El nost Milan

1979. Seconda edizione.

Strehler riprende con estrema fedeltà El nost Milan, nato nei fertilissimi anni Cinquanta del Piccolo Teatro e, proprio nella proposta di questo esercizio della memoria, a un’attualità disorientata dalle sue continue trasformazioni, risiede la forza dello spettacolo. Strehler torna a credere a quella storia di stampo verista, corrosiva e amara, ambientata tra le classi subalterne di una Milano in cui sta sfiorendo il “secolo del progresso”: una città che non gli sembra, nella sua dilagante alienazione, troppo diversa da quella del 1979.

Ricostruisce il suo spettacolo denso di realismo poetico, attento, soprattutto, a evitare scivolate melodrammatiche, utilizzando l’impianto scenico ideato da Luciano Damiani nel 1955, anche se ora le prospettive risultano più dilatate dalla maggior ampiezza del palcoscenico (allora quello del Piccolo, oggi quello del Lirico); allo stesso modo, i costumi di Ebe Colciaghi appaiono non “datati” ma “vissuti”.

I protagonisti sono Tino Carraro, Franco Graziosi e Mariangela Melato.

Personaggi e interpreti

Al Tivoli

El Peppon Tino Carraro
Nina Mariangela Melato
Carloeu Franco Graziosi
Bortolì Giorgio Giorgi
Martina Elena Borgo
Fernanda Anna Priori
Miss Maria Gabriella Bianchini
Rico Antonio Zanoletti
El Luserta Piero Medini
Marches del Sô Carlo Montini
Turlurù Daniele Pagani
Lofì Edmondo Sannazzaro
Menabella Gianfranco Mauri
Maghigia Lia Giovannella
Coo d’Oss Mirton Vajani
Carmelino Andrea Tidona
La Bionda Adele Pellegatta
La Moretton Luciana Luppi
El Dondina Alarico Salaroli
El Tredes de Tarocch Luigi Bambozzi
L’impresari del Teatro delle Varietà Enrico Maggi
Un mimo del Varietà Nino Bignamini
Una mima del Varietà Giuliana Soldani
Venditore di cartoline Guido Spadea
Venditore di palloni Mario Ventura
Suonatore di trombone Roberto Marelli
Suonatore di tromba Vincenzo Brandi
Suonatore di piatti Angelo Mariani

Ai cusinn economich

El Peppon Tino Carraro
Nina Mariangela Melato
Carloeu Franco Graziosi
Maria Elisabetta Torlasco
Peppin Nino Bignamini
Giovann Franco Moraldi
Martin Enrico Maggi
Peder Renzo Schiroli
Luisin Gianfranco Mauri
Gasper Luigi Bambozzi
Cecch Claudio Maggioni
Bigetta Narcisa Bonati
Paoloeu Angelo Mariani
Bigiassa Carlo Monti
Lena Elena Borgo
Teodor Carlo Montini
Ceser Alarico Salaroli
Lissander Roberto Marelli
Mansuett Edmondo Sannazzaro
Michee Mario Ventura
El Spazzacamin Dario Cristini
El Balabiott Alessandro Balducci
El lumaga Daniele Pagani

Ai asili notturni

El Peppon Tino Carraro
Nina Mariangela Melato
La sciôra Gina Leda Celani
Giovanna Dina Zanoni
Caterina Elena Borgo
Filomena Iris De Sanctis
Pierina Narcisa Bonati
Genoveffa Elena Pantano

Scene di Luciano Damiani
Costumi di Ebe Colciaghi
Musiche di Fiorenzo Carpi

Testo di Carlo Bertolazzi

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Teatro Lirico, 18 dicembre 1979

Strehler ne parla

La riduzione letteraria

La riduzione letteraria del testo del Nost Milan di Carlo Bertolazzi si basa su due distinti criteri che si intersecano e si integrano a vicenda. Il primo criterio è stato quello di operare una riscrittura particolareggiata del testo originale secondo considerazioni che investono direttamente lo spettacolo – a cominciare da tre fondamentali introduzioni – una per atto – in cui viene tracciata la linea ispiratrice della messinscena, viene definita un’atmosfera, e prima ancora viene chiarificata la concezione stessa della regia. Questo criterio fa parte integrante di una riduzione letteraria che si amplifica inserendo, nel corso del copione, accanto ad alcune didascalie originali di Bertolazzi, tutta una vasta serie di note esplicative che riguardano l’opera di riduzione letteraria che si lega con quelle della messinscena al Teatro Lirico, per il Piccolo Teatro, in prima rappresentazione il 18 dicembre 1979. Il secondo criterio incide ancora più nel vivo della materia originale, con la fusione del secondo e del terzo atto di Bertolazzi – estrazione del lotto e cucine economiche – e con la creazione di un solo atto, ambientato nelle cucine economiche, risultante da una essenziale riscrittura, non limitata a un lavoro, per così dire, di mosaico su una materia già esistente, ma allargata alla creazione di un complesso drammaturgico a sé stante, dove ho scritto, inventato, elaborato personaggi e battute.

