Arlecchino servitore di due padroni

1952. Seconda edizione

1952. Seconda edizione, detta “della maschera di Arlecchino”

Arlecchino ha ormai cinque anni di vita che sono serviti ad approfondire le tecniche ritrovate dei Comici dell’Arte. Ora le scene di Gianni Ratto definiscono con più eleganza le linee stilizzate e fantasiose del primo allestimento con un po’ di realismo in più: il piccolo palcoscenico è quello di un teatrino dei comici del Settecento. Ebe Colciaghi ridisegna i costumi e Arlecchino indossa per la prima volta la maschera a forma di gatto creata da Amleto Sartori; inoltre, nel settembre 1955 viene ripreso dalla Rai-Radio Televisione Italiana. Sono iniziati i viaggi per tutto il mondo, dalla Scandinavia a Berlino, quasi ripercorrendo gli itinerari degli attori italiani di un tempo.

Personaggi e interpreti

Pantalone Antonio Battistella
Clarice Adriana Sivieri
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Nino Cestari
Beatrice Lia Zoppelli
Florindo Aretusi Raoul Grassilli
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Vittoria Martello
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Giulio Bosetti

Scena di Gianni Ratto
Costumi di Ebe Colciaghi
Musiche di Fiorenzo Carpi
Maschere di Amleto Sartori

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Roma, Teatro Quirino, 17 aprile 1952

Riprese

1952

Dopo una tournée che tocca, tra le tante città, anche Siena, Firenze, Milano, Parigi, Torino, Parma, Bergamo, Varese, Piacenza, Brescia, Mantova, Padova, Trieste, Treviso e Venezia, in ottobre lo spettacolo ritorna nella città lagunare con la seguente distribuzione:

Pantalone Carlo Bagno
Clarice Adriana Sivieri
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Nino Cestari
Beatrice Lia Zoppelli
Florindo Aretusi Antonio Pierfederici
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Vittoria Martello
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Giulio Bosetti

Venezia, Teatro La Fenice, 14 ottobre 1952

1953

Pantalone Agostino Contarello
Clarice Adriana Asti
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Nino Cestari
Beatrice Lia Zoppelli
Florindo Aretusi Achille Millo
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Marina Bonfigli
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Giulio Bosetti
Camerieri Camillo Milli, Antonio Cannas

Parigi, Théâtre Marigny, 3 marzo 1953

La tournée prosegue a Copenaghen, Göteborg, Stoccolma, Oslo, Bologna e Milano, per concludersi in settembre a Berlino con la seguente distribuzione:

Pantalone Agostino Contarello
Clarice Adriana Asti
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Nino Cestari
Beatrice Edda Albertini
Florindo Aretusi Achille Millo
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Vittoria Martello
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Marcello Bertini
Un facchino Antonio Cannas
Camerieri Camillo Milli, Antonio Cannas

Berlino, Hebbel Theater, 4 settembre 1953

1954

È l’anno della prima tournée sudamericana di Arlecchino, che prende avvio a Buenos Aires con la seguente distribuzione:

Pantalone Tino Carraro
Clarice Marisa Perciavalle
Il Dottor Lombardi Armando Alzelmo
Silvio Roberto Villa
Beatrice Lia Angeleri
Florindo Aretusi Giorgio De Lullo
Brighella Ferruccio De Ceresa
Smeraldina Stella Aliquò
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Franco Graziosi
Un facchino Ottavio Fanfani
Camerieri Giulio Chazalettes, Franco Pattenati

Buenos Aires, Teatro Odeón, 4 giugno 1954

Le repliche proseguono a Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro e Venezia.

1955

Pantalone Tino Carraro
Clarice Giulia Lazzarini
Il Dottor Lombardi Checco Rissone
Silvio Giulio Chazalettes
Beatrice Edda Albertini
Florindo Aretusi Achille Millo
Brighella Franco Parenti
Smeraldina Vittoria Martello
Arlecchino Marcello Moretti
Un cameriere Franco Graziosi
Un facchino Ottavio Fanfani
Camerieri Raoul Consonni, Roberto Pistone

Vienna, Burgtheater, 14 giugno 1955

Lo spettacolo è replicato a Monaco di Baviera, Zurigo, Berna, Fiume, Spalato, Sarajevo, Novi Sad, Belgrado, Zagabria, Lubiana, Capodistria, Cremona e Livorno.

Il 23 settembre Arlecchino viene inoltre trasmesso dalla Radiotelevisione Italiana.

Strehler ne parla

L’attore e la maschera

Le prime maschere di carta

La conquista della “maschera” fu, per tutti e per Marcello, un cammino progressivo che si urtò contro un numero impreciso di fatti: dalla mancanza di una tradizione viva, quindi di una abitudine mentale e fisica, alla mancanza di tecnica, vera e propria, di “strumenti” idonei.

