Arlecchino servitore di due padroni

1956. Terza edizione

1956. Terza edizione, detta “di Edimburgo”

Arlecchino ha ormai fatto il giro di mezzo mondo. Ezio Frigerio, che ha iniziato la sua collaborazione al Piccolo come costumista, inventa una nuova scenografia per questo Arlecchino, detto di Edimburgo perché è stato rappresentatoper la prima volta al Festival della città scozzese. L’azione si svolge in una piazza italiana con rovine, dove sorge una pedana ricoperta di teli colorati. Qui gli attori recitano nella cornice realistica della vita di una compagnia di comici con i modi della Commedia dell’Arte: il teatro nel teatro. Nella tournée negli USA del 1960, Ferruccio Soleri per la prima volta interpreta il personaggio di Arlecchino, sostituendo Marcello Moretti in una replica al New York City Center.

Personaggi e interpreti

Pantalone Antonio Battistella
Clarice Relda Ridoni
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Giulio Chazalettes
Beatrice Valentina Fortunato
Florindo Aretusi Tino Carraro
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marina Bonfigli
Arlecchino Marcello Moretti
Primo cameriere Franco Graziosi
Un facchino Ottavio Fanfani
Secondo cameriere Raoul Consonni
Terzo Cameriere Ezio Marano

Scena di Ezio Frigerio
Costumi di Ezio Frigerio
Musiche di Fiorenzo Carpi

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Edimburgo, Royal Lyceum Theater, 27 agosto 1956

Riprese

1956

Dopo una lunga tournée che tocca, tra le tante città, anche Stoccolma, Helsinki, Tampere, Copenaghen, Oslo, Dresda, Lipsia, Weimar, Berlino e Vienna, a fine anno lo spettacolo ritorna in scena a Milano con la seguente distribuzione:

Pantalone Antonio Battistella
Clarice Relda Ridoni
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Giulio Chazalettes
Beatrice Valentina Fortunato
Florindo Aretusi Tino Carraro
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Marcello Moretti
Primo cameriere Franco Graziosi
Un facchino Ottavio Fanfani
Secondo cameriere Raoul Consonni
Terzo Cameriere Ezio Marano

Milano, Piccolo Teatro, 28 dicembre 1956

1957

Concluse le recite milanesi, Arlecchino continua il suo viaggio arrivando fino a Göteborg. In aprile è a Reggio Emilia con la seguente distribuzione:

Pantalone Antonio Battistella
Clarice Relda Ridoni
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Giulio Chazalettes
Beatrice Lydia Alfonsi
Florindo Aretusi Antonio Pierfederici
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Marcello Moretti
Primo cameriere Marcello Bertini
Un facchino Roul Consonni
Secondo cameriere Angelo Corti
Terzo Cameriere Ezio Marano

Reggio Emilia, Teatro Municipale, 24 aprile 1957

Le repliche proseguono in numerose città, tra le quali Modena, Lucca, Massa Carrara, Pisa, Siena, Arezzo, Perugia, Lecce, Bari, Foggia, Caserta, Salerno, Cosenza, La Spezia, Ravenna, Urbino, Ancona, Pescara, Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria, Messina, Palermo, Catania, Siracusa, Tripoli, Genova, L’Aia, Amsterdam e Colonia.

1958

Pantalone Antonio Battistella
Clarice Coletta Rizzi
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Relda Ridoni
Florindo Aretusi Luigi Vannucchi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Raoul Consonni
Secondo cameriere Angelo Corti

Pavia, Teatro Fraschini, 29 aprile 1958

Lo spettacolo affronta poi una lunga tournée europea. Tra le tappe Stoccarda, Düsseldorf, Hannover, Francoforte, Brema, Amburgo, Lubecca, Anversa, Bruxelles, Dortmund, Colonia, Berlino, Cracovia, Varsavia, Praga, Monaco di Baviera e Londra.

1959

Pantalone Nico Pepe
Clarice Maria Grazia Antonini
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Mauro Carbonoli
Beatrice Lydia Alfonsi
Florindo Aretusi Luigi Vannucchi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Angelo Corti
Secondo cameriere Ferruccio Soleri

Milano, Piccolo Teatro, 20 gennaio 1959

La tournée porta lo spettacolo in viaggio tra Paesi Bassi, Inghilterra, Italia e Nordafrica. Tra le tappe L’Aia, Rotterdam, Utrecht, Amsterdam, Stratford-upon-Avon, Parma, Varese, Como, Modena, Bergamo, Casablanca, Rabat, Marrakech, Algeri e Tunisi.

1960

Pantalone Gianrico Tedeschi
Clarice Giulia Lazzarini
Il Dottor Lombardi Bruno Lanzarini
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Relda Ridoni
Florindo Aretusi Warner Bentivegna
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Narcisa Bonati
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Vincenzo De Toma
Un facchino Angelo Corti
Camerieri Ferruccio Soleri, Augusto Salvi

New York, New York City Center, 24 febbraio 1960

Arlecchino attraversa quindi Stati Uniti e Canada, per concludere nell’estate la sua tournée in Russia. Tra le tappe Filadelfia, Princeton, Cambridge, Detroit, Montreal, Toronto, Los Angeles, San Francisco, Bucarest, Leningrado, Mosca.

