Arlecchino servitore di due padroni

1963. Quarta edizione

1963. Quarta edizione, detta “dei carri”

È la prima edizione all’aperto di Arlecchino, presentata a Villa Litta ad Affori, un quartiere della periferia di Milano. È la prima volta di Ferruccio Soleri titolare del ruolo del Batocio. La nuova regia di Strehler fissa definitivamente il teatro nel teatro come struttura portante di un allestimento che sfrutta un dispositivo scenico particolare: due carri, dai quali escono gli attori per assumere i loro ruoli e all’interno dei quali altri attori aspettano il proprio turno, dando vita a un vero e proprio “dietro le quinte”.

 

Personaggi e interpreti

Pantalone Nico Pepe
Clarice Maria Grazia Antonini
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Valentina Cortese
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Giancarlo Cajo
Tre musici Vito Calabrese, Ferdinando Mazzola, Edmondo Sanchini

 

Scena di Ezio Frigerio
Costumi di Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi
Maschere di Amleto e Donato Sartori
Assistenti alla regia Gianfranco Mauri, Roberto Pallavicini

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Villa Litta, 10 luglio 1963

 

Riprese

1963

Pantalone Nico Pepe
Clarice Maria Grazia Antonini
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Anna Nogara
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Giancarlo Cajo
Secondo cameriere Vittorio Bertolini

Milano, Teatro dell’Arte, 31 ottobre 1963

 

1964

Dopo una tappa in gennaio a Bergamo, in primavera lo spettacolo riprende il suo viaggio con la seguente distribuzione:

Pantalone Nico Pepe
Clarice Maria Grazia Antonini
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Anna Nogara
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Anna Priori
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Giancarlo Cajo
Secondo cameriere Vittorio Bertolini

Novi Ligure, 24 maggio 1964

La tournée, che attraversa Liguria e Toscana, termina in Puglia, con recite a Taranto e Bari.

 

1966

Pantalone Nico Pepe
Clarice Maria Grazia Antonini
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Relda Ridoni
Florindo Aretusi Mario Valdemarin
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Graziella Galvani
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Giuseppe Pambieri
Secondo cameriere Salvatore Aricò

Milano, Teatro dell’Arte, 7 novembre 1966

Da Reggio Emilia, quindi Prato e Rimini, inizia la lunga tournée attraverso Italia ed Europa che proseguirà fino al giugno del 1967.

1967-68

Continua la tournée iniziata nel dicembre 1966. Tra le tappe Modena, Ferrara, Padova, Verona, Cremona, Piacenza, Pavia, Lugano, Asti, Parma, Como, Mantova, L’Aquila, Teramo, Chieti, Campobasso, Brindisi, Foggia, Benevento, Perugia, Brescia, Novara, Savona, Barcellona, Saragozza, Valladolid, San Sebastián, Bilbao, Lisbona, Marsiglia, Londra, Rotterdam, Bruxelles, Basilea, Pordenone e Zurigo.

In autunno Arlecchino torna in scena con la seguente distribuzione:

Pantalone Nico Pepe
Clarice Luciana Luppi
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Anna Saia
Florindo Aretusi Gianfranco Ombuen
Brighella Renzo Fabris
Smeraldina Graziella Galvani
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Carlo Boso
Secondo cameriere Salvatore Aricò

Monza, Teatro Villoresi, 19 ottobre 1967

Lo spettacolo è quindi impegnato in una lunga tournée che proseguirà fino al maggio 1968. Tra le prime tappe Brescia, Macerata, Ancona, Bolzano, Gorizia, Pordenone, Biella, Vercelli, Aosta, Rovigo, Berna, Zurigo, Ginevra, Losanna e Lucerna.

 

1968

Continua la tournée iniziata nell’ottobre 1967. Tra le tappe del 1968, Monte Carlo, Nizza, Tolone, Montpellier, Tolosa, Tours, Reims, Versailles, Parigi, Le Havre, Rouen, Caen, Strasburgo, Grenoble, Marsiglia, Aix-en-Provence, Düsseldorf, Amburgo, Colonia, Hannover, Berlino, Brema, Friburgo e Francoforte.

In alcune recite Gianfranco Mauri sostituisce Nico Pepe come Pantalone e Ginella Bertacchi sostituisce Graziella Galvani come Smeraldina.