Gli attori della prima edizione dell’Arlecchino recitarono con povere maschere di cartone e garza, a strati sovrapposti. Le costruimmo si può dire, con le nostre mani, giorno per giorno. Erano maschere “infernali”, scomode, dolorose. Le parti in rilievo penetravano ben presto nella carne, la visibilità era relativa e distorta. Applicate com’erano strettamente al viso, con un sistema di elastici primitivo, prive di flessibilità, le maschere non permettevano alle palpebre di muoversi. Le ciglia dell’attore urtavano contro i bordi e facevano lacrimare gli occhi, in un pianto perenne e segreto. Gli attori, ognuno per conto suo, incominciarono allora ad imbottirle con strani guanciali di ovatta, fissata all’interno con del cerotto. Così la parte interna delle maschere assunse un aspetto affatto poetico. Durante l’uso, poi, il sudore degli attori penetrava nel cartone a poco a poco e scioglieva la compattezza della maschera. Alla fine dello spettacolo, tenevamo tra le mani alcuni straccetti neri gocciolanti, che solo all’indomani riprendevano una certa forma e consistenza.

Esisteva anche il dramma personale degli attori che con la maschera non si “sentivano”. Per un fenomeno psichico l’attore con il viso coperto sentiva meno se stesso ed i compagni. Inoltre, gli sembrava di essere “inespressivo”; gli era stata tolta un’arma potente: il gioco facciale. L’attore doveva ancora conquistare la “mobilità” della maschera. Doveva “reinventare” anche in questo una tradizione sepolta e che nessuno poteva più insegnarci.

Marcello Moretti si dipinge la maschera sul viso

Marcello, in questa prima edizione dell’Arlecchino, finì per recitare la sua parte senza maschera. Aveva brutalmente risolto il problema dipingendosi la maschera di nero sul viso. Era più comodo, soprattutto per lui, in eterno movimento, ma era anche il sintomo più segreto della resistenza dell’attore alla maschera.

La maschera è un istrumento misterioso, terribile. A me ha sempre dato e continua a dare un senso di sgomento. Con la maschera siamo alle soglie di un mistero teatrale, riaffiorano i demoni, i visi immutabili, immobili, estatici, che stanno alle radici del teatro. Ci si accorse, ad esempio, ben presto, che l’attore, sulla scena, non può toccare la maschera con un gesto consunto (mano sulla fronte, dito sugli occhi, coprirsi il viso con le mani). Il gesto diventa assurdo, inumano, sbagliato. Per ritrovare la sua espressione, l’attore deve indicare il gesto con la mano, non compierlo “realisticamente” sulla maschera. La maschera insomma non sopporta la concretezza del gesto reale. La maschera è rituale. In questo senso ricordo che ad un certo punto, durante gli applausi finali avevo indicato agli attori di apparire finalmente al pubblico a viso scoperto. Per non perdere tempo tra una chiusura di sipario e la successiva apertura, gli attori si smascheravano e gettavano in quinta la propria maschera. A poco a poco furono gli attori stessi, prima a raccogliere le maschere appena possibile poi ad imparare un modo per togliersele e tenerle in mano o alte sulla fronte. E da allora non ho più vista una sola maschera gettata in un canto, anche nel camerino. Essa ha troneggiato sempre in mezzo alla natura morta del tavolo da trucco, al posto d’onore.

Marcello non mise allora la maschera perché non poteva metterla, ma anche perché diceva: “si perderebbe il gioco dell’espressione. Del resto – continuava – tutti gli attori, prima di me, hanno fatto così”. E mi portava fotografie, più antiche, in cui ciò che diceva era avvalorato dai fatti.

Il maestro mascheraio Amleto Sartori realizza per Arlecchino le prime maschere di cuoio

Solo a poco a poco la maschera fu accettata. Grazie soprattutto ad Amleto Sartori, questa cara creatura teatrale che riprese dal nulla, appena sollecitato da noi, una tecnica perduta nel tempo: quella dei maestri mascherai del Cinque, Sei e Settecento. Egli scolpì e costruì le sue prime maschere in cuoio, dopo innumerevoli tentativi.

Erano maschere ancora pesanti e notevolmente rigide, ma erano costruite da una materia fondamentale: il cuoio. Pur non incorporandosi ancora con la pelle umana tuttavia aderivano più dolcemente, erano consistenti ed abbastanza lievi. “La ga da esser come un guanto!” diceva Amleto, ma il guanto era ancora lontano da venire. La visione delle maschere nello spazio cominciò a convincere gli attori e Marcello. La teoria, poi, di Sartori, circa l’Arlecchino che può avere la maschera tipo “gatto”, tipo “volpe”, tipo “toro” (sue definizioni di comodo per diverse espressioni fondamentali delle maschere) interessò, infantilmente, Marcello che la volle (la sua prima) da “gato” perché “el xe più agile!”. Come non intenerirsi nel ricordare questo gioco, sul filo del grande teatro, sul filo della grande vita! Così Marcello si coprì per la prima volta con la maschera bruna “tipo gato” per poi passare al tipo volpe, e per finire (conquista!) ad un tipo fondamentalmente originale, di zanni primitivo, addolcito naturalmente dalla cadenza stilistica del Servitore di due padroni di Goldoni.