Strehler ne parla

Marcello e Arlecchino

La tirannia del personaggio

Ripenso al complesso rapporto che legava Marcello Moretti al personaggio di Arlecchino. Indubbiamente un rapporto d’amore ma appunto per questo, come per ogni amore vero, contraddetto, fondamentalmente doloroso, ricco di adesioni e di rifiuti. A prima vista, si potrebbe dire che Moretti non amava Arlecchino. Lo subiva, come una specie di tirannia della maschera sull’interprete. L’attore Moretti sentiva l’Arlecchino come una “limitazione” crudele alle sue possibilità di esprimersi in altre dimensioni sul palcoscenico. Questo personaggio, questa maschera che egli aveva indossato un giorno, aveva finito per diventare un suo secondo modo di essere, nel teatro. L’attore, ad un certo punto, per il pubblico e per i teatranti si identificava con la sua maschera. Per Marcello era quasi una condanna. Ricordo la sua tristezza talvolta, dopo un travolgente successo, le sue angosce per il domani. Diceva: “E quando sarò vecchio e non potrò più fare l’Arlecchino?”. Non c’era in questa domanda soltanto la semplice paura dell’attore che invecchia e che deve lasciare il suo “ruolo”. C’era lo smarrimento del vero attore davanti a “tutti” i personaggi che non aveva e che non avrebbe mai potuto fare. Il trionfante Arlecchino-Moretti non riuscì mai a dimenticare tutto il teatro per la sua maschera. Né gli riuscì mai, purtroppo, di riassumere il teatro nel suo prodigioso personaggio. Altri avrebbero accettato questo fatto come definitivo, come un riposo ed una certezza. Ma l’attore Moretti era infelice, dietro alla sua maschera scura. Ed era questo il segno di alcune sue limitazioni intellettuali, ma anche di una ricchezza interiore assai fuori del comune. Le une e le altre regalavano allo schema della maschera un che di primitivo e patetico che arricchiva di nuove risonanze segrete la storia consunta di un personaggio. A questo proposito mi sono spesso chiesto – e molti del pubblico con me – quale fosse la dimensione dell’attore Moretti, al di fuori dell’Arlecchino. Marcello era un attore difficile e assai particolare. Limitato nel suo fisico e limitato nel suo organo vocale, pesante, non sempre limpido nella dizione e soprattutto non sempre in accordo con la sua “figura” scenica. Era un attore come diciamo noi – di “composizione”. Una composizione nettamente caratterizzata e di breve respiro. Ma in questo limite raggiungeva sempre risultati di altissimo valore. Certe sue piccole figure, sordide o allegre, patetiche o angosciose, ricevevano da lui una luce precisa, definitiva e senza che mai l’attore si sovrapponesse al personaggio. Marcello ottenne questo risultato, questa densità espressiva semplicemente recitando il piccolo personaggio con la chiarezza, la dedizione, la concentrazione che l’attore in genere, e quello italiano in particolare, concede solo ai “grandi” personaggi.

L’amore per il mestiere dell’attore

Dedizione e concentrazione. Quella somma di attitudini che si chiamano “serietà professionale” e che sono invece qualcosa di più, nel nostro mestiere, del fare pulitamente quello che si deve fare. In questo, Marcello fu un esempio, un modello per tutti. Io credo che coloro che praticano per molti anni il teatro, anche se cinici all’apparenza, e all’apparenza disincantati, finiscono per amarlo, questo teatro, in un modo così totale da non riuscire più a definirlo come sentimento per se stessi. Sembra un’abitudine soltanto, un mestiere, tanto si è spogliato degli attributi appariscenti e piacevoli dell’amore. È un amore diventato abito mentale. Ma c’è qualità e qualità di amore. Quello di Marcello era tra i più spogli ed i più limpidi. Perché questo tipo d’amore non si esprime nei diari, nelle dichiarazioni di passione teatrale, ma nella dura, monotona continuità della pratica quotidiana, nei piccoli particolari del proprio lavoro, giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, persino nella cura degli oggetti di teatro affidati all’attore.

Io non ricordo una sola volta in cui, durante una recita, il diario privato dell’attore Moretti abbia inciso sul personaggio che egli interpretava. Né fatti fisici né morali. Chi conosce la fatica interiore delle innumerevoli repliche di uno spettacolo, davanti a pubblici diversi, talvolta spogli, talvolta indifferenti o entusiasti, sa cosa voglio dire. È una tensione a cui pochissimi resistono, un rituale troppo ripetuto per mantenere intatta la sua freschezza iniziale, la sua carica interiore. Marcello fu un attore di una rigidità morale assoluta e di una intransigenza che poteva persino diventare cattiva. I suoi compagni di lavoro ne sanno qualcosa. Molti tra loro, per acquietarsi la coscienza, hanno pensato che il suo comportamento fosse derivato più che altro dal ruolo preponderante che egli aveva, ad esempio, nel Servitore di due padroni di Goldoni: per un “protagonista” è facile comportarsi bene. Ma non è vero. Poiché si tratta di una attitudine morale che oltrepassa il “ruolo” in una rappresentazione. Anzi: la mia esperienza mi dice che è più comune l’abbandono dell’attore agli umori del carattere, proprio nell’interpretazione di una parte estesa nel tempo e ricca di responsabilità. Marcello è stato uno degli attori più disciplinati che io abbia mai avuto, se non il più disciplinato. Disciplinato non verso di me e se stesso. Disciplinato verso il mestiere, il teatro. E tutto ciò senza farlo parere, con una naturalezza così esemplare, da sembrare cosa da tutti.»

Giorgio Strehler, In margine al diario, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

Documenti

Le regole di Paolo Grassi per un attore in tournée

Antonio Battistella, interprete del ruolo di Pantalone, tenne un divertentissimo diario della tournée di Arlecchino del ‘56. È la cronaca del viaggio, spesse volte avventuroso, di un’affiatata compagnia di comici che, guidati dall’energia inesauribile di Paolo Grassi, portarono l’Arlecchino fuori dai confini italiani.

23 luglio. La compagnia si riunisce – La riunione della compagnia avviene senza nessuna particolare formalità e non presenta nulla di eccezionale, anche se è l’inizio di un giro artistico all’estero fra i più interessanti e i più lunghi che la compagnia di prosa abbia fatto. Gli attori si conoscono tutti, molti sono stati assieme nella scorsa stagione nello stesso Piccolo Teatro, altri in altre annate artistiche, ma nessuno di essi tiene a far sentire il suo “peso” o l’importanza del ruolo. Ci sono figli d’arte ed ex allievi dell’Accademia di Roma e di Milano; ci sono attori che recitano da più di venti anni, altri sono alle prime esperienze. Quelli che hanno maggiori responsabilità hanno al loro attivo notevoli successi in Italia e all’estero e sono effettivamente attori bravi e importanti, ma non se ne danno l’aria. Pare accertato ormai il fatto che “in teatro tutti sono necessari ma nessuno è indispensabile”. All’infuori s’intende del regista e dell’organizzatore. Da questo slogan alcuni sono convinti abbia avuto inizio la crisi del teatro italiano. Strehler arriva con pochi minuti di ritardo e comincia a interessarsi di come i suoi attori abbiano passato le vacanze. Sembra che, data la stagione, l’argomento delle vacanze sia il più scottante. Strehler ha tutta l’aria di interessarsi vivamente alla salute dei suoi attori e ai loro problemi familiari. Ma quando la compagnia ha raggiunto un buon grado di calore nella discussione sui luoghi più adatti per le vacanze delle mogli e dei figli nei dintorni di Milano, Strehler comincia a parlare sui due lavori da rappresentare in tournée. (…)

