Arlecchino divenne più realistico e vennero introdotte le prime maschere di cartapesta, mentre le scene, pur sempre dipinte, divennero più descrittive. Ma è nel ‘56 che lo spettacolo conobbe la sua forma definitiva. Per la prima volta, il costume di Arlecchino venne confezionato con le pezze giustapposte e la scenografia si definì realisticamente come una piazza all’italiana in cui gli attori, i comici, usano recitare con i modi della Commedia dell’Arte.

Nella nuova edizione Strehler ha trovato, in questa direzione realistica, nuovi vivaci spunti e nuovi agganci, specie per quel che riguarda la funzione dei comici. Inutile dire che tutti lo hanno seguito con una volontà e una adesione totali.

 

Maurizio Porro, “Il Giorno”, 25 giugno 1973

 

Arlecchino, servitore per sopravvivere

Il piccolo universo degli attori dell’Arte, si autodemistifica, o per lo meno ironizza su se stesso e su certe forme di esibizione assai in voga nel Settecento, come, ad esempio, il melodramma. Ecco: questa quinta edizione accentua il filone caricaturale del melodramma, facendo salire di una riga tutta la parte degli innamorati giovani, Silvio e Clarice, e mettendo chiaramente in ridicolo gli atteggiamenti smancerosi e fintamente tragici dei due altri innamorati della vicenda, Beatrice e Florindo. Anche le maschere sono usate qui con maggior libertà non solo d’invenzione scenica, ma proprio come concezione diremmo ideologica: gli attori che le interpretano (Gianrico Tedeschi in Pantalone, Andrea Matteuzzi nel dottor Lombardi, Gianfranco Mauri in Brighella) ne escono e vi entrano agilmente, ammiccando al pubblico, deformando satiricamente le loro battute, in specie Pantalone. Ma al centro di questa orgia di comicità con continui risvolti di consapevolezza critica (in cui quasi si prefigura quella che sarà l’esecuzione dell’Arlecchino fatta da una compagnia di guitti che non ci credono più ma che sono dentro al loro mestiere fino al collo davanti ai pescatori di Chioggia) sta lui, Arlecchino, inconfondibile archetipo di una condizione umana servile ma pronta alla rivalsa ironica e divertita, capace, come fa qui, di dar colpi con la sua spatola sulla schiena di Pantalone per sua dignità; condizione servile non subita né accettata, ma solo usata per sopravvivere.

Arturo Lazzari, “l’Unità”,26 giugno 1973

 

Il trionfo della fantasia

Mai assistito a niente di più pignolescamente calcolato che sembrasse più inattesamente improvvisato; tutto è parso nascere lì per lì, sul momento, per generazione spontanea. Affidata, come a un tapis roulant, all’incalzare di un tempo regolato al cronometro e di un tono che non cede d’un soffio, un’inesauribile cascata di lazzi mimici, fonici, acrobatici tradizionali e inediti, tutti pertinenti, s’è rovesciata sulla platea beatificandola in un lavacro di risate. È stato un trionfo della fantasia allo stato di fanciullesca genuinità, sana, semplice e corroborante. Beninteso, strumento primeggiante a tal rasserenante risultato non poteva non essere Ferruccio Soleri, Arlecchino infaticabile, tutto punte spiritose e geometriche funambolerie.

Carlo Terron, “La Notte”, 26 giugno 1973

Un autentico colpo di sole al pubblico del mondo

Forse Soleri, come Moretti, non tarderà a sentirsi oppresso da un mito, personaggio non più attore. Capitò a Moretti di subire a malincuore il fascino di Arlecchino, di rallegrarsi di una lode quando smetteva la bella maschera scolpita da Sartori; di gioire, a pochi giorni dalla morte, quando fu giudicato rilevante il suo contributo nel Rinoceronte di Ionesco. E non di meno Moretti non mancava mai alle ulteriori, pressanti convocazioni per un ennesimo Arlecchino. Era Arlecchino, era personaggio, con doveri e soddisfazioni, intrappolato per sempre in una casacca rappezzata, umilmente proteso a dare gioia (un autentico colpo di sole, come commentò la Feuillère) al pubblico del mondo.

Luigi Barbara, “Corriere della Sera”, 5 giugno 1973

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