E fu lui il primo per tutti a scoprire la “mobilità” della maschera. Scoprì che la bocca, con la maschera, diventava assai più importante che a faccia nuda. Appena sottolineata da una riga bianca, la bocca che usciva dalla parte inferiore del viso mascherato, mobile e viva, acquistava un valore espressivo incredibile. Scoprì da solo alcune inclinazioni espressive della maschera che io catalogai e che segnarono un punto di partenza per un lavoro che poi indicai agli attori, con pazienza, nel tempo. Ormai la maschera l’aveva “posseduto”. Una sera Marcello, uomo pudico, segreto e solitario, mi disse che gli pareva ormai di sentirsi nudo senza maschera.

Recitare con la maschera

Fu in quel momento che Marcello, conquistato dalla maschera, si “liberò” da ogni impiccio e, “protetto” da essa, si lasciò andare al personaggio. Dietro la maschera, Marcello, timido (come tutti gli attori, e lui in maggior misura di altri), poté far rifluire tutta una vitalità, una fantasia non “realistica” ma ancorata tuttavia ad una sua interiore natura popolare, e seguire quel processo di riscoperta e arricchimento che io stesso dal mio canto stavo facendo, sul problema della Commedia dell’Arte, rinata in mezzo a noi, quasi per miracolo.

Sono convinto ancora oggi che Marcello si sentì finalmente libero da tanti impacci (complessi, vogliamo dire, oggi?) che lo legavano anche nel suo lavoro di commediante, soltanto dietro al suo personaggio mascherato. Trovò la libertà nella costrizione, la fantasia nello schema più rigido e rappresentò così “la parte più viva” di sé. Lo ricordano i suoi compagni e il pubblico quel suo viso “vero” che emergeva, alla fine dello spettacolo, dalla maschera? Era un viso estatico, pieno veramente di luce, un poco smarrito, appena appena sorridente, con un sorriso enigmatico. Lo si ritrova identico, spaventosamente identico, in certe immagini di antichi Comici dell’Arte. È un viso pulito, disponibile, un viso tutto da fare. Il viso dell’attore.

Marcello si ferì due volte al ginocchio, durante la famosa scena del baule e fu operato al menisco, come certi nostri baldi bruti che ci fanno delirare nei pomeriggi domenicali. Recitò per sere e sere con un ginocchio impossibile e recitò “dopo” l’operazione, trascinando un poco la gamba, più per un trauma psicologico che per una ragione fisica, almeno in un secondo tempo.

Io so che, da allora in poi, trascinò sempre, per sempre dico, la sua gamba ferita, un poco. Era un modo impercettibile, che mi ha sempre stretto il cuore di una tenerezza profonda ed inespressa. Con gli anni, in questo ultimo anno soprattutto, il suo fisico si era indebolito. Certa levità dell’atteggiamento si era a poco a poco perduta, certa velocità senza fatica, certa continuità dinamica. Ci fu un critico che in mezzo agli elogi più alti se ne accorse, affettuosamente, a New York. Era Kenneth Tynan, mi pare, che ricordando l’edizione di anni prima, vista a Edimburgo, notò che il personaggio era più approfondito ma il gioco del pranzo gli era sembrato più lento, meno travolgente di allora. Ed era vero. Nascosi allora a Marcello il giornale e credo che da allora in poi nessuno glielo abbia mai fatto vedere. Fu un tacito accordo di affetto da parte di tutti i compagni. Uno di quei piccoli gesti di solidarietà umana che ti legano al nostro mondo di teatranti più di mille successi, di mille sere felici.

Giorgio Strehler, In margine al diario, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

Le maschere di Amleto Sartori: il mestiere della poesia

Parlare delle maschere di Amleto Sartori è parlare di una amicizia antica, di un lavoro comune, di scoperte comuni che segnarono un lontano periodo della mia vita e che ritornano oggi in rimpianto assai vivo. Rimpianto non di avere perduto la giovinezza, ma un compagno come Sartori, sparito troppo presto e troppo brutalmente.

Pure non so rintracciare, oggi, con precisione, come ci incontrammo, Sartori ed io, tanto tempo fa. So soltanto che un certo giorno ci trovammo nel suo studio a Padova, a parlare di teatro e della “maschera a teatro”.

A quel tempo molti di noi, giovani registi, (ed io forse più degli altri) eravamo quasi ossessionati da certi problemi del “teatro gestuale” che noi, allora, chiamavamo semplicemente “mimico”.

Educare il corpo alla recitazione: l’esperienza con Étienne Decroux, Jacques Lecoq, Marise Flach

I rapporti del corpo nello spazio, il senso del movimento espressivo, del gesto, del “silenzio” animato ci stavano davanti pieni di interrogativi e di misteri. Era quella, l’epoca delle lezioni di Étienne Decroux che per primi invitammo al Piccolo Teatro e che ci apparvero subito sconvolgenti. Ancora oggi penso a quegli anni con Decroux, alla scuola del Piccolo, e poi con Marise Flach, sua allieva diretta e con Jacques Lecoq, come a momenti fondamentali per la mia formazione teatrale e non soltanto per la mia; per quella di una mezza generazione di teatranti. Tutto il teatro di poi è stato segnato dalla esperienza-predicazione di Decroux. Per gli esercizi “con maschera” (praticavamo molto intensamente anche innumerevoli esercizi “senza maschera”, a viso nudo) Sartori preparò una maschera di base famosa e sconosciuta per ignoranza ai più, anche se addetti ai lavori, e che secondo me resta il suo capolavoro, la “maschera neutra”, cioè una maschera “senza espressione”. Il gesto, il corpo, la situazione, il rapporto con altri corpi e movimenti dovevano da soli dare un senso ed un sentimento alla maschera estatica, assorta e limpidamente vuota, inventata da Sartori. Fu quella una fatica intellettuale, una ricerca formale svolta ai limiti dell’impossibile poiché subito, dato il tema, ci accorgemmo della difficoltà assoluta nel realizzarlo.