 

1969

Pantalone Gianfranco Mauri
Clarice Luciana Luppi
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Relda Ridoni
Florindo Aretusi Ettore Conti
Brighella Renzo Fabris
Smeraldina Graziella Galvani
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Ivan Cecchini
Un facchino Domenico Negri
Secondo cameriere Roberto Colombo

Milano Gratosoglio, Teatro Quartiere, 28 gennaio 1969

Lo spettacolo è replicato in alcune città lombarde e venete, tra cui Monza e Verona.

Strehler ne parla

Il vecchio e il nuovo Arlecchino

L’edizione del 1963, seguìta alla morte di Marcello Moretti, è la prima che vede Ferruccio Soleri titolare nel ruolo del protagonista. Così Strehler ricorda come era avvenuto il passaggio di testimone tra i due attori:

Marcello [Moretti] era naturalmente geloso del suo Arlecchino. Pure fu un maestro coscienzioso, pedante e senza secondi fini, quando si trattò di insegnare la maschera ad un giovane collega, in occasione della nostra tournée americana, ove la garanzia del sostituto era richiesta perentoriamente. Marcello, al di fuori delle ore di prova, mi aiutò a maturare il giovane, nuovo Arlecchino. In questo semplice atto di lavoro quotidiano si racchiudeva tutta una storia. Come non pensare alla “continuità” del teatro, al mutarsi delle generazioni teatrali, al patrimonio di esperienze che si tramandano nel tempo? Miracolosamente, nel pieno della nostra contemporaneità, si rifaceva sul “vivo” un processo che fu tipico della Commedia dell’Arte; della commedia, cioè, del “mestiere” del comico. Mestiere che un comico passa all’altro, arricchito di sé. Durante queste prove lasciavo Marcello solo. Lo preferiva. Tutti e due in tuta, il vecchio ed il futuro Arlecchino, nella penombra del palcoscenico, provavano. Ricordo perfettamente che provavano a bassa voce, misteriosamente. Erano prove strane, condotte senza metodo, sul filo dell’esperienza, parole e gesti esemplificativi e qualche brandello di teoria, del tutto personale. Era come assistere ad un rituale di cui non si conoscano bene lo scopo e le figurazioni. Marcello vedeva nascere giorno per giorno questo nuovo Arlecchino, timido, incerto, che ricalcava esattamente le sue orme, la voce, i movimenti; in cui però qua e là, naturalmente, apparivano i germi di un Arlecchino diverso dal suo. E lo guardava con un sentimento complessissimo, di amore e rifiuto, di indifferenza e di difesa. Una specie, mi parve di intuire, di amore stranamente materno, fatto anche di gelosia e di disperazione. Il giovane Arlecchino (Ferruccio Soleri) a poco a poco aveva finito per assimilare perfino certe abitudini di prova di Moretti: dopo una scena, un grosso asciugamano intorno al collo, e dopo il pranzo, addirittura un altro asciugamano intorno al viso. Così imbacuccati i due Arlecchini si aggiravano per il palcoscenico vuoto durante le pause di lavoro. Non so se queste immagini possono suscitare in coloro che leggono la commozione che suscitano in me, mentre scrivo. Forse si tratta soltanto di un sentimento di “iniziati”, nato da fatti che hanno un valore solo per noi teatranti. È un mondo, il nostro, così chiuso, spesso, troppo spesso, al margine della vita, e la “letteratura” degli attori finisce sempre per diventare aneddotica, cedere al ricordo, al racconto di certi fatti. Forse perché i “fatti” sono l’unica cosa concreta del nostro mestiere, perché altro, del nostro mestiere, “l’altro”, il segreto, non si può raccontarlo a nessuno. Pure la tenerezza di questi due Arlecchini accostati nel tempo, mi appare qualcosa che si esprime per tutti e che a tutti dà un’immagine plastica di ciò che di più umano ha il nostro mestiere: la fraternità, il coro. Il momento più alto di questo incontro fu quando, a Salò, dove ci eravamo ritirati per provare in pace “lontano dalle tentazioni del mondo” (dicevo io, a metà sorridendo, ma solo a metà, in un piccolo teatro che io mi ricordavo pieno di calore e che invece risultò gelido ed estraneo), durante le molte prove generali spesse volte alternai i due Arlecchini, nelle stesse scene. Finiva una scena con Moretti-Arlecchino e subito dopo, senza interruzione, la si riprendeva da capo, con Soleri-Arlecchino. Era un accostamento rapido, senza mezzi termini, con le stesse battute, quasi gli stessi ritmi, solo i protagonisti cambiati. Hanno i miei compagni percepito, in quel momento la straordinaria avventura teatrale che stavano vivendo?