 

26 luglio. Rinnovare i passaporti – Si comincia a parlare del giro perché è arrivata una circolare di Grassi nella quale si ricorda la raccomandazione già fatta con altre due circolari negli ultimi tre mesi, e cioè il rinnovo dei passaporti. Quasi tutti sono in regola; solo la Dandolo sembra non averlo in ordine perché, a quanto dice lei, è stata vittima dell’ostruzionismo veramente incomprensibile da parte delle autorità competenti. Un suo tentativo di raccontare le sue sventure, drammatizzando eccessivamente la situazione, cade nell’indifferenza generale. Checco Rissone ha tutto in ordine, come al solito, ma è preoccupato per un principio di itterizia. Fanfani, sempre soddisfatto perché le cose per lui vanno sempre nel migliore dei modi, è solo preoccupato dell’orario dei treni che gli possono consentire, dopo le prove di ogni giorno, di raggiungere la giovane e graziosa moglie in villeggiatura a Cittiglio. Carraro invece non ha di queste preoccupazioni, porterà la moglie con sé.

 

27 luglio. Regole e raccomandazioni – Si riparla con insistenza del giro perché a tutti è arrivata un’altra circolare della Direzione. Questa circolare, in trentasei righe dattilografate, divise in nove paragrafi, oltre alle già note e dette e ripetute raccomandazioni a proposito del passaporto, ricorda tutto ciò che gli attori devono sapere e cioè:

a) la lingua inglese bisogna conoscerla; chi la conosce già la ripassi e chi non la conosce la studi il più rapidamente possibile per potere almeno pronunciare le frasi di uso comune;
b) nei paesi del nord il clima è ovviamente rigido e bisogna coprirsi;
c) nei paesi del nord piove spesso e quindi occorre l’ombrello;
d) è indispensabile avere il soprabito;
e) è prudente avere indumenti intimi di lana (maglie, pancere, ecc.);
f) tutti devono avere un abito da sera e uno da cocktail;
g) tali abiti potranno viaggiare in un baule cumulativo della compagnia;
h) gli abiti in questione dovranno essere consegnati entro il 5 agosto, appesi su apposite grucce e ben disposti dentro sacchetti di plastica trasparente;
i) le scarpe relative a detti abiti potranno essere consegnate allo stesso modo, negli stessi termini, e nella medesima confezione.

 

17 agosto. A ciascuno la propria dieta – Grassi annuncia a voce, ad alcuni attori con cui è più in confidenza, d’essere riuscito a dimagrire di dieci chili in venti giorni grazie a una speciale cura segreta. A noi, per ottenere lo stesso risultato, sono bastati ventisei giorni di prove.

 

29 agosto. Strehler non è soddisfatto – Giornata chiara, piena d’aria e di sole. Facciamo due recite di Arlecchino a teatri esauriti e con un pubblico delirante. Ma la fatica è quasi insopportabile. Durante lo spettacolo vengono a complimentarsi con noi Lele D’Amico e gli attori canadesi della Stratford Ontario Festival Company che contemporaneamente a noi, ma in un altro teatro, stanno recitando per il Festival di Edimburgo Enrico V.

Viene a farci un’intervista un inviato della BBC … Viene anche un medico per visitare la Bonfigli e Rissone. Il dottore, dopo la visita, non vuole essere pagato perché, dice, è già pagato dallo Stato. Grassi, entusiasta, afferma che questo è un segno di grande civiltà. Il medico ordina a Checco Rissone “tre giorni di riposo!” suscitando un’ilarità che lui non sa spiegarsi.

Domani invece dovremo stare in teatro dalle dieci della mattina alle dieci di sera e, dopo lo spettacolo, metterci in abito da sera per andare al ricevimento dato in nostro onore dal Lord Provost della Città di Edimburgo, alle ore 23. E dopodomani avremo due spettacoli.

Carraro è giù di voce; gli sposini sono spettrali per mancanza di proteine; Moretti esaurito e giù di voce. Grassi sta benissimo e gode di ottimo appetito. Dà, ogni tanto, regalie di un penny a quelli che secondo lui sono i più meritevoli. Strehler viene in teatro, durante lo spettacolo diurno, e ci comunica la sua insoddisfazione per il nostro modo di recitare. Sembra che da parte nostra ci sia stata una negligenza e che questa negligenza abbia in parte guastato lo spettacolo. Gli attori sono turbati e nervosi. Domani avremo un’altra giornata nera.

 

6 settembre. Una giornata tipo in Svezia – Alle 5 sveglia, alle 6 colazione: la mattina è chiara e dalla Svezia ci vengono incontro i primi gabbiani. Ci viene consegnato il programma della nostra visita a Göteborg, stampato su di un elegante cartoncino: ore 13, colazione dal Console Generale Onorario Nils Ahlund; ore 16.45, conferenza stampa; ore 20, Arlecchino; ore 23, cena offerta dalla città di Göteborg, al Grand Hotel. Entriamo in porto e alle 8 siamo in albergo. Alle 12 andiamo a colazione, come stabilisce l’orario di marcia, a casa del Console Ahlund. Il padrone di casa, dopo il pranzo, ci dà il benvenuto con un discorso in italiano cui Grassi risponde e ringrazia per tutti noi. Alla sera Arlecchino ottiene un caloroso successo e, durante gli applausi del finale, viene in palcoscenico il direttore del teatro per ringraziarci e per consegnare a Strehler, in presenza del pubblico, una lira dorata (fatta come l’omonimo strumento musicale, ma in foglie d’alloro) e a Moretti un mazzo di fiori.