La maschera “neutra” di Amleto Sartori

Una maschera che doveva rappresentare l’assenza. Sartori fece innumerevoli tentativi e mi ripeté più volte che la conquista della maschera definitiva di cui io posseggo ancora un esemplare e che spesso metto davanti a me sul tavolo per crearmi il silenzio, gli costò uno sforzo, una concentrazione e una “severità” di segni (proprio di severità parlò) assai più che tutte le altre sue opere di scultura. “Forse – mi disse – è stata la cosa più difficile che ho affrontato”. E, infatti, l’ultimo esemplare di questa maschera, poi riprodotto più volte in cartone (per ragione di spesa e di tempo) era stato preceduto da decine di altri esemplari diversi e meno “puri”. Altro aggettivo che ritornava nei suoi discorsi di allora. Fu uno spettacolo bellissimo, indimenticabile, il vedere, su un tavolo di contro ad una ampia vetrata nello studio di Sartori, qualcosa come venti maschere “alla ricerca del neutro”, dentro le quali passava l’ombra di un sorriso, il cenno di una perplessità o di una tristezza o altro, per poi, a poco a poco verso le ultime, diventare solo trasparente “viso umano”, fermato nell’attimo del vuoto. O quasi.

Questa maschera noi l’adoperammo per anni, e proprio con questa, una sera, Étienne Decroux ci mostrò, per la prima ed ultima volta, la “levitazione” di un corpo umano. Veramente, per un attimo, Decroux, con la maschera neutra di Sartori ed anche grazie ad una perfetta coordinazione di ogni ganglio nervoso ed ogni fascio muscolare del suo corpo e con una concentrazione così assoluta da mettere quasi paura, restò davanti a noi spettatori attoniti, “sospeso nello spazio” immobile. Attimo che ci sembrò eterno.

Certo questa maschera non fu però l’inizio della ricerca di Sartori su un mestiere d’arte così antico e così perduto. Esso è invece datato al tempo della prima rappresentazione dell’Arlecchino servitore di due padroni al Piccolo, cioè il 1947.

La creazione delle maschere per Arlecchino

Amleto ci preparò le sue prime maschere di cuoio, precedute da moltissimi “disegni” che egli ci inviava per renderci partecipi della sua ricerca. Sartori pensava ed accentuava in qualche modo certi “caratteri” animaleschi rintracciabili nella maschera dello Zanni ed offriva con le sue variazioni una certa scelta all’attore che in quel momento si rifiutava ancora alla maschera perché ne aveva paura. Moretti scelse la maschera “tipo gatto”. E da allora si recita per sempre con la maschera e da allora noi tutti incominciammo un lungo lavoro per riscoprire la maschera e l’avventura della Commedia d’Arte. Dico riscoprire perché si trattò di reinventare una tecnica sconosciuta per noi attori, la tecnica appunto della commedia all’improvviso con la maschera sepolta, con tutti i suoi comici, su pochi e incerti documenti, qualche quadro, qualche intuizione. E niente altro. Ma prima fu Sartori a “riscoprire” la tecnica del “fare maschere”, anch’essa scomparsa, nei suoi termini poetici ed artigianali. Per fare quelle prime maschere in cuoio Sartori compì un lavoro faticoso, a ritroso nel tempo, senza precedenti, senza “maestri”, per tentativi. Dallo stampo al cuoio, al metodo di lavoro del cuoio, alla sostanza della maschera stessa. Le prime maschere in cuoio, infatti, risultarono “troppo dure”, ferivano il viso, e solo lentamente Sartori riuscì a produrre maschere molto più morbide e molto più flessibili. Fu così che nel nostro lavoro di commedianti avemmo vicino per un lungo tempo un artista grande e semplice, umano e generoso come Sartori che ci inviava o ci portava lui stesso, avvolte in carta di riso come regali di Natale, i suoi piccoli capolavori “artigianali” piovuti dai secoli sulle tavole di un palcoscenico contemporaneo.

Quanta sapienza, quanto amore e quanta umiltà c’è dietro alle “maschere” di Sartori! Quale lezione di professionalità, quella professionalità che non esclude il poetico, ma anzi spesso lo determina, per tanti teatranti che credono di avere scoperto il nuovo teatro identificandolo con una specie di vacanza dalla responsabilità e dalla fatica quotidiana. Credo che proprio attraverso il lavoro di Sartori oltre che il nostro, il teatro moderno per anni fece più suo il tema antichissimo della maschera e cercò di svolgerlo anche se non sempre correttamente, prima di dimenticarlo di nuovo o pressappoco. I non numerosi esempi di oggi e i pochi artisti di oggi che si dedicano al “lavoro della maschera” sono tutti, direttamente o indirettamente, debitori di Amleto Sartori che, da tanto lontano, seppe ritrovare un filo spezzato e riannodarlo per il futuro. Dunque, tutto ciò che si è fatto e si può fare per ricordare la presenza nel teatro contemporaneo di un uomo di teatro così semplice e profondo, oltre che uno scultore così vivo e ricco quale Sartori, sarà sempre poco. Molto poco a confronto di ciò che egli ci ha dato e lasciato come un pegno di fedeltà e di amore per il teatro e la vita.

