L’anima buona di Sezuan

1958

Il sessantesimo anniversario della nascita di Bertolt Brecht è l’occasione per Strehler di un ulteriore passo in avanti sulla strada del rigore epico, intrapresa nel 1956 con L’opera da tre soldi; la scelta cade ora su un testo del drammaturgo tedesco non ancora rappresentato in Italia: L’anima buona di Sezuan.
Imposta lo spettacolo con grande severità e purezza, alla ricerca di una limpida semplicità didattica. Le scene di Luciano Damiani e i costumi di Ezio Frigerio giocano sui toni del bianco e del grigio, con il colore lasciato a esclusivo appannaggio degli dèi. Enorme importanza viene data all’illuminazione, candida, quasi gessosa, in cui risalta la figura umana.
Fondamentali sono il lavoro con gli attori e una teatralità realizzata con mezzi che possano apparire “primitivi” nella loro poetica artigianalità: così la “fuga” degli elementi scenici che, mediante l’uso di carrelli, “scappano” di fronte alla richiesta di Wang di un alloggio per le tre divinità, oppure la trasformazione a vista, con maschera e abito nero che le deforma il corpo con le sue imbottiture, della protagonista Shen Te nello spietato cugino Shui Ta.

Personaggi e interpreti

Primo dio Cesare Polacco
Secondo dio Ottavio Fanfani
Terzo dio Andrea Matteuzzi
Shen Te / Shui Ta Valentina Fortunato
Wang Marcello Moretti
Yang Sun Franco Graziosi
La signora Yang Paola Borboni
Shu Fu Enzo Tarascio
Mi Tzü Deli Pezzinga
Il poliziotto Antonio Cannas
La vedova Shin Gabriella Giacobbe
L’ex padrona Donatella Gemmò
L’ex padrone Gianfranco Mauri
Il nipote Gian Carlo Dettori
La nipote Relda Ridoni
Il fratello zoppo Raoul Consonni
La cognata incinta Delia Bartolucci
Il nonno Giovanni Carrara
Il ragazzo Massimo De Vita
Il vecchio tappetaio Arrigo Cominotto
La vecchia tappetaia Elvira Betrone
Il falegname Armando Alzelmo
Il disoccupato Roberto Pistone
La prostituta vecchia Rina Cucco
Il bonzo Gaetano Fusari
Il cameriere Ettore Gaipa

Scene di Luciano Damiani
Costumi di Ezio Frigerio
Musiche di Paul Dessau
Direzione musicale di Gino Negri
Maschere di Amleto Sartori
Collaborazione mimica di Marise Flach
Regista assistente Virginio Puecher
Assistenti alla regia Juan de Prat GayGilberto Tofano
Orchestra: Anania Battagliola, Filippo Daccò, Luigi Giuduci, Ferruccio Gonizzi, Giacomo Manzoni, Andrea Poggi, Gastone Tassinari.

Testo di Bertolt Brecht
Traduzione di Pucci Panzieri e Giorgio Strehler
Regia di Giorgio Strehler

In alcune recite il ruolo del Falegname è interpretato da Ettore Gaipa; quello del Cameriere da Gilberto Tofano.

Milano, Piccolo Teatro, 22 febbraio 1958.

Documenti

Valentina Fortunato. Una delle più grandi parti femminili del teatro moderno

Il personaggio di Shen Te nell’Anima buona di Sezuan è particolarmente difficile perché richiede all’attrice una preparazione tecnica e artistica specialissima. Questa parabola drammatica, come Brecht stesso l’ha definita, esige una tecnica di recitazione epica, ma nello stesso tempo una carica di umanità per i valori tradizionali, direi quasi cecoviani, che essa contiene.
Ho cominciato a studiare Shen Te con la gioia e il grande amore che si provano affrontando le grandi parti. E penso che questa sia una delle più grandi parti femminili del teatro moderno, una delle più ricche e più profonde.