Per conto mio, seduto nella platea, pur nella fatica tesa di tante sere, ho vissuto quell’avvenimento che forse, penso, resterà unico nella mia storia di uomo di teatro. Marcello imbacuccato, stanco, dopo la sua scena spariva. Ma non si rifugiava nel suo camerino, caldo e silenzioso. Entrava in uno dei tanti palchi, bui e vuoti del teatro, e là nella penombra lo scoprivo, teso, a seguire i momenti del suo “allievo”. Ogni tanto scuoteva la testa e ripeteva una battuta tra sé e sé, altre volte approvava, e credo che qualche volta riuscisse persino a divertirsi, con quella freschezza infantile che è la forza e persino la debolezza dell’uomo di teatro. Poi, alla fine, lo si ritrovava in palcoscenico, in qualche angolo, a parlare con l’Arlecchino giovane, a istruirlo, a correggerlo con la sua solita scontrosità ed il suo accanimento.

L’immagine più bella che Marcello Moretti mi ha lasciato è questa. Voglio che di lui mi resti, per ultimo, questo suo ultimo gesto: quello del dare qualche cosa profonda di sé a qualche altro. Perché il teatro continui in questa “epoca buia” ad aiutare l’uomo a stare con l’uomo.

 

Giorgio Strehler, In margine al diario, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

 

 

Maurizio Porro, critico teatrale e cinematografico, ripercorre il “romanzo di Arlecchino”, dal 1947 all’edizione dei giorni nostri

Documenti

Maria Grazia Gregori. Strehler descrive la scena dell’edizione dei carri

La personalità, la fisicità più prorompente di Soleri, il suo gusto e la sua preparazione per l’acrobatica, spingono Strehler non solo alla ricerca di nuovi lazzi da aggiungere o da sostituire a quelli canonici di Moretti, ma anche ad accentuare la struttura del teatro nel teatro, mentre vengono usate per la prima volta le candele della ribaltina accese a vista dal suggeritore, un segno quasi materiale della distanza che separa la platea dall’attore, la realtà dalla finzione. Così Strehler descrive la vera e propria “rivoluzione” che, nella già lunga vita di Arlecchino, contrappuntata da una serie infinita di repliche, porta alla quarta edizione del 1963, detta anche “dei carri”: «Due grandi carri hanno bloccato le loro ruote sul prato. I cavalli sono stati staccati, portati via. Due scalette di legno ne fanno quasi due piccole case, messe una di fronte all’altra, a pochi metri di distanza. In mezzo, gli attori che ne sono scesi hanno rizzato il palcoscenico: una pedana pressoché quadrata, delimitata da un lato dalla fila degli schermi per le candele – le luci della ribalta – e, dal lato opposto, da due montanti e una traversa di legno. Sulla traversa due riloghe, sulle quali scorrono i fondali che fanno da scena: una calle, un salotto, un interno di osteria. Tra palcoscenico e carri, le cose dei comici: quelle che serviranno per altri spettacoli. (…) E dietro il palco due tavoli con tutto il trovarobato necessario alla recita della sera. Più lontano, ai due opposti dell’area delimitata dai carri, due “cartelli” – qualcosa a metà fra il tabellone dei cantastorie e una sacra immagine da processione – raffigurano Arlecchino e Brighella, debolmente illuminati dalla fiamma di due fiaccole mosse dal vento.

 

Maria Grazia Gregori in Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e arte, Milano, Leonardo Arte, 1997

Nico Pepe. Pantalone va in tournée

Riprenderemo le strade del mondo: molti paesi ci attendono, altri ci rivogliono. Ma di strade del mondo già ne abbiamo percorse parecchie, noi dell’Arlecchino. Abbiamo sulle spalle chilometri e chilometri di ferrovia e chilometri di volo, chilometri di mare, chilometri di strade percorse in pullman attraverso i panorami più diversi.