Giorgio Strehler, Il “mestiere” della poesia, in Alberto Marcia, La Commedia dell’Arte nelle maschere di Sartori, Firenze, La Casa Usher, 1980

Abbandonarsi alla felicità di Arlecchino

Recitato per la prima volta dal Piccolo Teatro nel corso del suo primo anno di vita, Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni (da noi poi chiamato Arlecchino servitore di due padroni, per indicare più chiaramente ai pubblici stranieri il carattere della commedia) è diventato, a poco a poco, il segno della continuità ideale del nostro lavoro e al tempo stesso una bandiera. Sette anni fa, il nostro Arlecchino segnava, in Europa, alla fine di una sanguinosa guerra che aveva ceduto il suo inevitabile debito di sconforto e di disperazioni per tanti, il ritrovamento di alcuni eterni valori di poesia e al tempo stesso di un messaggio di fiducia per gli uomini, attraverso la liberazione del riso più aperto, del gioco più puro. Era il teatro che, con i suoi attori, ritornava (o tentava di ritornare) alle fonti primitive di un avvenimento scenico dimenticato, attraverso le vicende della storia, e indicava un cammino di semplicità, di amore e di solidarietà ai pubblici contemporanei. Era il teatro che riscopriva (se così si può dire) una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte, non più come un fatto intellettuale, ma come un esercizio di vita presente, operante. Questo forse fu il punto che più chiaramente distinse la nostra fatica da quella di tanti altri interpreti che ci avevano preceduto sulla stessa strada.

Proprio in questo senso di vitalità, non letteraria ma reale, in questo voler ricostruire idealmente, prima tra di noi commedianti, un mondo più solidale – il mondo di una “Compagnia” dell’arte – e poi nell’“inventare” un gioco d’arte ogni sera assieme al pubblico, in un accordo felice e abbandonato, il nostro lavoro acquistò allora, e mantiene oggi – pur in mutate contingenze – un suo valore morale ed estetico di cui non possiamo che essere orgogliosi.

Difficile opera questa di gettarsi all’indietro nel tempo, per noi comici contemporanei, nel favoloso mondo di un’avventura teatrale, legata ad esili trame, a complicate storie giocate tutte sul gesto e sulla parola dell’interprete e quindi bruciate da tempi immemorabili, polvere di palcoscenico da secoli. È pericoloso esercizio tentare una tecnica teatrale ricchissima di mezzi espressivi, di eclettismi, di padronanze fisiche e vocali. Ci siamo trovati nel vuoto ed abbiamo dovuto compiere le nostre acrobazie senza rete di protezione. Abbiamo insomma dovuto “reinventare” dentro di noi qualcosa, al di là della cultura e della storia. In questa fatica ci ha sorretto una vena sotterranea che credevamo quasi estinta per sempre: un abbandono italico al ritmo, all’invenzione immediata, al gesto mimico, all’iperbole dell’immagine, insieme a un classico rigore – e sono rifluiti in noi antichi umori che non si erano perduti, attraverso le generazioni teatrali.

Così, per noi è nato Arlecchino servitore di due padroni e questo per noi ha voluto e vuole significare. Ma al di là di tutto ciò, per il pubblico, Arlecchino servitore di due padroni è e deve essere puro divertimento che il nostro grande Carlo Goldoni (ben più grande altrove che qui, certo) prima di avviarsi sul difficile cammino della “riforma” ha voluto lasciarci, a memoria di un’epoca favolosa ed estinta, con un garbo ed una misura ritmica ammirevoli.

Il mondo degli equivoci si muove vertiginosamente attorno alla figura misteriosa ed eterna di Arlecchino. Si varcano qui i limiti del logico e del possibile. L’assurdo nella sua forza più piena ed assoluta entra sul palcoscenico e non spaventa. Anzi ci trasporta in un mondo più facile, in cui tutti i nodi si sciolgono e infine ci trascina nell’empireo del grande teatro comico che è tutto un inno gioioso di liberazione e di felicità di esistere.

Abbandonarsi a questa “felicità”, senza peso e senza tempo, è tutto quello che noi chiediamo a noi stessi e a coloro che ci ascoltano.

Sappiamo che quando un tale miracolo avviene si accende, se pur per un attimo, nel nostro cuore una scintilla che lascia la sua incancellabile traccia di calore e di umanità.

