Riprenderemo le strade del mondo: molti paesi ci attendono, altri ci rivogliono. Ma di strade del mondo già ne abbiamo percorse parecchie, noi dell’Arlecchino. Abbiamo sulle spalle chilometri e chilometri di ferrovia e chilometri di volo, chilometri di mare, chilometri di strade percorse in pullman attraverso i panorami più diversi.
Da una decina d’anni noi attori dell’Arlecchino siamo, grosso modo, sempre gli stessi. Anche Ferruccio Soleri che sostituì Marcello Moretti quando questi ci lasciò per sempre, anche lui era già con noi da molto tempo prima di diventare Arlecchino, impiegato allora in altro ruolo e precisamente in quello del “servo di locanda che non parla”. Personaggio muto, Soleri ci seguì per vari anni, con quella sua ferma volontà di perfezionare, attraverso l’esempio del nostro primo Arlecchino, un suo personale Arlecchino al quale logicamente aspirava avendo già portato la maschera gloriosa, con gustosa e fine abilità, in un saggio dell’Accademia dell’Arte Drammatica di Roma, quando di questa era allievo.
Volevo essere Pantalone
Io incontrai per la prima volta Arlecchino all’aeroporto di Parigi, molti anni fa. Allora, come oggi, il Piccolo Teatro di Milano poteva contare su tre gruppi di attori: uno, del quale era esponente Tino Carraro, recitava in sede uno spettacolo di Giraudoux; un secondo, del quale facevo parte con Tino Buazzelli, Lilla Brignone, Romolo Valli, Alberto Lupo (allora alle prime armi come attore), Ottavio Fanfani, Giovanna Galletti, ecc. si recava al parigino Teatro Marigny (che allora era il teatro di Barrault) a recitare Sei personaggi in cerca d’autore; un terzo gruppo, capitanato da Marcello Moretti, lasciava Parigi, dove aveva recitato allo stesso Teatro Marigny per circa un mese, e partiva per i paesi scandinavi, dove si recava a presentare il suo Arlecchino servitore di due padroni. Un ritardo nel decollo dell’aereo diretto in Svezia aveva reso possibile l’incontro tra i due gruppi di attori in tournée. Ricordo che in quella mattina carica di nebbia io invidiai Antonio Battistella, attore che mi precedette nel ruolo di Pantalone. Pantalone è, per gli attori veneti specializzati in ruoli di carattere (ed io sono veneto), un punto di arrivo della loro carriera. Vestire i panni di quella maschera è un commovente rito al quale mal volentieri si rinuncia. Io arrivavo a Parigi con sulle spalle il ruolo di “capocomico-direttore” dei pirandelliani Sei personaggi, ma avrei volentieri rinunciato a quella parte, che pure è importantissima, e che Strehler mi aveva insegnato battuta per battuta, per essere Pantalone e andarmene in Svezia con Arlecchino, con Brighella (che allora era Franco Parenti) e con Balanzone (che era Checco Rissone). Tra quelle maschere mi sarei ritrovato di lì a poco, sia pure con interpreti nuovi ché, essendo Arlecchino sempre sostenuto da Moretti, Gianfranco Mauri era nel frattempo succeduto a Parenti e Bruno Lanzarini a Rissone, mentre io assumevo per la prima volta la maschera pantalonesca.
