Strehler stesso curò la revisione e l’adattamento della traduzione, apprestata nella sua prima stesura da Pucci Panzeri. Egli intendeva, in tal modo, essere già vigile e presente nell’atto stesso che il linguaggio brechtiano prendeva forza nella nostra lingua, e provarne quasi di battuta in battuta la sua risonanza nella sua sensibilità. Egli si dedicò con cura estrema alla diversificazione dei tre piani fondamentali di tale linguaggio (il prosaico delle scene normali, quello dei melologhi e quello dei song), fissando già sulla pagina i fatti fondamentali di ritmo che gli davano già la cadenza esatta di quello che sarebbe stato lo spettacolo.
Laboriosi, gli incontri con Damiani ed Ezio Frigerio, e coi i suoi assistenti e collaboratori, durante la fase preparatoria. Laboriosa, soprattutto, la definizione della Cina brechtiana quale essa traspare dal testo: una Cina che non fosse luogo allusivo e simbolico, come simboli non dovevano essere i personaggi, né certe situazioni.
Laboriosa, infine, la preparazione degli attori, fra i quali faceva il suo ingresso al Piccolo Teatro Paola Borboni che, nel ruolo della Signora Yang, doveva dar vita a una delle sue più indimenticabili creazioni. […]
Strehler profuse le sue migliori energie nell’edizione dell’opera brechtiana. Che, forse, fu quella che maggiormente lo impegnò e lo affaticò […]. Forse mai come durante la preparazione dell’Anima buona di Sezuan fu più vicino a una crisi e a un collasso. Il ritrovamento di un equilibrio e di una quadratura di spettacolo, che indicassero e centrassero al cento per cento i problemi agitati da Brecht e mediati attraverso un linguaggio e un messaggio poeticamente raggiunto attraverso una piena maturità, ma anche denso di infinite riserve mentali dovute alla sua natura di uomo in mezzo a uomini, e di uomo che, affrontando il problema della bontà, non riesce a convincersi che essa debba inevitabilmente soccombere in un mondo come oggi è il nostro, fu per Strehler un continuo tormento e una continua ricerca; eppure, accanto a lui, cedimenti, resistenze, insufficienze di uomini e di mezzi espressivi rendevano quanto mai ardui questa ricerca, e il lavoro stesso. Quasi a difesa di una tradizione di tecnica drammatica, e a sostegno di una difficoltà di acclimatazione al metodo brechtiano, gli attori opponevano, il più delle volte inconsapevolmente, un loro patrimonio di esperienze che, necessariamente, occorreva, sì, non accantonare, ma comunque superare. Più ancora che nell’Opera da tre soldi e nello stesso Coriolano, un cedimento anche parziale poteva equivalere a compromettere il risultato generale. E Strehler, impegnato in una battaglia disperata, rischiò di fermarsi e di cedere di schianto alla fatica.
Sono ancora vive nei collaboratori le lunghe discussioni notturne, nel suo studio, di fronte alla serie infinita e progressiva degli schizzi di Frigerio per il costume-base di Shen Te, e la sua disperazione, nelle albe rigide di quel febbraio milanese, quando dovevano ammettere che dieci minuti ancora li avrebbero cambiati in spettrali sonnambuli incapaci di una frase sensata. E il senso di sollievo, nel momento in cui, dallo sforzo collettivo, il costume cominciò a delinearsi, nella sua semplice linea, quasi una tuta, di un grigio calcinato, a cui un semplice grembiule, usato nelle scene dell’interno della tabaccheria, dava quel tanto di stacco “ufficiale” nei confronti degli altri personaggi. E il nero costume di Shui Ta, con mostruose imbottiture che forzavano le linee del corpo di Valentina Fortunato, protagonista, e ne facevano un raggelante robot, dalla rigida maschera sorridente e crudele.
Contro un cielo di calcina si stagliavano le baracche del misero quartiere dove Shen Te accoglie i tre dèi girovaghi, e dove ha inizio l’avventura della bontà verberata e della cattiveria necessaria. Di volta in volta ogni quadro scopriva altri angoli di tale grigio agglomerato di cemento e di legno, o si allargava in oasi di pace fittizia (il giardino dove fiorisce il suo amore per l’aviatore Sun, il cortile della locanda dove si svolge la squallida festa di nozze), per chiudersi nell’ossessivo quadro della fabbrica di tabacco, dove tutti i personaggi, ormai asserviti a Shui Ta, trascinavano pesantemente al ritmo scandito da Sun con la Canzone dei dodici elefanti, gravi carrelli carichi di balle di tabacco. E si concludeva con il giudizio e con la nuvola rosa che riportava i tre dei nelle loro abitazioni celesti, in un tripudio di inni liturgici, a contrasto con la disperata e vana invocazione di aiuto della protagonista.
Neri i costumi della gente benestante, degli sfruttatori, dei ricchi. In tutte le gradazioni del grigio, gli altri. Coloriti fino all’estremo, e con i segni delle antiche maschere rituali cinesi, i tre dèi, quando apparivano all’acquaiolo Wang; così come umanamente distrutti e stracciati apparivano nella presentazione delle varie fasi del loro viaggio sulla terra.
Ettore Gaipa, Giorgio Strehler, Bologna, Cappelli, 1959