Da una decina d’anni noi attori dell’Arlecchino siamo, grosso modo, sempre gli stessi. Anche Ferruccio Soleri che sostituì Marcello Moretti quando questi ci lasciò per sempre, anche lui era già con noi da molto tempo prima di diventare Arlecchino, impiegato allora in altro ruolo e precisamente in quello del “servo di locanda che non parla”. Personaggio muto, Soleri ci seguì per vari anni, con quella sua ferma volontà di perfezionare, attraverso l’esempio del nostro primo Arlecchino, un suo personale Arlecchino al quale logicamente aspirava avendo già portato la maschera gloriosa, con gustosa e fine abilità, in un saggio dell’Accademia dell’Arte Drammatica di Roma, quando di questa era allievo.

 

Volevo essere Pantalone

Io incontrai per la prima volta Arlecchino all’aeroporto di Parigi, molti anni fa. Allora, come oggi, il Piccolo Teatro di Milano poteva contare su tre gruppi di attori: uno, del quale era esponente Tino Carraro, recitava in sede uno spettacolo di Giraudoux; un secondo, del quale facevo parte con Tino Buazzelli, Lilla Brignone, Romolo Valli, Alberto Lupo (allora alle prime armi come attore), Ottavio Fanfani, Giovanna Galletti, ecc. si recava al parigino Teatro Marigny (che allora era il teatro di Barrault) a recitare Sei personaggi in cerca d’autore; un terzo gruppo, capitanato da Marcello Moretti, lasciava Parigi, dove aveva recitato allo stesso Teatro Marigny per circa un mese, e partiva per i paesi scandinavi, dove si recava a presentare il suo Arlecchino servitore di due padroni. Un ritardo nel decollo dell’aereo diretto in Svezia aveva reso possibile l’incontro tra i due gruppi di attori in tournée. Ricordo che in quella mattina carica di nebbia io invidiai Antonio Battistella, attore che mi precedette nel ruolo di Pantalone. Pantalone è, per gli attori veneti specializzati in ruoli di carattere (ed io sono veneto), un punto di arrivo della loro carriera. Vestire i panni di quella maschera è un commovente rito al quale mal volentieri si rinuncia. Io arrivavo a Parigi con sulle spalle il ruolo di “capocomico-direttore” dei pirandelliani Sei personaggi, ma avrei volentieri rinunciato a quella parte, che pure è importantissima, e che Strehler mi aveva insegnato battuta per battuta, per essere Pantalone e andarmene in Svezia con Arlecchino, con Brighella (che allora era Franco Parenti) e con Balanzone (che era Checco Rissone). Tra quelle maschere mi sarei ritrovato di lì a poco, sia pure con interpreti nuovi ché, essendo Arlecchino sempre sostenuto da Moretti, Gianfranco Mauri era nel frattempo succeduto a Parenti e Bruno Lanzarini a Rissone, mentre io assumevo per la prima volta la maschera pantalonesca.

 

Il mio debutto

Dopo un breve rodaggio compiuto in sede, feci il mio debutto ufficiale ad Arnhem in Olanda, ed ebbi così modo di rendermi conto subito che gli entusiastici successi di Arlecchino servitore di due padroni nell’edizione del Piccolo Teatro, successi dei quali avevo letto ripetutamente sulla stampa italiana e dei quali mi avevano parlato i veterani di compagnia (Narcisa Bonati che sosteneva allora il ruolo di Smeraldina, era considerata un po’ come la storica del gruppo) e che a me sembravano veramente favolosi, non erano affatto favole, ma entusiasmante, tangibile verità. Le venti, le trenta chiamate al proscenio, alla fine dello spettacolo, cifre che possono sembrare frutto di fantasia a chi è abituato a frequentare i teatri italiani nei quali vi è la triste consuetudine che alla fine dello spettacolo già alla terza chiamata al proscenio gli spettatori voltino le spalle agli attori per precipitarsi al guardaroba, le venti, le trenta chiamate agli interpreti di Arlecchino – mi resi conto ad Arnhem – erano non una fantastica storia raccontata dalla nostra Narcisa Bonati, ma una ben concreta realtà. Com’era una realtà l’incredibile fenomeno di comprensione del testo anche da parte di pubblici di idiomi lontanissimi dal nostro e da esso diversissimi. Questo per me è rimasto il più inspiegabile fenomeno delle nostre tournée. Olanda, Inghilterra, Francia, Marocco, Algeria, Tunisia e poi America del Nord e poi Polonia e le due Germanie e l’Unione Sovietica, la Jugoslavia la Romania, l’America del Sud…