Il mio debutto
Dopo un breve rodaggio compiuto in sede, feci il mio debutto ufficiale ad Arnhem in Olanda, ed ebbi così modo di rendermi conto subito che gli entusiastici successi di Arlecchino servitore di due padroni nell’edizione del Piccolo Teatro, successi dei quali avevo letto ripetutamente sulla stampa italiana e dei quali mi avevano parlato i veterani di compagnia (Narcisa Bonati che sosteneva allora il ruolo di Smeraldina, era considerata un po’ come la storica del gruppo) e che a me sembravano veramente favolosi, non erano affatto favole, ma entusiasmante, tangibile verità. Le venti, le trenta chiamate al proscenio, alla fine dello spettacolo, cifre che possono sembrare frutto di fantasia a chi è abituato a frequentare i teatri italiani nei quali vi è la triste consuetudine che alla fine dello spettacolo già alla terza chiamata al proscenio gli spettatori voltino le spalle agli attori per precipitarsi al guardaroba, le venti, le trenta chiamate agli interpreti di Arlecchino – mi resi conto ad Arnhem – erano non una fantastica storia raccontata dalla nostra Narcisa Bonati, ma una ben concreta realtà. Com’era una realtà l’incredibile fenomeno di comprensione del testo anche da parte di pubblici di idiomi lontanissimi dal nostro e da esso diversissimi. Questo per me è rimasto il più inspiegabile fenomeno delle nostre tournée. Olanda, Inghilterra, Francia, Marocco, Algeria, Tunisia e poi America del Nord e poi Polonia e le due Germanie e l’Unione Sovietica, la Jugoslavia la Romania, l’America del Sud…
L’emozione di Villa Litta ad Affori
Dove non è stato il nostro Arlecchino? È stato anche ad Affori, un centro popolare della periferia milanese e fra tutti i viaggi, questo di Affori è stato il più breve ma anche il più affascinante. Recitammo per quindici giorni nel parco della settecentesca Villa Litta e lo spettacolo, per l’occasione rimontato da Strehler per adattarlo al romantico ambiente che vi avrebbe fatto da cornice, risultò di una straordinaria suggestione. Suggestione per il particolare pubblico al quale ci rivolgevamo, un pubblico di periferia che veniva a teatro con i fiaschi di vino sotto il braccio e i cartocci della frittata e il pane e il salame da consumare negli intervalli e che nel corso dello spettacolo era attentissimo, preso dal fascino di questo nostro festoso Arlecchino (i più erano spettatori che andavano a teatro per la prima volta); suggestione per l’ambiente nel quale eravamo chiamati a recitare e per quell’esasperazione del “teatro nel teatro” che Strehler aveva dato allo spettacolo e che per tre ore, tutte le sere, ci faceva veramente sentire raminghi commedianti di una povera compagnia del Settecento, capitata a dare spettacolo sullo spiazzo di una villa milanese. Questa di Affori per i miei compagni e per me è stata veramente la più bella, la più significativa, la più commovente esperienza della nostra vita d’attori.
Gli spari in Algeria
A Bona, in Algeria, eravamo capitati in clima di piena rivolta ed abitavamo in alberghi dalle finestre sbarrate e per entrare nei quali, la sera, dopo lo spettacolo, dovevamo superare due o tre sbarramenti di parà o di polizia. Una domenica, mentre eravamo impegnati nella rappresentazione del pomeriggio, proprio nella piazzetta antistante il teatro, vi fu uno scoppio di bombe, e poi un crepitare di mitragliatrici e brusio di folla che fuggiva e urla di perentori comandi. Noi stavamo recitando il secondo atto del nostro Arlecchino e col cuore grosso e non poca paura continuammo a recitare come se nulla stesse accadendo, certi però che in platea vi sarebbe stato un inevitabile fuggi fuggi generale. Invece il pubblico rimase in sala, senza sbandamenti né brusii, divertendosi ai lazzi delle maschere e applaudendoci. Ci disse poi qualcuno che tutti gli spettatori erano rimasti in sala perché, sapendo che quella era l’ultima recita che la compagnia avrebbe dato a Bona, nessuno avrebbe voluto rinunciare a godersi fino in fondo il nostro spettacolo.
I complimenti di Giuliana d’Olanda
All’Aja, la regina Giuliana, che con le figlie assisteva ad una nostra rappresentazione, espresse il desiderio di conoscere di persona gli attori che sostenevano le maschere e così fummo invitati, dopo la fine del secondo atto, ad andare nel palchetto reale. Vestiti da Arlecchino, da Pantalone, da Brighella, andammo dalla regina attraversando parte della platea ed il corridoio dei palchi, con il pubblico in piedi che ci faceva ala, ci applaudiva e ci toccava come se volesse convincersi della nostra realtà umana. Il misterioso fascino delle maschere aveva pervaso quegli spettatori. Soprattutto Arlecchino, che allora era ancora Marcello Moretti, con quel suo abito multicolore e la maschera da gatto, non sembrava a quel pubblico un essere di questa terra. La magia del teatro aveva raggiunto limiti estremi e ancora una volta il tema “fantasia-realtà”, “realtà-fantasia”, tema eterno del teatro, era tornato di attualità.