Valentina Fortunato, “Sipario”, gennaio 1958

Siegfried Melchinger. In prova con Giorgio Strehler

Il mondo che nasce qui [nel cortile del Piccolo Teatro, durante la costruzione delle scenografie per lo spettacolo, ndr] non vuol rendere giustizia all’illusione di una Sezuan reale e sicuramente autentica. Esso si compone di elementi di questa realtà, i pali telegrafici e le baracche di legno, ma, già nel laboratorio, si muta in mondo teatrale secondo la visione dell’opera che il regista ha trasmesso allo scenografo e che ha ricevuto il primo abbozzo nello studio di Strehler. Seduto alla lunga scrivania, sotto la maschera mortuaria di Brecht che è appesa alla parete, egli aveva meditato col giovane Luciano Damiani sugli innumerevoli schizzi che ora stanno ammonticchiati in enormi pile sulle scansie.
Questo mondo non nasce in un unico giorno di creazione. L’immagine che si delinea deve prima essere interpretata e chiarita. Un tempo si riteneva che una strada di Sezuan dovesse assomigliare il più possibile alla strada di una città cinese e costituire, nello stesso tempo, un’appropriata cornice per gli avvenimenti e le azioni che si susseguono sulla scena. Oggi, almeno per quello che riguarda Strehler, la cornice viene minutamente studiata, ma l’immagine si modella su una nuova, già interpretata realtà, poiché deve rendere lo stile dell’opera ed elevarsi a simbolo.
[…] Così Strehler e Damiani crearono la loro Sezuan. Capanne grigie, costruite a mano, con tetti di lenzuoli bianchi, tutto avvolto nel cemento, ma per così dire armonizzato, fino a diventare accordo, dal bianco che ritorna ovunque; e che accordo perfetto, questo bianco col grigio! […]
Strehler passa ore e ore a illuminare la scena. Il capo degli elettricisti siede accanto a lui al microfono e trasmette i comandi sul ponte. In platea, sotto al soffitto e dappertutto, stanno appesi a guisa di grappoli i riflettori, che si accendono e si spengono. Alcuni registi provano finché non hanno trovato l’illuminazione giusta. Strehler ha in testa l’illuminazione giusta e prova finché la vede realizzata. Queste sono prove di pazienza e di nervi. […]
L’attrezzatura, poi! Tutto fatto in casa, a mano! Il buon vecchio macchinario dei miracoli. E senza un briciolo di magia bengalica! Ma mosso da quanta fantasia! Subito all’inizio, quando l’acquaiolo cerca un rifugio per la notte agli dei in viaggio sulla terra, e viene buttato fuori da ogni porta, Strehler fa sì che le case stesse fuggano davanti al poveretto che corre intorno disperatamente, in modo che debba trovarsi davanti a quella, illuminata da una lanterna, della povera Shen Te. E poi questa casa si sposta in avanti. Ai richiami dell’acquaiolo vediamo salire una luce: una lampada a petrolio appare nella finestrella, la cui tendina fluttua indietro, e poi la testa della ragazza. L’idea della lampada saltò fuori alle prove. Prima si era messa in mano a Shen Te una lampadina tascabile, ma Strehler gridò: «Poesia, poesia!». La lampada a petrolio è già diventata un elemento poetico. […]
Strehler va raramente sul palcoscenico per far vedere agli attori come devono fare. Probabilmente teme che lo possano copiare. Va su e giù per la platea e si immerge nella recitazione di una scena in modo incredibilmente affascinante. Egli è nonno e ragazza, fanfarone e barbiere, Dio e Shen-Te, madre e ribelle. Egli non dice solo il testo di Brecht, ma si immerge in una sequela di parole in cui diventa evidentissimo ogni significato; si rivolge a immaginari interlocutori in platea, ha gli occhi semichiusi e afferra cose che non ci sono.

Siegfried Melchinger, Giorgio Strehler und die moderne Regie, “Stuttgarter Zeitung”, 1 marzo 1958