 

L’emozione di Villa Litta ad Affori

Dove non è stato il nostro Arlecchino? È stato anche ad Affori, un centro popolare della periferia milanese e fra tutti i viaggi, questo di Affori è stato il più breve ma anche il più affascinante. Recitammo per quindici giorni nel parco della settecentesca Villa Litta e lo spettacolo, per l’occasione rimontato da Strehler per adattarlo al romantico ambiente che vi avrebbe fatto da cornice, risultò di una straordinaria suggestione. Suggestione per il particolare pubblico al quale ci rivolgevamo, un pubblico di periferia che veniva a teatro con i fiaschi di vino sotto il braccio e i cartocci della frittata e il pane e il salame da consumare negli intervalli e che nel corso dello spettacolo era attentissimo, preso dal fascino di questo nostro festoso Arlecchino (i più erano spettatori che andavano a teatro per la prima volta); suggestione per l’ambiente nel quale eravamo chiamati a recitare e per quell’esasperazione del “teatro nel teatro” che Strehler aveva dato allo spettacolo e che per tre ore, tutte le sere, ci faceva veramente sentire raminghi commedianti di una povera compagnia del Settecento, capitata a dare spettacolo sullo spiazzo di una villa milanese. Questa di Affori per i miei compagni e per me è stata veramente la più bella, la più significativa, la più commovente esperienza della nostra vita d’attori.

 

Gli spari in Algeria

A Bona, in Algeria, eravamo capitati in clima di piena rivolta ed abitavamo in alberghi dalle finestre sbarrate e per entrare nei quali, la sera, dopo lo spettacolo, dovevamo superare due o tre sbarramenti di parà o di polizia. Una domenica, mentre eravamo impegnati nella rappresentazione del pomeriggio, proprio nella piazzetta antistante il teatro, vi fu uno scoppio di bombe, e poi un crepitare di mitragliatrici e brusio di folla che fuggiva e urla di perentori comandi. Noi stavamo recitando il secondo atto del nostro Arlecchino e col cuore grosso e non poca paura continuammo a recitare come se nulla stesse accadendo, certi però che in platea vi sarebbe stato un inevitabile fuggi fuggi generale. Invece il pubblico rimase in sala, senza sbandamenti né brusii, divertendosi ai lazzi delle maschere e applaudendoci. Ci disse poi qualcuno che tutti gli spettatori erano rimasti in sala perché, sapendo che quella era l’ultima recita che la compagnia avrebbe dato a Bona, nessuno avrebbe voluto rinunciare a godersi fino in fondo il nostro spettacolo.

 

I complimenti di Giuliana d’Olanda

All’Aja, la regina Giuliana, che con le figlie assisteva ad una nostra rappresentazione, espresse il desiderio di conoscere di persona gli attori che sostenevano le maschere e così fummo invitati, dopo la fine del secondo atto, ad andare nel palchetto reale. Vestiti da Arlecchino, da Pantalone, da Brighella, andammo dalla regina attraversando parte della platea ed il corridoio dei palchi, con il pubblico in piedi che ci faceva ala, ci applaudiva e ci toccava come se volesse convincersi della nostra realtà umana. Il misterioso fascino delle maschere aveva pervaso quegli spettatori. Soprattutto Arlecchino, che allora era ancora Marcello Moretti, con quel suo abito multicolore e la maschera da gatto, non sembrava a quel pubblico un essere di questa terra. La magia del teatro aveva raggiunto limiti estremi e ancora una volta il tema “fantasia-realtà”, “realtà-fantasia”, tema eterno del teatro, era tornato di attualità.

 

L’affetto dei Paesi oltre cortina

In Polonia la compagnia era affettuosamente curata dal pubblico, come un ospite non di riguardo, ma gradito, al quale si vuole molto bene e che si vuole colmare di premurose cure perché l’ospitalità gli torni il più gradita possibile e non la possa dimenticare molto presto. Molti cuori femminili lacrimarono alla partenza di Arlecchino dalla Polonia e ancora oggi gli anziani della compagnia ricordano con nostalgia le amorose avventure del soggiorno polacco.