Giorgio Strehler, dal programma di sala Il Piccolo Teatro in America Latina, 1954

Video

Alcuni frammenti dello spettacolo, trasmesso dalla Rai Radiotelevisione Italiana il 23 settembre 1955

Documenti

Amleto Sartori. Arlecchino indossa la sua maschera

Vidi per la prima volta Marcello [Moretti, ndr] al Piccolo. Si provava allora L’amante militare di Goldoni, ed io ero là appunto per portargli la prima maschera di Arlecchino, fatta appositamente per lui. Giorgio Strehler ci presentò ed io gli provai la maschera. Per Giorgio e per me andava bene, per lui no. E lo disse sbottando, poco dopo, durante la prova. Era furibondo come un puledro selvaggio al quale fosse stata imposta per la prima volta la briglia. «Non si può recitare con questo coso sul muso, mi ammacca, non ci vedo…» e sbatté la maschera a terra.

Io mi offesi; ci fu un litigio, che Giorgio interruppe per continuare la prova. Finita questa ci riconciliammo; Marcello spiegò il suo punto di vista, io il mio e si cominciò a considerare il problema della maschera, credo, come mai fin’allora si era fatto (…).

Marcello mi fece notare che, specie nelle maschere primitive degli Zanni, il foro degli occhi era di un diametro molto piccolo, e che se questi occhi conferivano alla maschera un interessante aspetto animalesco, toglievano d’altro canto, o riducevano al minimo, la visibilità. Da questo nacque la necessità di movimenti successivi rapidissimi, ordinati in una successione grosso modo di questo genere: prendere possesso visivo del campo d’azione; guardare ai propri piedi per fare continuamente il punto e per non incappare in un qualsiasi ostacolo; compiere il movimento nello spazio e nel tempo minimo. Date queste necessità, ne risultava un incedere a scatti e balzi, sottolineato da un movimento degli arti e della testa quasi meccanico.

A questi movimenti Marcello diede un ritmo e un ordine, per cui il personaggio venne man mano cristallizzandosi entro un’architettura precisa, dove ogni particolare era dimensionato e ricondotto all’universale, di cui egli aveva una prodigiosa intuizione.

Vedendolo e ripensando con lui, trovammo la conferma di tale intuizione nelle vecchie stampe ed in genere in tutta la iconografia arlecchinesca. Difatti il personaggio è continuamente colto in movimenti simile ai fotogrammi di un balletto, la cui successione era stata intuita da Marcello.

Amleto Sartori, Ricordi intorno a una maschera, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

Ruggero Jacobbi. Da tigre a gatto

Un successo pazzesco, materiato di un enorme stupore, fu quello di Marcello [Moretti, ndr] quando lo spettacolo di Strehler arrivò in Brasile nel ‘54. Fu allora ch’ebbi tutta la rivelazione del mistero: che, dico, ne vidi la compattezza. Con la maschera sul volto (io l’avevo lasciato alla lustrosa maschera nera dipinta nel ‘47), Marcello era diventato davvero “la tigre di Bergamo” che il suo avo Antonio Sacchi si vantava d’essere nei panni di Truffaldino. Grave operazione zoologica, questa, con influssi festosi e scattanti su tutta la rinnovata mimica del corpo: riassorbito dalla natura, Arlecchino ridiventa realtà, nei secoli dei secoli. Ma la realtà naturale scagliata nella compagine sociale – nelle sue convenzioni, ivi compresa quella del teatro – diventa allegra denuncia, diventa un fatto rivoluzionario. Questa era la più forte delle scoperte di Strehler: l’animale nascosto in Moretti, quale reincarnazione della concreta realtà animalesca che è il personaggio, Arlecchino. E il calcolo magico: quanto più tigre, più sarà uomo. Quanto più quest’uomo si addolcirà, tanto più la tigre ritroverà la misura e il passo del gatto. Senza uscire dalla natura: anzi provocando il colloquio fra Natura e Storia (…). Marcello faceva le mille cose che i suoi tremila critici hanno descritto a sazietà. E gli spettatori stranieri diventavano matti. Era arrivato lo spettacolo all’italiana che avevano sempre sognato sui libri; ma era arrivato in una misura nuova, che toglieva a quel sogno libresco ogni patina di falsa raffinatezza, ivi compresa quella che lo stesso spettatore aveva ingenuamente accarezzato in se stesso.

Ruggero Jacobbi, Meditazione su un mito e su una biografia, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962, Quaderni del Piccolo Teatro, 4

Adriana Asti. Cento lire ad applauso

Lo spettacolo era particolarmente travolgente, era veramente uno spettacolo sublime perché poi chissà cosa aveva fatto Strehler… aveva creato e avvicinato questo mondo magico della Commedia dell’Arte. Strehler l’aveva proprio reinventato, e in maniera straordinaria, aiutato da quell’essere soprannaturale che era Moretti. (…) Io? Io facevo Clarice, ero all’inizio della mia carriera. Nel 1952, Paolo Grassi, che stava sempre tra le quinte, mi dava cento lire per ogni applauso che prendevo a scena aperta.