Arturo Lazzari. Uno spettacolo tutto rigore, semplicità, purezza

Sulla strada del rigore epico brechtiano un ulteriore passo avanti fu compiuto da Strehler con L’anima buona di Sezuan di Brecht, 22 febbraio 1958. Tutto nello spettacolo era rigore, semplicità, purezza, tutto era essenziale, cristallino. Lo spettacolo era bagnato di luce candida, dentro cui risalto enorme assumeva la figura umana. Solo nel finale, colorati erano gli dei, che scendevano nella capitale del Sezuan, in Cina – che come dice Brecht simboleggiava tutti i luoghi dove gli uomini sono sfruttati dagli uomini – portati da una rosea nube. I tre personaggi, in bianco, arrivavano subito all’inizio, dopo che il personaggio di Wang l’acquaiolo aveva spiegato al pubblico chi egli fosse […]. «Sono l’acquaiolo Wang, qui, nella capitale del Sezuan» diceva l’attore in scena, dopo che s’era spalancato il sipario a due ante basse, tutto costruito con canne di bambù, sul quale stava scritto il titolo dell’opera. Di bambù era il pavimento del palcoscenico, su cui si alzava di poco un grande praticabile dove si svolgeva l’azione. Aveva vesti poverissime, l’acquaiolo, di foggia vagamente orientale, non realistiche, ma soltanto indicative di una condizione sociale; felice, egli sapeva che tre dei sarebbero arrivati, e ne aspettava gran bene per sé e la città. E gli dei comparivano, per mettere alla prova i cittadini di Sezuan: chiedevano alloggio per la notte, e Wang voleva aiutarli, mostrare come tutti, lì, fossero buoni. Ma appena egli si avvicinava alla casa di questo o di quello, l’elemento scenico che silhouettava la casa scappava via verso destra o verso sinistra, e Wang a corrergli dietro, invano. La sequenza della rincorsa dell’alloggio, fin dall’inizio, dava una chiara idea dello spettacolo, come teatralità realizzata con mezzi che apparivano primitivi, di un artigianato teatrale che si denunciava apertamente come tale mettendosi al servizio, nella sua estrema semplicità indicativa, della vicenda.

Arturo Lazzari, Piccolo Teatro di Milano 1947-1967, Milano, Industrie Grafiche Italiane Stucchi, 1967

Ettore Gaipa. Un continuo tormento e una continua ricerca

Strehler stesso curò la revisione e l’adattamento della traduzione, apprestata nella sua prima stesura da Pucci Panzeri. Egli intendeva, in tal modo, essere già vigile e presente nell’atto stesso che il linguaggio brechtiano prendeva forza nella nostra lingua, e provarne quasi di battuta in battuta la sua risonanza nella sua sensibilità. Egli si dedicò con cura estrema alla diversificazione dei tre piani fondamentali di tale linguaggio (il prosaico delle scene normali, quello dei melologhi e quello dei song), fissando già sulla pagina i fatti fondamentali di ritmo che gli davano già la cadenza esatta di quello che sarebbe stato lo spettacolo.
Laboriosi, gli incontri con Damiani ed Ezio Frigerio, e coi i suoi assistenti e collaboratori, durante la fase preparatoria. Laboriosa, soprattutto, la definizione della Cina brechtiana quale essa traspare dal testo: una Cina che non fosse luogo allusivo e simbolico, come simboli non dovevano essere i personaggi, né certe situazioni.
Laboriosa, infine, la preparazione degli attori, fra i quali faceva il suo ingresso al Piccolo Teatro Paola Borboni che, nel ruolo della Signora Yang, doveva dar vita a una delle sue più indimenticabili creazioni. […]
Strehler profuse le sue migliori energie nell’edizione dell’opera brechtiana. Che, forse, fu quella che maggiormente lo impegnò e lo affaticò […]. Forse mai come durante la preparazione dell’Anima buona di Sezuan fu più vicino a una crisi e a un collasso. Il ritrovamento di un equilibrio e di una quadratura di spettacolo, che indicassero e centrassero al cento per cento i problemi agitati da Brecht e mediati attraverso un linguaggio e un messaggio poeticamente raggiunto attraverso una piena maturità, ma anche denso di infinite riserve mentali dovute alla sua natura di uomo in mezzo a uomini, e di uomo che, affrontando il problema della bontà, non riesce a convincersi che essa debba inevitabilmente soccombere in un mondo come oggi è il nostro, fu per Strehler un continuo tormento e una continua ricerca; eppure, accanto a lui, cedimenti, resistenze, insufficienze di uomini e di mezzi espressivi rendevano quanto mai ardui questa ricerca, e il lavoro stesso. Quasi a difesa di una tradizione di tecnica drammatica, e a sostegno di una difficoltà di acclimatazione al metodo brechtiano, gli attori opponevano, il più delle volte inconsapevolmente, un loro patrimonio di esperienze che, necessariamente, occorreva, sì, non accantonare, ma comunque superare. Più ancora che nell’Opera da tre soldi e nello stesso Coriolano, un cedimento anche parziale poteva equivalere a compromettere il risultato generale. E Strehler, impegnato in una battaglia disperata, rischiò di fermarsi e di cedere di schianto alla fatica.
Sono ancora vive nei collaboratori le lunghe discussioni notturne, nel suo studio, di fronte alla serie infinita e progressiva degli schizzi di Frigerio per il costume-base di Shen Te, e la sua disperazione, nelle albe rigide di quel febbraio milanese, quando dovevano ammettere che dieci minuti ancora li avrebbero cambiati in spettrali sonnambuli incapaci di una frase sensata. E il senso di sollievo, nel momento in cui, dallo sforzo collettivo, il costume cominciò a delinearsi, nella sua semplice linea, quasi una tuta, di un grigio calcinato, a cui un semplice grembiule, usato nelle scene dell’interno della tabaccheria, dava quel tanto di stacco “ufficiale” nei confronti degli altri personaggi. E il nero costume di Shui Ta, con mostruose imbottiture che forzavano le linee del corpo di Valentina Fortunato, protagonista, e ne facevano un raggelante robot, dalla rigida maschera sorridente e crudele.
Contro un cielo di calcina si stagliavano le baracche del misero quartiere dove Shen Te accoglie i tre dèi girovaghi, e dove ha inizio l’avventura della bontà verberata e della cattiveria necessaria. Di volta in volta ogni quadro scopriva altri angoli di tale grigio agglomerato di cemento e di legno, o si allargava in oasi di pace fittizia (il giardino dove fiorisce il suo amore per l’aviatore Sun, il cortile della locanda dove si svolge la squallida festa di nozze), per chiudersi nell’ossessivo quadro della fabbrica di tabacco, dove tutti i personaggi, ormai asserviti a Shui Ta, trascinavano pesantemente al ritmo scandito da Sun con la Canzone dei dodici elefanti, gravi carrelli carichi di balle di tabacco. E si concludeva con il giudizio e con la nuvola rosa che riportava i tre dei nelle loro abitazioni celesti, in un tripudio di inni liturgici, a contrasto con la disperata e vana invocazione di aiuto della protagonista.
Neri i costumi della gente benestante, degli sfruttatori, dei ricchi. In tutte le gradazioni del grigio, gli altri. Coloriti fino all’estremo, e con i segni delle antiche maschere rituali cinesi, i tre dèi, quando apparivano all’acquaiolo Wang; così come umanamente distrutti e stracciati apparivano nella presentazione delle varie fasi del loro viaggio sulla terra.