 

9 settembre. Un meraviglioso teatro svedese – Alle 11 partiamo in pullman per il Drottningholms Teatern, teatro della residenza estiva della Corte Reale Svedese, distante da qui 45 chilometri e vi giungiamo dopo un’ora di viaggio. Il teatro settecentesco è isolato nel bellissimo parco ricco d’acque popolate di cigni e anatroccoli. Nel suo interno è disposto un museo teatrale che contiene, fra le altre cose, una sala dedicata alle scenografie del Bibbiena e una raccolta di costumi appartenuti a comici italiani del ‘700, fra le più ricche del mondo. Grassi non consente che ci si soffermi molto ad osservare le meraviglie del museo, perché siamo attesi sul palcoscenico per provare. Come Napoleone con i suoi soldati prima della campagna d’Italia, egli ci invita a proseguire con coraggio verso le glorie che ci attendono. Al posto del bastone da maresciallo, egli dice, ciascuno di noi ha nel suo bagaglio una corona d’alloro. Noi, pensando alla forma delle corone che qui usano regalare agli artisti dopo lo spettacolo, facciamo gli scongiuri di rito. Siamo in teatro alle 13.15 e prendiamo visione delle novità che dobbiamo affrontare. Prima di andarci a truccare abbiamo dieci minuti di tempo per visitare il palcoscenico: sembra un grande teatro di burattini, di quelli belli che usavano una volta, tanti anni fa. Osserviamo da ogni lato del palcoscenico sei ordini di quinte e ogni ordine lo vediamo composto di quattro quinte disposte tutte sui binari di scorrimento. Il loro movimento simultaneo avviene con un solo comando semplicissimo. Le quinte si spostano, scivolando l’una contro l’altra, come se fossero delle grandi carte da gioco, e a mano a mano che una si ritira, sopravviene l’altra, sicché da giù si ha lo stesso effetto che nel cinema si dice “dissolvenza incrociata”: in trenta secondi va via un ambiente e ne viene un altro, a vista. Le lampadine elettriche sono disposte, di qua e di là in quinta, con il colore e l’intensità di luce delle candele che c’erano una volta al loro posto. Il palcoscenico è inclinato verso la platea e la platea verso il palcoscenico. Tra questo e quella c’è il posto per l’orchestra. A destra e a sinistra della platea, un po’ in alto, ci sono due palchetti fatti come balconcini, con le grate di legno per vedere senza essere visti. Questi palchetti consentono a noi attori, durante lo spettacolo, di andare a turno a vedere l’effetto della scena con i compagni che recitano. E la sensazione è indescrivibile: lo spettacolo acquista colori e proporzioni magiche. Su questo palcoscenico l’attore diventa veramente una divinità che domina la platea. Recitando in questo teatro, con i soli costumi nostri e nient’altro, noi abbiamo l’impressione di essere aiutati a recitare liberamente, con gioia, e di poter avvicinare straordinariamente a noi il pubblico anche se durante la recita la sala resta illuminata e siamo da essa separati dalla fossa dell’orchestra. Il sottopalco e la soffitta ci confermano l’alto livello tecnico raggiunto dal teatro nel ‘700 e i camerini ci testimoniano l’alta civiltà di questo paese e il rispetto per il teatro e per chi lo serve. Durante gli ultimi applausi l’intendente del teatro, prof. Agne Bejer, viene fra noi e, di fronte a un pubblico che non si stanca di festeggiarci, ci ringrazia e ci elogia in italiano. Abbiamo quaranta minuti per struccarci e partire. Il pullman sta già aspettandoci.

 

17 settembre. Recita e ricevimento a Copenaghen – Navighiamo verso Copenaghen con un tempo bellissimo, seguiti da uno stormo di gabbiani che ogni tanto calano in picchiata sui pezzetti di cibo lanciati dai passeggeri. A Copenaghen, dopo pranzo andiamo a fare una visita al porto e a dare un salutino alla graziosa sirenetta in bronzo che vi sta a guardia. Alle 17 andiamo al cocktail dell’Ambasciata Italiana e alle 19 siamo in teatro. Arlecchino viene applaudito proprio come nel 1953. Gli spettatori battono le mani e picchiano con i piedi il pavimento tutti assieme, ritmicamente, producendo un baccano terribile: è il massimo del successo. Dopo i discorsi d’occasione e l’offerta tradizionale dei fiori, andiamo a cambiarci e quindi scendiamo nel foyer per la cena offertaci dalla direzione del teatro danese. Partecipare a questi ricevimenti costituisce un sacrificio, ma ne comprendiamo la necessità. Forse si dovrebbe rallentare un po’ il ritmo dei nostri viaggi e delle nostre recite. Ma le solite ragioni organizzative ed economiche costringono la compagnia italiana a “tenersi su”, come si dice, con i nervi, riducendo al minimo le ore di riposo.

 

27 settembre. Dresda porta ancora i segni della guerra – Dresda è distrutta e il suo aspetto lunare è un tragico scenario di guerra che non ha potuto ancora essere trasformato. I due gruppi che in compagnia fanno il tifo per l’Oriente e per l’Occidente sono tentati di lanciarsi in accese polemiche gli uni contro gli altri, ma Grassi li trattiene con un energico e opportuno ammonimento. Alla sera in teatro registriamo più di cento chiamate e la fatica di andare avanti e indietro sul palcoscenico per ringraziare il pubblico è più grave di quella già notevole di recitare l’Arlecchino. Moretti deve uscire dalla porticina del sipario di ferro per salutare gli ultimi entusiasti e pregarli di lasciarci andare a dormire.

 

30 settembre. A Lipsia successo straordinario – Partenza da Chemnitz per Lipsia dove arriviamo a mezzogiorno. Dopo pranzo facciamo una passeggiata per la città, ma è domenica e tutti i negozi sono chiusi. Visitiamo la Chiesa di S. Tommaso, culla della divina arte di Bach. La tomba del grande musicista è costituita da una semplice lastra di bronzo al centro del Tempio con sopra inciso il suo nome. Su un altare, poco discosto, sono esposti cavoli bianchi e rossi, zucche enormi, sedani, insalata, carote e mele. I colori vivaci di questi erbaggi e di queste frutta contrastano vivamente con la severità della chiesa luterana immersa in un’ombra appena venata dalla poca luce che scende dalle sue vetrate a colori. L’esposizione è un ringraziamento a Dio per i frutti che l’autunno concede agli uomini di buona volontà. Ed è un’offerta alla chiesa che ricorda tempi pagani, usanze pagane e mediterranee.