L’affetto dei Paesi oltre cortina
In Polonia la compagnia era affettuosamente curata dal pubblico, come un ospite non di riguardo, ma gradito, al quale si vuole molto bene e che si vuole colmare di premurose cure perché l’ospitalità gli torni il più gradita possibile e non la possa dimenticare molto presto. Molti cuori femminili lacrimarono alla partenza di Arlecchino dalla Polonia e ancora oggi gli anziani della compagnia ricordano con nostalgia le amorose avventure del soggiorno polacco.
Vi sono paesi stranieri, come la Jugoslavia, come la stessa Polonia, come l’Unione Sovietica, nei quali a distanza di tanti anni e malgrado, nel frattempo, siano passati in questi paesi altri spettacoli italiani, alcuni dei quali di altissimo livello artistico, si ricorda ancora oggi come la più pura espressione del teatro italiano il nostro Arlecchino, che si vorrebbe rivedere ancora nei teatri di Lubiana, di Zagabria, di Belgrado, di Mosca, di Leningrado, di Riga, di Tallin, di Varsavia, di Vienna, di Cracovia, di Łódź…
In altri paesi Arlequin valet de deux maîtres, o The servant of two masters, o Sluga dveb gospodov, o Der Diener zweier Herren, dopo il passaggio del nostro Arlecchino, è entrato a far parte del repertorio dei locali teatri nazionali, favorendo così una maggiore diffusione del teatro goldoniano all’estero.
L’orgoglio di essere “un attore del Piccolo”
Qualche anno fa, a Parigi, il compianto Marcello Moretti, come Arlecchino, recitò brani della commedia alla Comédie-Française, premio ambitissimo e molto raramente concesso ad attori stranieri; qualche mese fa, il nostro Ferruccio Soleri, come Arlecchino, si è esibito in scene animate e recitate della commedia goldoniana, alla televisione francese. In Marocco, a Rabat, dopo il successo ottenuto in due corsi di recite abbastanza vicini tra loro, quel Ministro della pubblica istruzione, visto il nostro spettacolo, volle che ne dessimo alcune rappresentazioni per le scuole locali, perché fra gli studenti della capitale marocchina meglio potesse diffondersi la conoscenza del teatro italiano e della nostra lingua. A Berlino Est, dove risiedetti per alcuni mesi impegnato nella lavorazione di un film, bastava che mi presentassi come attore del Piccolo Teatro di Milano e come Pantalone di Arlecchino servitore di due padroni perché trovassi aperte e ospitali le porte di tutti i teatri. A Oxford gli studenti di quella università diventarono nostri amici e durante il giorno erano sempre con noi e ci volevano ospiti dei loro college, e così pure i loro professori.
Far parte del gruppo che recita Arlecchino è per un attore motivo di orgoglio, quasi un privilegio. Una cosa è certa, e cioè che il gruppo che d’abitudine recita questa commedia è, nel mondo del teatro, considerato una cosa a sé stante. Salvo qualche inevitabile sostituzione che si verifica di tanto in tanto, siamo da anni sempre gli stessi attori impegnati a sostenere gli stessi personaggi. Ci conosciamo reciprocamente sia sul piano umano come su quello artistico, intimamente comprendendoci e reciprocamente giustificandoci, aiutandoci, sia in scena sia nella nostra vita privata.
L’abitudine ai grandi viaggi, lontano dalla patria ci ha affiatati e ci tiene uniti. Ci siamo abituati a considerarci non singolarmente bensì come componenti di un blocco artistico unico, che fa di noi “quelli dell’Arlecchino”. E noi siamo orgogliosi di essere “quelli dell’Arlecchino”.
Dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1996/97