Ettore Gaipa, Giorgio Strehler, Bologna, Cappelli, 1959

Rassegna stampa

Una regia continuamente illuminata da sprazzi di genialità

La regia di Strehler è stata fra le più lineari, rigorosamente stilistiche della sua vasta attività, continuamente illuminata di sprazzi di genialità; la corrispondenza con le affascinanti musiche di Paul Dessau è abile e suggestiva, il coro dei tre dèi gode di un grottesco di grande efficacia, così affondato nei colori della leggenda; la scena del cementificio, nella quale gli operai spingono i carrelli carichi al suono della Canzone degli elefanti, commentata dal tamburo di Sun, è di una rapidità registica eccezionale: e tutto, nei toni di certi attori, nel grigio luminoso e incorporeo delle scene, nel ritmo lento, nitido e scorrevole, è allontanato in una pace fredda e infelice. […]
Non diremo mai abbastanza bene di Gino Negri che ha diretto le musiche di Paul Dessau […]. Bellissime le scene di Luciano Damiani (il loro grigio povero e severo) e la dinamica scenotecnica sulle costruzioni di Colombo e Broggi […]. Altrettanto felicemente riusciti i costumi di Ezio Frigerio.
Veniamo dunque al lavoro degli attori. A Valentina Fortunato è stata affidata la duplice parte della protagonista Shen Te e del cugino Shui Ta. Le parti, bellissime, ripagano la giovane attrice della lunga modestia che le ha fatto interpretare, nel corso di questa stagione, personaggi di gran lunga sproporzionati alle sue qualità. Nella parte di Shen Te ella ha usato una dizione miagolante, sottile, che così bene si adatta a quel delicato surrealismo effervescente di cemento del mondo in cui agisce il personaggio; è stata, questa di Shen Te, l’interpretazione più difficile, affidata, come è, soltanto a un sottile e duro filo di sensibilità. L’altra, l’interpretazione di Shui Ta, è più facile, in quanto una donna in veste maschile ha più largo modo di sfruttare il “carattere”, ma è molto più affascinante: i momenti in cui Shui Ta appare in scena sono sempre quelli che esercitano sul pubblico la maggiore suggestione: ella, con quell’esile voce, ha qui creato un personaggio romantico, strano e malinconico, nella sua fredda malvagità: «la fatica che costa esser malvagi».
La parte della signora Yang, madre di di Sun, è stata svolta da Paola Barboni con l’intelligenza, unita a esperienza ed estro, che conosciamo in questa bravissima attrice dalle intuizioni interpretative così moderne particolarmente adatte a intendere le difficili esigenze di una recitazione come quella di Brecht.
Sun, l’ex aviatore amato da Shen Te, è stato interpretato da Franco Graziosi. Abbiamo osservato da molto tempo questo giovane attore, e questo suo ultimo lavoro ci ha dato, felicemente il modo di confermargli le buone qualità che gli vengono riconosciute.
Marcello Moretti, nella parte dell’acquaiolo Wang, è stato fra gli attori che hanno sopportato il peso maggiore dello spettacolo: anch’egli intelligentemente compenetrato dalle esigenze del teatro di Brecht, ha sviluppato l’umile patetico della sua parte con un dominio sicurissimo dei mezzi espressivi.