La gente per le strade passeggia, vestita modestamente, silenziosa e con volti sui quali mai si sorprende un sorriso.

Noi siamo osservati con curiosità per il taglio e la qualità dei nostri abiti. Checco Rissone, che sembra truccato da turista inglese d’altri tempi, è addirittura seguito da un piccolo codazzo di gente. Qui, un uomo con il Lock grigio perla in testa, con addosso un Aquascutum, con sul braccio un ombrello e scarpe fini di forma classica al piede è raro come da noi chi passeggiasse per le strade in gonnellino scozzese. Verso sera partiamo col nostro amato carrozzone per Halle, dove dobbiamo recitare. Raggiungiamo la città quando è già scuro e ne rileviamo il suo aspetto buio e triste. Ma è una piccola città industriale e anche da noi tali cittadine, di sera, non sono allegre. Al centro dell’abitato c’è il teatro che ha un aspetto solido e imponente, come tutti gli altri edifici germanici del genere. Nei centri tedeschi da noi visitati, molto o poco distrutti dalla guerra, pieni di fumaioli e di fabbriche, il teatro costituisce un perno, un ombelico, come il Foro per gli antichi o il Duomo per le nostre vecchie città. È facile rendersi conto del perché tutte le attività artistiche e culturali si concentrino e si esaltino in questo luogo dove non solo si danno spettacoli di prosa di autori importanti, ma anche opere liriche, operette, balletti e concerti. Nei programmi di questi edifici dedicati allo svago artistico dei cittadini germanici vediamo elencati e mescolati nomi come Verdi, Ibsen, Shaw, Schiller, Mozart, Hoffmann, Chopin, Strauss, Goldoni, Hebbel, Goethe, Bellini, ecc. E data la nessuna o poca importanza del cinema, l’inesistenza dei caffè, delle birrerie e di altri ritrovi pubblici di tipo occidentale, la poca possibilità di vita all’aperto, la scarsezza degli automezzi, il basso prezzo dei biglietti d’ingresso, si comprende perché queste sale siano sempre esaurite. Sicché non è eccezionale il fatto che l’Arlecchino chiami tanto pubblico in platea. Eccezionale è piuttosto il successo che questo spettacolo consegue ovunque ripetendosi in ogni città. Il pubblico germanico a questa commedia di Goldoni reagisce con delle esplosioni di allegria fragorosa e si abbandona al divertimento quasi con furia.

Ad Halle durante i ringraziamenti ci mandano una signorina che consegna una corona d’alloro dorata a Moretti e libri e quadretti artistici a noi.

 

6 ottobre. Al Berliner Ensemble – Verso le 10 del mattino andiamo tutti a rendere omaggio alla tomba di Brecht che si trova in un giardino proprio sotto le finestre di quella che fu la sua casa, a meno di duecento metri dal letto in cui morì. La mattinata è fredda e piovosa e noi procediamo con gli ombrelli aperti, in mesto corteo, sotto gli alberi stillanti acqua, fino al luogo dove il Poeta è sepolto, sotto i platani, contro un muro privo di intonaco, certo per potervi apporre la lapide, e riposa in eterno vicino a Fichte e a Hegel. Prima di lasciare il giardino salutiamo la modesta casa del Poeta. Dopo aver partecipato a una conferenza stampa alla Volksbühne pranziamo in fretta nella cantina del teatro stesso perché oggi lo spettacolo è alle ore 15.

Grassi, informato dai giornalisti presenti delle alte paghe degli attori e registi della Germania Orientale, propone come modello per un teatro italiano dell’avvenire la Germania Occidentale, anche se reazionaria, dove però pare che gli attori siano pagati un po’ meno e assicura formalmente che se dovesse un giorno diventare Direttore Generale dello Spettacolo, non permetterà ad alcun attore di guadagnare 30.000 lire il giorno, né che i registi percepiscano più di 600.000 lire a prestazione. Poiché nessuno di noi attori qui presenti è giunto ancora a guadagnare tale cifra non protestiamo, ma al contrario sorridiamo tranquilli e fiduciosi in un avvenire di migliore giustizia sociale promosso dal direttore del Piccolo Teatro.

Andiamo a truccarci ed entriamo nel nostro camerino accolti con profondissimi inchini dal cameriere personale fornitoci dal teatro. Questi camerieri personali che la Volksbühne mette a disposizione dei suoi attori per le necessità di palcoscenico hanno tutti l’abito maschile, un’età incerta e atteggiamenti femminei e striscianti. Noi non siamo abituati ad essere serviti così nemmeno a casa nostra e quindi ci troviamo un po’ imbarazzati a vederci girare intorno, in camerino, questi strani individui che ci tolgono la camicia, le calze, i pantaloni, quasi ci strappano di dosso le magliette ed altri indumenti intimi per impedirci di svestirci senza il loro concorso. L’imbarazzo diventa incubo ma nemmeno la diplomazia di Checco Rissone è riuscita a liberarsi del domestico.

L’Arlecchino finisce verso le 18 e alle 19, invitati da Helene Weigel, ci raduniamo nell’atrio del Berliner Ensemble per assistere allo spettacolo. Il teatro, all’interno, è accogliente, tutto velluti rossi, stucchi e putti; un teatro borghese della Germania di un tempo. Davanti al sipario c’è però in bianco e nero una grande colomba di Picasso che vuol polemicamente definire la nuova linea politica ed artistica del Berliner Ensemble.

La commedia che vediamo rappresentare è di un promettente scrittore della nuova generazione tedesca, tutta scritta in versi sciolti ed intitolata Katzgraben dal nome della località dove si svolgono gli avvenimenti. È stata messa in scena dallo stesso Bertolt Brecht prima di morire. Narra la storia di un villaggio tedesco dal 1947 al 1950 e, in due tempi, numerosi quadri, col concorso di 36 attori e di un trattore di modello antiquato, vuol dimostrare l’utilità della collaborazione tra gli operai e i contadini e quanto sia vantaggioso per lo sviluppo economico di un Paese avere una strada moderna al posto degli antichi trattori e trattori al posto dei cavalli.