Adriana Asti, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Achille Millo. Una macchina perfetta

Quando sono entrato nell’Arlecchino, lo spettacolo era già collaudato… ritmi, velocità, tempi comici. Dovevi entrare in qualcosa che era già montato, una macchina in corsa, se ne rimanevi fuori ti stritolava. Io allora giocavo molto a pallone e alla prima prova mi sono detto: “Va beh, qui devo essere pronto a ricevere i passaggi degli altri” che mi arrivano da tutte le parti. La difficoltà più grande era data dalla lingua: non capivo il veneto e all’inizio non riuscivo a capacitarmi sui tempi in cui dovevo entrare in scena. (…) Arlecchino era Moretti. Strehler ha creato lo spettacolo: una macchina perfetta. Ci divertivamo molto e facevamo a gara per avere successo, per “inventare” sempre qualcosa, per ottenere una risata. È stata una scuola, Strehler è un maestro in questo! (…) Il periodo di prove con Strehler è una cosa che un attore o un uomo di teatro non può dimenticare perché Strehler inventa, crea… Le intuizioni poetiche che si hanno in palcoscenico sono irripetibili e lui ti mette nelle condizioni di esprimerle.

Achille Millo, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Marina Bonfigli. La simbiosi tra Strehler e Moretti

L’Arlecchino è stato un caso fortunato di un regista e di un attore che si sono trovati in assoluta simbiosi e che hanno messo l’uno al servizio dell’altro la propria straordinaria capacità e inventiva. Strehler la sua genialità teatrale e Moretti una ricchezza e una interiorità straordinarie, un livello di bravura, sensibilità, umanità e atleticità: Marcello volava in scena, sbalorditivo. E faceva piangere anche, era impareggiabile e mi dispiace pensare che c’è gente che non l’ha visto.

Marina Bonfigli, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Tino Carraro. La maschera, una corazza

Fare Pantalone, un personaggio con la maschera, mi piaceva molto, molto di più di Florindo. Recitare con la maschera dà un certo… è come quando uno combatte con la corazza, è pressappoco questo e si recita molto bene perché il viso non “dà pensieri” di espressione e allora si cerca di illuminare la maschera con la voce e la parola.

Tino Carraro, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Giulia Lazzarini. Clarice da Vienna alla Jugoslavia

Nell’Arlecchino sono entrata molto presto, nel 1954. Avevo fatto un’audizione al Piccolo Teatro per fare Ania nel Giardino dei ciliegi di Čechov, poi un’audizione con Visconti per fare La rosa tatuata; è arrivato prima Visconti (…). Il Piccolo mi ha ripescata nell’estate del ‘54 perché doveva fare una tournée a Vienna al Burgtheater, a Monaco e poi in Jugoslavia. Abbiamo cominciato a Fiume e da lì con una piccola nave che si chiamava Partisanka, di cui Paolo Grassi era fierissimo, abbiamo fatto la costa dalmata; era bellissimo, ho un ricordo stupendo. La Partisanka poi era una specie di zatterone – e a lui chissà cosa sembrava… – con su tutti contadini e donne con foulard fino alle orecchie con fuori solo la punta del naso e con dei grossi fagotti e noi lì con loro, proprio come nella barca dei comici, andavamo verso Spalato e Dubrovnik. È stata una tournée bellissima ed è stato il mio primo impatto con l’Arlecchino e con Giorgio Strehler, che allora seguiva le tournée con Paolo Grassi. Ricordo questi arrivi stupendi alle sei o sette del mattino dopo una notte passata in treno e quando si arrivava c’erano già a riceverci le delegazioni delle città che ci ospitavano con fiori e doni. Non erano quegli arrivi un pò anonimi, c’era un’anima diversa, uno spirito diverso. I viaggi stessi erano qualcosa di straordinario… Ricordo Fiume, quei grandi alberghi desolanti e poi Vienna, dove sembrava che la guerra fosse finita il giorno prima ed è stata per me – allora poco più che ventenne – un’esperienza stupenda. Era veramente uno scambio di cultura (…). Di questo Arlecchino ho un’immagine incredibile e di Moretti soprattutto, perché è stato, per me, magico. Moretti era un genio. E l’Arlecchino l’aveva costruito in tanti modi, dal nulla. È stato per lui come domare – io penso – un puledro, domarsi fino ad accettare poi la maschera che nasconde e quindi toglie ogni pudore e fa sì che tu riesca ad essere come in confessione. È un atto liberatorio che ti purifica ogni sera. Ed è poi quello che è capitato a me quando facevo Ariel.

Giulia Lazzarini, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Rassegna stampa

Un perfetto Arlecchino plebeo e canagliesco

Strehler ha cominciato col ricreare la tradizionale scena delle maschere col palco rialzato fiancheggiato da quinte girevoli e chiuso da fondali scorrevoli che gli attori, entrando, tiravano di volta in volta come tende. In questo scenario schematico gli attori hanno fatto meraviglie recitando con uno slancio, un brio, un affiatamento stupendi che non hanno dato respiro allo spettatore sorprendendolo e divertendolo con la girandola del loro sorprendente gioco. Moretti è stato il trionfatore della serata. Il suo Arlecchino è perfetto. Frutto di una sensibilità e di un’intelligenza che testimoniano dell’intima, felice collaborazione fra regista e attore, non somiglia certo a quello sgambettante e lezioso che siamo abituati a vedere nelle rare apparizioni che talora fa sulla scena; è plebeo, buffonesco, rozzo, stordito, astuto, indiavolato, pavido, temerario, infantile e canagliesco come ci è stato tramandato dalle fonti più autorevoli. La sua mimica, la sua vitalità, la sua diavoleria, che animano tutto lo spettacolo, lo sostengono, lo rendono vario e allegro, culminano nell’acrobatico tour de force del doppio pranzo servito ai due padroni.