Icilio Ripamonti, “Avanti!”, 23 febbraio 1958

Uno spettacolo ricco di ritmo, di naturalezza, di armonia

Convinto dell’assurdità della divisione dei generi, Brecht ha inserito nell’Anima buona di Sezuan anche song, cori, e melologhi; ha fatto commentare l’azione da qualche personaggio e dagli stessi interpreti principali; ha fatto sì che spesso gli attori si rivolgano direttamente al pubblico; è ricorso alla musica per creare l’atmosfera di favole e per dare all’azione teatrale quella complessità di spettacolo in senso vasto che fa parte della sua poetica. Tanto più apprezzabile è dunque lo sforzo della regia di dare unità a un’opera che, se nel suo “messaggio” non presenta particolari difficoltà di interpretazione, è invece difficilissima da realizzarsi, come tutto il teatro brechtiano.
Strehler ha dato vita a uno spettacolo di altissima levatura, ricco di ritmo, di naturalezza, di armonia. Saggiamente sono state ammorbidite le parti declamatorie, come un paio di melologhi di sapore progressista inevitabilmente e fastidiosamente retorici; la stessa scena che vorrebbe essere l’apoteosi ironica dello sfruttamento dell’uomo, il lavoro degli operai ritmato dal tamburo, è stata concepita con il ritmo del balletto e si apprezza più per la sua precisa spontaneità che per il sottinteso sociale.
Valentina Fortunato, dolcissima, candida e tenera nella parte della fanciulla e fredda e scostante nel ruolo del padrone malvagio, ha dato una prova mirabile; il Graziosi, l’aviatore senza cielo, ha saputo creare un personaggio “narrato” di grande efficacia e di tono perfetto; l’acquaiolo Wang, Marcello Moretti, ha dato un tocco di calda umanità e di autentica poesia alla sua calda figura di buon popolano; la Borboni ha narrato la sua parte con caricaturale vivacità. I tre sono stati, come voleva il testo, ironiche marionette.
Belle le musiche di Dessau; splendide le scene di Damiani che hanno creato, in una sinfonia di bianchi sporchi e teneri grigi, una precisa atmosfera di allegorica favola. In una parola, uno spettacolo di prim’ordine.

Alberto Sensini, “La Tribuna”, 2 marzo 1958

Un poema brechtiano di coerente perfezione espressiva

Giorgio Strehler ha qui dimostrato il suo genio di regista, costruendo, in una lenta, inesorabile unità, un poema brechtiano di coerente perfezione espressiva.
La tenerezza di Shen Te e l’aspra anima di Shui Ta si sono spalancate e chiuse nella duplice prospettiva recitante di Valentina Fortunato, attrice ormai di grande, singolare rilievo: la sua recitazione, sia delle parti metafisiche che liriche, non è solo conquista tecnica, ma espressione d’una intelligenza meditativa e consapevolmente drammatica.
Sui piani evocativi delle scene di Luciano Damiani, si muovono fra colori tonali, spezzati talvolta dalla luce accecante, funzionale ed echeggiata, gli altri personaggi del dramma interpretati da attori come Marcello Moretti, l’acquaiolo – di riverberi sottilmente angelici; Paola Borboni – ritrovata in una immediata recitazione, degna della migliore tecnica del teatro contemporaneo, dominata da una sicura finezza di rapporti scenici; e poi Franco Graziosi – impennato e sciolto nella sua mistificata grandezza di giovane aviatore e di “ragazzo di vita”.

Salvatore Quasimodo, “Tempo”, 13 marzo 1958

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