L’interpretazione data dal complesso del Berliner Ensemble è ammirevole. Dopo lo spettacolo ceniamo nella cantina del teatro ospiti di Helene Weigel. A tavola ci rendiamo conto che un regista svizzero del complesso, con aria di grande cordialità e deferenza, ci prende tranquillamente in giro. Lo lasciamo fare. Lo abbiamo poi visto assistere di nascosto a tutti gli spettacoli di Arlecchino da noi dati a Berlino. Non sappiamo se ha potuto imparare qualche cosa.

 

10 ottobre. Il difficile viaggio verso Vienna – AI risveglio ci troviamo già in territorio cecoslovacco, ci accorgiamo di essere due ore in ritardo sull’orario e veniamo a sapere che il vagone contenente il materiale scenico e il grosso del nostro bagaglio è stato sganciato dal terreno alla frontiera ed è rimasto in Germania. Giungiamo a Breclav quando il direttissimo su cui dovevamo salire è già partito da più di un’ora e dobbiamo rassegnarci ad attendere in stazione un accelerato che ci porterà fra tre ore, non già a Vienna ma a un paese nelle vicinanze della città che ci attende.

Il momento è difficile. A un certo punto, nel tentativo di chiarire la situazione, sentiamo Grassi alzare la voce e lo vediamo allontanarsi e scomparire col suo sacco dei regali in spalla (che scherzosamente è stato definito “il sacco delle rapine”) tra due guardie armatissime e seguito da un gruppo di ferrovieri. Noi dobbiamo restare sul vagone perché è proibito scendere e, del resto, non l’oseremmo neppure.

Dopo più di due ore di sosta, Paolo ritorna trionfante ed il treno si muove, lentamente, ma si muove. Al tramonto, giungiamo al confine austro-cecoslovacco dove, finalmente, possiamo veder da vicino la famosa “cortina”. È costituita da una siepe di filo spinato e da una barriera di fili metallici nei quali passa corrente ad alta tensione. Ogni tanto una torretta con sentinella armata di mitra e dotata di riflettori domina la terra di nessuno dove pascolano in pace centinaia di lepri.

Il treno si ferma. Due gendarmi vestiti come i nostri partigiani nel 1945, armati di corti mitra a tracolla, ispezionano tutto il treno vettura per vettura e guardano minuziosamente dentro i gabinetti; tra i vagoni e tra le ruote. Finita la lunga ispezione ci viene concesso di lasciare la Cecoslovacchia ed entriamo nella prima stazioncina austriaca, gremita di suore. Proseguiamo e alle 20 scendiamo dal treno e in pullman raggiungiamo Vienna. Dopo 20 minuti, siamo in albergo. Vienna è affascinante: una bella vecchia signora, un po’ decaduta, ma ancora piena di dignità e desiderosa di apparire al mondo con quel fascino di un tempo che qualcuno ancora ricorda e rimpiange.

 

16 ottobre. Torniamo a casa – Il ritorno desiderato ormai da tutti ha inizio alle 20.30 alla stazione di Wien Südbahnhof. Alla frontiera italiana, alle 5 del mattino, i funzionari di polizia ci ritirano i passaporti che non risultano avere il visto di transito per la Cecoslovacchia. Grassi, esasperato, si fa prestare da Rissone il suo Lock grigio-perla, accende un grosso sigaro e cerca di impressionare gli agenti dicendo che noi abbiamo vinto delle battaglie artistiche in nome dell’Italia all’estero, asserisce di avere tutti i permessi dei vari Ministeri e di voler parlare al commissario capo. Ma non succede nulla di quanto egli aveva sperato, si rifiutano di prendere in considerazione le credenziali di Grassi e, quanto al commissario, non lo possono svegliare, dicono, prima delle 6. Abbiamo proprio la certezza di essere in Italia. Incominciamo a salutarci perché qualcuno da Mestre va direttamente a Roma. E si riparte. Dell’arrivo a Milano è stato detto da tutti i giornali.

Sulla banchina della stazione milanese ci vengono incontro gli stessi amici che abbiamo lasciato allo stesso posto il 23 agosto. Moretti svanisce nella nebbia milanese prima che qualcuno si accorga di lui.

In pochi minuti, dopo qualche flash e una ripresa televisiva, la compagnia si disperde. La tournée è proprio finita.

Abbiamo percorso più di 10.000 chilometri (in treno, pullman, nave, aereo), abbiamo toccato 19 città in ben 7 Paesi stranieri, con una assenza di 55 giorni, durante i quali abbiamo partecipato a quarantun recite nei due spettacoli in programma Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni e Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello, ma siamo certi che quando torneremo a Roma, fra pochi giorni, per gli impegni che laggiù ci attendono, qualcuno ci chiederà: «Ma dove sè stato tutto ’sto tempo? Qui se lavora sul serio e tu te ne vai a girà co na compagnia!»

 

Antonio Battistella, Diario di un attore, “Il Dramma”, XXXII, 239-242, agosto-novembre 1956

 

 

Gianfranco Mauri. I ricordi di Brighella

Era il mio primo anno di teatro e Strehler mi affidò il ruolo di Brighella nell’Arlecchino servitore di due padroni.

Il caldo dell’estate, la fifa, ma soprattutto una terribile soggezione di Moretti mi paralizzarono. Dopo dieci giorni di prove non avevo fatto nessun progresso, e fui tentato più volte di abbandonare.

Sono certo che Moretti lo capì; mi chiamò in disparte durante una breve pausa e semplicemente mi disse: «Dacci sotto che ce la fai benissimo». Per tanti anni fui Brighella e amico di Marcello.

Londra 1958. Muore improvvisamente Ernestino, l’attrezzista che da anni con amore seguiva per il mondo Arlecchino.

La sera ci ripromettemmo di recitare per lui. Durante il primo atto mi accorsi che la parola “morto” era ripetuta non so quante volte. Nell’intervallo lo dissi a Moretti. Da prima si stupì di non averlo mai notato, poi, cogli occhi lucidi mi raccomandò: «Non dirlo agli altri!».