Vi sono paesi stranieri, come la Jugoslavia, come la stessa Polonia, come l’Unione Sovietica, nei quali a distanza di tanti anni e malgrado, nel frattempo, siano passati in questi paesi altri spettacoli italiani, alcuni dei quali di altissimo livello artistico, si ricorda ancora oggi come la più pura espressione del teatro italiano il nostro Arlecchino, che si vorrebbe rivedere ancora nei teatri di Lubiana, di Zagabria, di Belgrado, di Mosca, di Leningrado, di Riga, di Tallin, di Varsavia, di Vienna, di Cracovia, di Łódź…

In altri paesi Arlequin valet de deux maîtres, o The servant of two masters, o Sluga dveb gospodov, o Der Diener zweier Herren, dopo il passaggio del nostro Arlecchino, è entrato a far parte del repertorio dei locali teatri nazionali, favorendo così una maggiore diffusione del teatro goldoniano all’estero.

 

L’orgoglio di essere “un attore del Piccolo”

Qualche anno fa, a Parigi, il compianto Marcello Moretti, come Arlecchino, recitò brani della commedia alla Comédie-Française, premio ambitissimo e molto raramente concesso ad attori stranieri; qualche mese fa, il nostro Ferruccio Soleri, come Arlecchino, si è esibito in scene animate e recitate della commedia goldoniana, alla televisione francese. In Marocco, a Rabat, dopo il successo ottenuto in due corsi di recite abbastanza vicini tra loro, quel Ministro della pubblica istruzione, visto il nostro spettacolo, volle che ne dessimo alcune rappresentazioni per le scuole locali, perché fra gli studenti della capitale marocchina meglio potesse diffondersi la conoscenza del teatro italiano e della nostra lingua. A Berlino Est, dove risiedetti per alcuni mesi impegnato nella lavorazione di un film, bastava che mi presentassi come attore del Piccolo Teatro di Milano e come Pantalone di Arlecchino servitore di due padroni perché trovassi aperte e ospitali le porte di tutti i teatri. A Oxford gli studenti di quella università diventarono nostri amici e durante il giorno erano sempre con noi e ci volevano ospiti dei loro college, e così pure i loro professori.

Far parte del gruppo che recita Arlecchino è per un attore motivo di orgoglio, quasi un privilegio. Una cosa è certa, e cioè che il gruppo che d’abitudine recita questa commedia è, nel mondo del teatro, considerato una cosa a sé stante. Salvo qualche inevitabile sostituzione che si verifica di tanto in tanto, siamo da anni sempre gli stessi attori impegnati a sostenere gli stessi personaggi. Ci conosciamo reciprocamente sia sul piano umano come su quello artistico, intimamente comprendendoci e reciprocamente giustificandoci, aiutandoci, sia in scena sia nella nostra vita privata.

L’abitudine ai grandi viaggi, lontano dalla patria ci ha affiatati e ci tiene uniti. Ci siamo abituati a considerarci non singolarmente bensì come componenti di un blocco artistico unico, che fa di noi “quelli dell’Arlecchino”. E noi siamo orgogliosi di essere “quelli dell’Arlecchino”.

 

Dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1996/97

 

Ferruccio Soleri. I sentimenti sotto alla maschera

Al Piccolo mi trovai per la prima volta con la maschera di cuoio e l’impatto è stato duro: «I tuoi sentimenti non vengono fuori, non bastano le battute», mi diceva Strehler. Allora ho incominciato a studiare il corpo. Infatti dai cronisti dell’epoca della Commedia dell’Arte di sapeva che gli Arlecchini ne facevano di tutti i colori, mimicamente. Avendo fatto anche delle acrobazie, da giovane, ho sfruttato anche questo e ho portato nel personaggio una agilità di tipo acrobatico. È stato un lavoro lungo, faticoso.
(…) Dopo la morte di Moretti, ho cominciato a costruire il personaggio con l’aiuto di Strehler. In quell’edizione per la prima volta sono entrati i carri dei comici e questo ha portato a sviluppare al massimo il gioco del teatro nel teatro, la vita dei comici, i loro amori, le loro rivalità.