Ermanno Contini, “Il Messaggero”, 18 aprile 1952

Una sarabanda vertiginosa

Ottenuto dallo scenografo Gianni Ratto un palcoscenico minuscolo sul palcoscenico reale, con scene di seta leggera da far scorrere su anelli, con quinte girevoli a comando, su questo spazio angusto – che alla fine si è dilatato fino alla platea, per il vertiginoso inseguimento del fuggiasco Arlecchino – ha fatto muovere, correre, saltare, agitare i suoi bravissimi attori, abbandonandosi ad una serie di trovate che, per quanto fossero calcolate al millimetro e preordinatissime, avevano tutte il sapore dell’invenzione estemporanea: invenzione inesauribile, colma di sorprese imprevedibili per lo spettatore, ritmata da un tempo “mozzarespiro”, senza la minima pausa, senza la più piccola debolezza. Di qui una sarabanda vertiginosa che ha coinvolto prepotentemente gli spettatori dal primo all’ultimo minuto, obbligandoli ad un autentico entusiasmo tradotto in più di quaranta chiamate. Ed anche quando la commedia s’è conclusa, Strehler ha continuato ad inventare deliziosi quadretti che avevano la grazia raffinata delle porcellane di Sèvres insieme con la robusta ironia di quelle di Capodimonte.

Gaetano Carancini, “La Voce Repubblicana”, 19 aprile 1952

“Lo spettacolo è meraviglioso”, firmato Bertolt Brecht

La prima rappresentazione ha dato la misura del successo: uno spettatore pignolo ha potuto contare fra applausi a scena aperta e chiamate a fine atto ben 73 manifestazioni di caloroso consenso. Assai pochi, tra il pubblico, coloro che sapessero la nostra lingua; numerosi, invece, i giovani col testo tradotto sottobraccio, e ben nota la pièce che Max Reinhardt mise in scena per un pubblico tedesco la prima volta trent’anni fa. La seconda e la terza rappresentazione ripeterono e superarono il successo della prima: 37 volte, l’ultima sera, si succederono le chiamate, e alla fine, quando già era chiusa la pesante saracinesca, si dovette aprire ancora una volta lo sportello perché quei giovani biondi con gli occhi accessi, quei signori attempati cui per tradizione si vuole attribuire misura e riservatezza, potessero vedere ancora una volta Marcello Moretti, l’indiavolato Arlecchino.

In sala era presente Bertolt Brecht, il grande drammaturgo che dirige ora a Berlino Est il Berliner Ensemble e che mai negli ultimi anni aveva attraversato la linea di demarcazione tra le due città; la sua presenza e quella di Jehring, Chief Dramaturg al Deutsches Theater di Berlino Est, confermò, sia pure soltanto per una sera, che Goldoni non conosce frontiere, nemmeno le più polemiche. A fine spettacolo arrivò a Grassi un biglietto di Brecht: «Das Spiel ist wunderfoll», lo spettacolo è meraviglioso.

Michele Tassoni, “La Sera”, 23 settembre 1953

Gli spettatori tornano bambini

[Giorgio Strehler] ha giustificato la sua inclusione nel repertorio, dicendo che quest’Arlecchino segnava in Europa, dopo una guerra sanguinosa, l’inizio di una nuova epoca. Era un messaggio di fiducia e di speranza agli uomini ancora in preda dello sconforto e della disperazione. Era un appello alla liberazione attraverso il riso più aperto e il giuoco più puro (…). Lo si vede questo fresco e gaio infantilismo nel secondo atto, quando Arlecchino deve servire contemporaneamente la mensa dei due padroni e nel terzo quando confonde il contenuto dei due bauli. Ed è quello che il pubblico dell’Odeon ha festeggiato con maggior rumorosità arrivando a battere le mani a scena aperta, come fanno i bambini dinanzi al giocattolo che desta la loro ammirazione ed esaudisce le loro speranze.

I commedianti del Piccolo Teatro hanno giocato la farsa in una forma veramente encomiabile, dimostrando un affiatamento non comune. Recitazione vertiginosa, conservando negli atteggiamenti un po’ il carattere dei burattini, mantenendola in una luce di armonia, di eleganza e di bellezza. Commedia d’assieme nella quale ogni componente ha il suo valore, sia piccola o lunga la parte, furono tutti quanti all’altezza del loro compito. È stato quello dell’altra sera un esito collettivo, la qualcosa non impedisce affatto che sia emerso in linea principale Marcello Moretti che ha fatto di Arlecchino una straordinaria creazione, conservando il carattere della maschera e alternando tra l’attore e il pagliaccio, tra il mimo e l’acrobata in una dosificazione perfetta. È un attore di un dinamismo straordinario.

Vittorio Mosca, “L’Italia del Popolo – Buenos Aires”, 6 giugno 1954

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