Los Angeles 1960. Alla fine della prima rappresentazione, solito via-vai di gente che voleva vederlo da vicino e festeggiarlo. Ritornata la calma, mentre stavamo per uscire, un distinto signore si presentò e, in un italiano quasi perfetto, si congratulò anche a nome di Carlo. Credevamo si trattasse di un suo parente o amico ma allorché insistette assicurandoci che il “Carlo” era veramente felice di come era stata messa in scena ed interpretata la “sua” commedia, comprendemmo di avere a che fare con un folle. La sera dopo eravamo tutti un po’ fiacchi (il disagio del viaggio che ci aveva portato dalle nevi canadesi ai trenta gradi all’ombra si fece sentire) e la rappresentazione, pur ottenendo il solito successo subì un calo. Alla fine, Marcello ci chiamò; disse che Carlo, probabilmente presente anche alla seconda, era stato un po’ deluso, ed il giorno seguente, dopo circa 500 repliche, Moretti era in palcoscenico a sudare con noi per un’ennesima prova.

 

Gianfranco Mauri in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

Raoul Consonni. Un cameriere musicista

Avevamo fatto la tournée europea, tutta la Jugoslavia, l’Austria… poi per Edimburgo, un’altra edizione dell’Arlecchino. Strehler l’aveva voluta diversa proprio per quella partecipazione al Festival di Edimburgo del 1956; era stata fatta una nuova scenografia con tendaggi scorrevoli a vista come il teatro in piazza. È stato proprio in quell’edizione che suonavamo anche, io accompagnavo con la chitarra la Bonati (Smeraldina) nella canzone Gero al bancheto che lavoravo… e Strehler mi disse: «Perché non suoni tu la chitarra?» e io mi mettevo intorno alla pedana, a vista, e accompagnavo la canzone di Smeraldina. Quando siamo partiti per la Russia c’erano poi, aggiunte alla chitarra, due trombe della Scala.

 

Raoul Consonni, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Relda Ridoni. Da Clarice a Beatrice

«Vorrei fare l’Arlecchino come una commedia musicale, tutta cantata» diceva Strehler. Chazalettes (Silvio) e io (Clarice) abbiamo insistito tanto per fare almeno dei pezzi cantati ed è nato così il duetto tra Silvio e Clarice. Era un’edizione molto bella, creata per la tournée di Edimburgo (1956) e con molte cose nuove: i duetti, le canzoni di Smeraldina accompagnate con la chitarra… Eravamo tutti giovani e le cose più belle si danno quando si è giovani perché c’è entusiasmo, forza dentro, esuberanza.

Quella era stata la nuova edizione, ma l’impatto più difficile l’ho avuto due anni dopo, quando sono passata dal ruolo di Clarice a quello di Beatrice, e pur conoscendo bene lo spettacolo, mi spaventava il passare dal ruolo di attrice giovane a quello di prima attrice anche perché avevo comunque ventiquattr’anni… Così Moretti e Battistella mi hanno “presa di peso” impostandomi il personaggio con la loro straordinaria professionalità e sensibilità; è stata una fenomenale lezione tecnico-pratica di lavoro teatrale. E quella Beatrice era veramente un fuoco d’artificio fatta a schizzi di stelle e il ritmo era una bellezza perché andava in crescendo fino ad esplodere pur mantenendo sempre una recitazione – diciamo – reale, vera, profonda per non perdere le parole, il senso delle frasi e del contenuto nella velocità.

 

Relda Ridoni, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Valentina Fortunato. Un fenomeno mai visto

Io avevo sentito parlare di questi applausi strepitosi che l’Arlecchino riceveva quando andava all’estero, però, un conto è sentirne parlare, altra cosa è assistere a questi applausi che non finivano mai, ci si stancava più a ringraziare che a fare tutto lo spettacolo. Il pubblico straniero ha una cultura teatrale diversa; si faceva lo spettacolo alle sette e le signore venivano con la borsa della spesa, andavano a fare la spesa e poi passavano da teatro. Il fatto è che l’Arlecchino è uno spettacolo unico, non esiste un altro spettacolo come questo. La gente si trova davanti ad un fenomeno mai visto anche se si è abituati al teatro.

 

Valentina Fortunato, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Lydia Alfonsi. La doppia anima di Beatrice

Ero arrivata all’Arlecchino nella stagione 1958/59, quando già lo spettacolo viveva di un successo clamoroso; mi chiamarono per fare Beatrice, c’era pochissimo tempo a disposizione, ma io dissi sì (…). È stata una grande emozione, la fatica non la sentivo proprio, la gioia di vivere di Beatrice superava la fatica dei viaggi e delle tournée. Così mi sono tagliata i capelli per poter mettere la parrucca, anzi mi volevo radere a zero. «Ma perché lo fai?» diceva Strehler. Quando uscivo vestita da uomo, mi fasciavo il seno, affinché uscisse prepotente quando Beatrice alla fine appare con i suoi abiti femminili.

Iniziammo le prove e lui ebbe la battuta più famosa della mia vita: «Sbagli tutto ma ha ragione tu!» E a me è rimasta lì, da scrivere sui muri (…).

L’Arlecchino mi ha lasciato un ricordo molto forte perché, forse per la prima volta, avevo un personaggio “doppio”. I personaggi sono sempre coerenti, “per bene”, quello invece era doppio. C’era una seconda anima dentro di me che veniva fuori ed era quella della forza fisica: mi metto la giacca dell’uomo e faccio lui, poi quella della damina del ‘700 e sono lei. Ci sono queste due sfaccettature straordinarie. Mi viene in mente l’Orlando della Woolf.

 

Lydia Alfonsi, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Narcisa Bonati. La maschera di Smeraldina

Strehler e Moretti stavano creando su di me un’altra idea di Smeraldina. La prima Smeraldina la facevano le “leziose” ed erano delle Smeraldine un po’ Colombine molieriane. Strehler era nel periodo in cui aveva fatto La trilogia della villeggiatura, Visconti La locandiera e ci si andava orientando sul distacco da certe maniere ottocentesche di interpretare Goldoni a favore di un realismo. Più si andava avanti, più la mia Smeraldina diventava la vera maschera, tanto è vero che all’inizio Strehler mi aveva detto: «Quasi quasi ti metto la maschera» e mi hanno messo la maschera di Arlecchino Gatto. Lui mi ha guardata: «No, no, toglila. Sei più maschera tu con la tua faccia!» Mi aveva fatto un gran complimento. Con l’andar del tempo – io l’ho fatto per sei anni, di cui quattro e mezzo con Moretti, il lavoro che facevamo con Marcello era di far diventare questa Smeraldina una ragazza del popolo, ma non volgare. Smeraldina non è un Arlecchino femmina, non è una Colombina, Smeraldina è Smeraldina.