Ferruccio Soleri, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Franco Graziosi. Il teatro è sempre un gioco

Il teatro è sempre gioco ma, nell’Arlecchino in particolare, il gioco è totale, è un impegno disimpegnato, un disimpegno impegnato, un qualche cosa che… Poi è faticosissimo, i sudori più terrificanti li ho versati nell’Arlecchino, quindi non posso dire disimpegnato in questo senso, però all’interno c’è questo gioco che prevale su tutto, anche sulla fatica, e allora è questo che differenzia questo spettacolo da altri. Quando si entra nel gioco di Arlecchino si appartiene ad un mondo che certamente non è molto frequente in teatro, anche nello stesso teatro dove si gioca perché si recita. Che è vero fino ad un certo punto, non si può neanche esagerare molto nel “finto” perché – io poi detesto il finto – anche nell’Arlecchino ho sempre voluto e desiderato che venisse fuori qualche cosa di non solo effimero e superficiale, ma anche “vero”. Nell’Arlecchino non si può parlare di verità, non si deve, e forse anche questo è un altro aspetto che coinvolge un po’ tutti; questa è una complicità di carattere psicologico perché implica, coinvolge. Gli psicologismi non esistono, quindi c’è il giuoco che prevale su tutto e implica quelle complicità che poi fa apparire all’esterno questa sorta di “Compagnia” che fa strani esorcismi teatrali, che si muove in modo strano, dove si vivono dei rapporti fra noi così diversi che in un qualsiasi altro spettacolo.

Franco Graziosi, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Anna Saia. Recitare senza scenografie

L’Arlecchino era una macchina perfetta che marciava con chiunque, dovunque e in ogni modo. In questa macchina io sono entrata all’ultimo respiro, in corsa, con tutto l’entusiasmo, la forza e l’energia dei vent’anni. Ignoravo che prima di me ci fossero state Valentina Cortese e tutti gli altri nomi di illustri attrici e probabilmente la mia fortuna è stata quella di non saperne nulla. Partecipare a questo spettacolo è stato molto divertente e molto faticoso anche! Soprattutto con l’andare degli anni perché man mano che sentivo la responsabilità di quello che facevo ne prendevo coscienza e sentivo di dover migliorare sempre di più; naturalmente la fatica ha avuto il suo peso, ma è sempre stata la gioia la dominante nel fare questo spettacolo. Ogni sera, quando attaccava la musichetta, c’era un momento in cui si aprivano i cieli e scendeva un’atmosfera… Poi tre ore di gioco assoluto, gioco fatto di un’energia straordinaria che ci coinvolgeva tutti e ci lasciava sempre un po’ stremati anche, ma carichi di un qualcosa di incredibile. (…)

Facemmo una tournée in Italia e si girava sempre in pullman con le scene e i bauli; c’erano i siparietti, i costumi e i vestiti. Durante uno spostamento il camion arrivò vuoto, si erano perse le casse per strada. Non ricordo in quale città fossimo, ma la sera andammo in scena senza le scene, senza i siparietti… mi pare avessimo con noi i costumi, solo i costumi. Allora qualcuno, credo Pepe, risolse inventando una cosa che funzionò; si fecero dei cartelli con scritto CASA DI PANTALONE, LOCANDA, eccetera e, tra una scena e l’altra, uno dei camerieri passava con in mano il cartello. Quella sera l’Arlecchino confermò il suo successo strepitoso.

 

Anna Saia, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

 

Rassegna stampa

Una banda suona per le strade di Affori

Questo Servitore lo si fa ora ad Affori per mostrare il Teatro a chi le sale teatrali non le possiede, né può, quelle del centro cittadino, frequentarle per più di una ragione (la distanza, per esempio). Si vuole insomma avvivare un gusto e inaugurare un giro periferico: che è un’idea ottima.

