Otto in un tema d’italiano? Al Parini? A metà degli anni Cinquanta? C’era da fare capriole di gioia. A me è capitato. Il tema era «Uno spettacolo che vi ha particolarmente colpito»: avevo appena visto la prima edizione del Nost Milan di Strehler. E chi se le dimentica quelle scene nebbiose, grigie, squallide di Damiani, le cusin economich, il lungo tavolo sbieco, pieno di scodelle, le scritte alle pareti, i lampioni ondeggianti, le figurine degli avventori curve, infagottate, il ruvido Carloeu el Togasso di Carraro, la straziante Nina di Valentina Fortunato.
Passano due mesi e in cartellone compare L’opera da tre soldi di certo Bertolt Brecht. A quindici anni che ne potevo sapere di Brecht? Ma l’otto in italiano era lì, sotto gli occhi. Decido di andarci, comunque. È il 10 febbraio del 1956. Quattro ore, forse cinque di spettacolo. Un’eternità che dura un minuto. Esco sbalordito, sconvolto, esaltato. Uno shock.
Intanto le scene. La prima, l’antro di Peachum. Una cornice di stracci, stoffe, corde, funi, stanghe, bastoni. Sul fondo uno schermo, due ruote luminose che girano ogni tanto. Un sipario che si leva a metà altezza dal boccascena. Dall’alto pendono arti artificiali, scritte, cartelli, slogan, abiti sfilacciati, divise. Al centro un baraccone per il lancio di palle con manichini del Kaiser, principi, ufficiali. Un fantastico caos variopinto, un guazzabuglio di curiosissimi oggetti di misteriosa provenienza. La seconda, un farneticante garage dove si mescolano attrezzi meccanici e oggetti di un lusso assurdo, un lampadario a gocce, un grammofono a tromba, paraventi, divanetti, quadri, mazzi di fiori, un’automobile con all’interno un letto, il letto nuziale di Mackie Messer, una tavola imbandita con candelieri. Nell’ultima un grande cavallo di ghisa su un alto piedistallo, luogo della mancata esecuzione. E i costumi? Sghembi, sformati, scoloriti, fuori misura, o troppo larghi o striminziti, strampalati accessori, improbabili cappelli per gli uomini, assurde cuffie per le donne con piume spennacchiate, nastri, pizzi, per i mendicanti abiti sbrindellati, per le prostitute sottovesti, lustrini, trucchi sfatti, per i banditi bretelle, pagliette, vecchi frac (vanno al matrimonio del loro capo, perbacco!).
Ma quello che ancora oggi ricordo come fosse ieri è il cast. C’era il gotha del Piccolo Teatro con alcuni ospiti d’onore che comparivano per la prima volta. Intanto il prologo, cantato da Ottavio Fanfani. Un organetto e quella sua voce secca, aspra, metallica: «Mostra i denti il pescecane / e si vede che li ha». Poi Peachum. La prima volta è Mario Carotenuto, due anni dopo gli succede Buazzelli. Carotenuto è un Peachum allegro, impudente, sguaiato, spassoso, insolente. Buazzelli è cinico, laido, turpe, ripugnante, odioso. Il primo ha una voce sonora, ampia, il secondo acuta, irritante. Si muovono tutti e due pesantemente, con i loro corpi massicci, sdraiandosi scomposti sulla sedia del loro antro, davanti a una vecchia calcolatrice. La signora Peachum è Giusi Dandolo: una comicità stralunata, gesti dinoccolati, toni che dal basso profondo salgono ad acuti squillanti. Due le scoperte assolute: Milly e Checco Rissone. Milly veniva dall’operetta, dal cabaret anteguerra: il suo ritorno da quel 1956 in poi sarà leggendario. Sia nella Canzone di Jenny dei Pirati, sia nella Ballata del magnaccia resta insuperabile: due brani che sono poi entrati a buona ragione nel repertorio dei suoi recital successivi. Piccola, magra, scattante, con una voce morbida, scura, musicalissima, un fascino d’antan che nessuna soubrette può imitare. Milly fu la vera trionfatrice della serata. Non meno travolgente Rissone: in coppia con Carraro, nella Canzone dei cannoni avanzava verso il proscenio con aria minacciosa, baffi neri, a passo di marcia: «Soldati e bombe / cannoni e trombe / piovesse oppure no / ci si svagava un po’». Seguivano applausi irrefrenabili. E i finali, con l’intera compagnia, prostitute, banditi, mendicanti al proscenio, banda sgangherata, arruffata? Uno per tutti, quello del secondo atto, intonato da Jenny e da Mackie, Prima la trippa e poi vien la virtù!. Per un quindicenne era una grande novità anche la denuncia dell’eterna combutta tra mafie e potere, lo sfruttamento della miseria, la speculazione, la corruzione della giustizia. Ma, sopra tutto e tutti, c’era il grandioso trionfo della fantasia registica strehleriana.
Fausto Malcovati, 10 febbraio 1956: L’opera da tre soldi, incontrare Brecht a quindici anni, “Hystrio”, settembre 2021