 

Narcisa Bonati, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Giulia Lazzarini. Clarice attraverso gli Stati Uniti

Fino al 1960 non ho più rifatto l’Arlecchino; quell’anno veniva ripreso per la tournée in America e io sono tornata. Per quella tournée provavamo a Salò e già era stato cambiato qualcosa; era un Arlecchino con i carri fuori, con gli attori che entravano e uscivano, che vivevano anche fuori scena, già un Arlecchino rivisitato che risentiva del periodo brechtiano di Strehler e quindi era tutto molto in terza persona, estraniato e divertente (…).

In quella tournée del ‘60 abbiamo fatto un viaggio lunghissimo partendo da New York per poi andare a Philadelphia, Boston, Washington, Princeton, Los Angeles. Poi andammo in Canada e a Detroit, una città dove c’erano solo fabbriche di automobili e basta (…). E da Toronto, con i 30 gradi sotto zero, con pellicce eccetera siamo saliti in aereo e siamo andati a Los Angeles. Era fine aprile e lì la stagione era bellissima, faceva un caldo stupendo, mi sembrava una cosa da matti, inverosimile proprio, in poche ore eravamo passati da -30° ai + 27°. A fine tournée siamo arrivati a New York e, anziché prendere un aereo come si fa quando si finisce una tournée, siamo ritornati in treno e abbiamo trascorso tre giorni e tre notti – anche questo resta come un incubo nella mia mente – in treno. Saliti su un vagone letto, con ristorante – treni molto belli per carità – non siamo scesi più. Paolo Grassi era felicissimo di noi e quel viaggio in treno doveva essere un premio per farci vedere l’America attraversandola giorno e notte. A luglio, dopo quella tournée americana, siamo partiti per la Russia; a Leningrado ricordo che c’erano le notti bianche, doveva essere luglio. E poi Mosca. Pioveva, la città era molto grigia, quasi autunnale. Anche lì fu esaltante.

 

Giulia Lazzarini, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Gianrico Tedeschi. Un Pantalone milanese

Non riuscivo a capire perché Strehler mi chiedeva di fare Pantalone. Allora pensavo che per fare Pantalone bisognasse essere perlomeno veneziani e non milanesi purosangue come me, io poi non avevo mai interpretato le Maschere, un tipo di personaggio che ammiravo, ma che pensavo non mi appartenesse. Chiesi a Strehler come mai avesse pensato a me e lui mi disse che ideava un Pantalone non tradizionale, un Pantalone con delle caratteristiche che lui intuiva potessi avere. Questo mi fece capire che non basta che l’attore pensi a se stesso, che si guardi o che si studi dentro perché se ha un grande maestro – come può esserlo Strehler – riesce a scoprire delle note, delle caratteristiche e dei valori che non sa di avere. È lui che mi ha tirato fuori questo.

 

Gianrico Tedeschi, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Ezio Frigerio. La spiaggia di Arlecchino

Quell’edizione del ‘56 era veramente l’edizione della Giovinezza, eravamo tutti giovani: io, gli attori, Strehler. Strehler aveva voluto una certa campagna o meglio una spiaggia di mare con dei ruderi, probabile costruzione che doveva testimoniare un passato glorioso del Paese, voleva essere un piccolo riassunto formale dell’Italia. Davanti a questo simulacro di architettura c’era un piccolo palcoscenico, molto rustico, come se ne vedono spesso nelle stampe del ‘700 che documentano immagini della Commedia dell’Arte. Su questo palcoscenico fatto da piccole travi, c’erano due veri e propri paletti che sostenevano delle tele dipinte di gusto settecentesco e anche queste erano di uno stile molto naïf con dei rattoppi e delle mende come possono essere quelle che i Comici si costruiscono nelle pause del loro girovagare. Tutto questo avveniva su un tappeto che allora, ingenuamente, si voleva credere sabbia – adesso non lo farei mai più così ma all’epoca mi sembrava che rendesse abbastanza bene – e per riparare “il sole” dei proiettori c’erano delle tendine che si simulava fossero tirate verso il pubblico, come c’è in qualche rappresentazione del teatro della Commedia dell’Arte. E quel cielo azzurro, quella presenza della natura comunicava una certa gioia di vivere in chi vedeva lo spettacolo, la giovinezza.

 

Ezio Frigerio, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Rassegna stampa

Una gaiezza mozartiana

La Compagnia recita con maestria in questa atmosfera lieta e rivela doti di dizione precisa, agilità di movimenti e verve. L’esecuzione ha una gaiezza mozartiana, musicale più nell’essenza che nella forma, ed ha arricchito il Festival di una serata tra le più entusiasmanti e vive che si ricordino. L’incanto scaturisce dalla integrità e della purezza dello stile teatrale di cui sentiamo tanto parlare al giorno d’oggi, ma raramente abbiamo la fortuna di vedere con i nostri occhi. Persino l’elemento farsesco, preponderante, è stilizzato (…).

Questa esemplare interpretazione di Arlecchino si vale della abilità e disciplina di tutta la Compagnia e dell’efficace guida di Giorgio Strehler. Tutti hanno meritato la festosa accoglienza che il pubblico entusiasta ha loro riservato questa sera.

 

“Times”, 28 agosto 1956

 

Arlecchino, personaggio comico universale

Superba la scena in cui Arlecchino fa l’inverosimile servendo due pranzi, essa rappresenta il non plus ultra italiano dei giuochi di prestigio ed il trionfo della pantomima, per merito soprattutto di Marcello Moretti. Egli è non solo il Padre di tutti i “servitori”, ma l’originale “Zanni” che porta in trionfo uno spettacolo di farsa col suo abito di ritagli, la maschera e il cappello bianco… lo ritroviamo personaggio comico universale…

 

“The Manchester Guardian”, 28 agosto 1956

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