Per invitare la gente di Affori a spendere cinquecento lire e ad assistere dalla gradinata che adesso sorge nel vastissimo giardino, ci si giova di altoparlanti, di cartelloni festosi, d’una banda che suona allegramente per le strade; si grida in dialetto e si fanno ripetere, dai dischi, le musiche di Wolf-Ferrari. È lo stile degli annunzi istrionici dal Cinque all’Ottocento: stile che Eleonora Duse, randagia divina, conobbe al tempo della sua fanciullezza guitta. È imparentato con questo stile anche lo spettacolo aggiunto da Strehler, per queste recite sotto le stelle, alla sua celeberrima edizione della vorticosa commedia. Strehler ha infatti immaginato, col riprendere una sua trovata per Il Corvo di Carlo Gozzi, che il Servitore lo esegua una “compagnia volante” o “truppa comica” del Settecento. Così il breve palco sul quale si recita ha due carrozzoni ai fianchi, che simboleggiano appunto le case a quattro ruote degli antichi attori; e chi esce di scena resta lì, tra il palco stesso e la dimora viaggiante; e alla ribalta fanno luce una ventina di candele; e in costume sono, per giunta, il macchinista e il suggeritore. Vediamo, in una parola, quel che avviene tra le quinte, possiamo ripensare al Roman comique di Scarron, al Capitano Fracassa di Gautier, alla Commediante veneziana di Calzini. È una trovata tenerissima che rievoca il presepio delle Maschere, è il fondo, umanamente e pateticamente documentario, della rappresentazione.

 

Eugenio Ferdinando Palmieri, “La Notte”, 11 luglio 1965

Dalla favola fantastica alla storia di teatranti

Ai piedi della facciata posteriore della Villa Litta di Affori, di pura linea neoclassica, sul verde parterre che si apre verso il viale del grande parco, i tecnici del Piccolo Teatro hanno realizzato un minuscolo palcoscenico; un praticabile che visto dall’alto della scalinata costruita su tubi di ferro, che si spinge a notevole altezza per offrire milleduecento posti agli spettatori, sembra davvero un fazzoletto. Ai due fianchi del palcoscenico, due vecchi carri, dentro i quali le luci dei riflettori lasciano vedere chi ci si muove; due vecchi carri sgangherati in cui entrano ed escono gli attori; in cui stanno i musici, dove, mentre non è di scena, Smeraldina può anche stirarsi l’abito; o Arlecchino prendersi un po’ di riposo. Sono i due carri coi quali lì, in quell’angolo verde della periferia milanese, sono arrivati e si sono fermati per fare il loro spettacolo, gli attori vaganti di una troupe della Commedia dell’Arte.

Quando è l’ora della recita, i servi di scena in costume cominciano a muoversi tra quelle loro “cose di teatro”, accendono le candele di quella rustica ribalta, per poi lasciare finalmente il posto ai commedianti, che entrano, ciarlando, canticchiando, ripassando la parte, e poi, riuniti sul palcoscenico, salutano allegramente il pubblico, agli ordini del più anziano di loro. Pantalone de’ Bisognosi, che ne regola i saluti, i ringraziamenti, e poi dà il via. Fuori tutti; da dietro alla tenda, su cui è dipinto un interno di casa veneziana, si odono gli applausi di gente festante. Si fanno festosi e lieti auguri al fidanzamento di due giovani, Silvio e Clarice (…)

Dalla stilizzazione poetica atemporale, dall’estetismo raffinato della prima edizione del 1947, Strehler è arrivato a questa messinscena che, senza fargli perdere nulla della sua inesauribile freschezza, ha calato lo spettacolo in un rigoroso storicismo. Così l’Arlecchino non è più una fantastica favola, con quelle creature misteriose e affascinanti come possono apparire le maschere, ma una positiva, concreta storia di teatranti, di attori del Settecento italiano, che ci raccontano per il nostro divertimento, per il loro mestiere, la singolare impresa di questo servo che riesce, affamato com’è, astuto e codardo, smargiasso e tenero, ridente e triste nella sua condizione servile, a prestar l’opera sua, approssimativa e scherzevole (e in questo farsi beffe, in fondo, dei suoi padroni, c’è anche il gusto di una vendetta!) a due gentiluomini contemporaneamente per riuscire ad avere due salari.

Il pubblico, così, assiste a quello che doveva essere uno spettacolo dei commedianti dell’arte, nella sua precisa misura storica. Se ne può rendere più o meno conto, quello che è certo è che non cade vittima di nessuna illusione magica e, anche ove non ci sia una colta consapevolezza certamente v’è il senso tutto concreto, realistico, d’un teatro che si esprime con un linguaggio di una estrema accessibilità, di una validità totalmente popolare.

 

Arturo Lazzari, “l’Unità”, 11 luglio 1963

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