È un lavoro d’intarsio, di trasposizioni, di mutamenti di pesi e di volumi che, pur rimanendo, nella sostanza, ossequiente a una fedeltà di fondo al modello originario, lo ripropone in una dimensione autonoma. Non si tratta di una “rilettura”, dove personaggi come Gasper e Lissander – con opportune trasposizioni, con sensibili spostamenti di battute, di accenti, di interventi – creano chiarificazioni e apporti che nell’originale erano forse soltanto intuiti, per non dire casuali. Tipica è l’“invenzione” del personaggio del Mansuett, originariamente un anonimo venditore ambulante e – nella riduzione presentata – diventato un pensionato la cui unica e ultima speranza è una vincita al lotto – e che va in giro in pantofole perché s’è impegnato l’unico paio di scarpe per poter giocare. Qui l’accento della elaborazione drammaturgica si accentrava su precisi valori classisti – come nello stesso tempo avviene per il personaggio Ceser, anch’esso anonimo nell’originale e individuato nella riduzione come operaio specializzato, membro di una neonata società industriale, più avanti socialmente di quanto possa essere il mondo sottoproletario che affolla le cucine economiche. Tipico è il gruppo di muratori, di cui la riduzione sottolinea i barlumi di una coscienza non “di corpo”, di “mestiere”, ma di classe – «operai, costruttori, sono la stessa cosa» –. E, per contro, la riduzione sottolinea i dati negativi o nebulosi di una storica carenza di coscienza sociale – vedi il personaggio della Bigetta, il cui allegro, ma egoistico “conformismo” è capillarmente enucleato da impercettibili sottolineature di battute. Ma, in genere, questo atto “riscritto” e “rimpastato” va preso dalla prima all’ultima battuta come un “prodotto” drammaturgico in cui fedeltà al modello e invenzione drammaturgica assumono un senso che va molto al di là dell’elaborazione, della Bearbeitung o della mera interpretazione.

[…] L’atto iniziale del Tivoli, concepito originariamente come affresco corale di colore, diventa, nella riduzione, un concentrato di disperati e solitari destini umani a cui manca lo sbocco dell’azione liberatrice. La riduzione accentua questo destino di solitudine, rotto da sprazzi di occasionale solidarietà – come lo sottolinea nel “calore animale” delle cucine, dove, in modo analogo, nessuno prende davvero parte al destino del vicino. E ancora più evidente si fa questa linea nell’atto finale, in cui va immediatamente sottolineata una particolare invenzione drammaturgica. Bertolazzi ha posto il “tempo” dell’azione alla sera. La gente va all’asilo notturno per trascorrervi una notte al caldo, in un letto gratuito, “quattado”, come dicono i milanesi. Qui si traspone l’azione al mattino – dopo una notte che è stata, per la Nina e per il Peppòn, una svolta tragica. […]

Restano ancora da citare operazioni di riscrittura del linguaggio dei “locch”, a cominciare dallo stesso Togasso e proseguendo con i suoi accoliti – il Balabiott e il Lumaga, nomi che non compariscono nell’originale e a cui il sottoscritto ha dato una precisa fisionomia. Tale operazione si allarga al poliziotto Dondina, al bergamasco Bortolì – e infine abbraccia la configurazione delle comparse, che non sono mai “folla”, ma personaggi con una propria storia – padre e figlio contadini al primo atto, accanto a un povero paria truccato da antropofago e con un bambino che sfaccenda per sbarcare il lunario con il padre e il suo “padrone” altrettanto povero e disperato, una coppia borghese, una di studenti poveri, la mendicante che raccoglie le cicche con il bastone a spillo, l’operaio che prova la macchina della “scossa elettrica”, i “locch” che si passano il portafoglio rubato. Anche nella definizione di questi – che sono personaggi individuali e individuabili – la riduzione ha seguito un criterio di illuminazione drammaturgica decifrabile e leggibile come un intarsio di dozzine di storie umane di cui ogni figura, muta o parlante, è un determinante elemento drammaturgico e letterario.

Relazione sulla riduzione letteraria di El nost Milan – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Un grido dal fondo di una città violentata

Rileggendo la breve nota che scrivemmo sul programma di sala del 1955 ne condividiamo ancora la linea critica. C’è piuttosto da chiedersi quanto della verità di ieri, quanto delle ragioni che ci spinsero un tempo a rappresentarlo, questo Nost Milan, possono trovare riscontro nel nostro oggi.

Qui il pubblico sarà il critico più legittimo. Come sempre a teatro. E noi interpreti aspettiamo, come sempre, con trepidazione e umiltà questo incontro, che per noi del Piccolo ha sempre contato più di tutto. Ma anche con una interiore certezza della necessità che ci ha spinto a proporre ancora – a distanza e in modo simile e diverso – il nostro lavoro di teatro, alla collettività. Non come patetica reliquia del passato, ma come un mezzo per allacciare il passato al presente e per conoscerlo meglio.

Lavorando sul testo del Nost Milan, a distanza di tanti anni, quello di Bertolazzi e quello della sua riduzione per lo spettacolo, ho comparato le differenze, ho cercato di ritrovare la ragione di certe scelte, di certi spostamenti e di certi tagli, insomma ho ripercorso il lavoro critico che feci d’impeto in un’estate del 1955, davanti alla “necessità” di una rappresentazione immediata. Fu un lavoro rapido, fatto di decisioni che oggi mi appaiono perentorie e quasi temerario. Ma fu come sempre un lavoro di amore, pieno di rispetto per l’opera, per le ragioni che l’hanno fatta nascere (almeno per quelle che io ho creduto di scorgervi) che poi ho trasformato in uno spettacolo, con voci, ritmi, scene, costumi, musiche, luci: il nostro modo di scrittura, di noi interpreti, sulle sabbie mobili del teatro, di cui resta solo la traccia nel copione, con freghi a matita che rimpiazzano altri freghi e altri segni.

Certamente la cosa che più mi colpisce – e ricordo quanti dubbi mi costò – è la decisione di recitare il Nost Milan in tre atti anziché in quattro, fondendo in uno solo due atti (il secondo e il terzo) dell’originale. C’era qui un agguato persino del “divertimento teatrale”, molto sottile. Il secondo atto di Bertolazzi, infatti, si svolge un certo sabato “nel” cortile del Broletto. Cioè nello stesso cortile del Piccolo Teatro, fuori del palcoscenico. In quel cortile lo spettatore, durante l’intervallo, avrebbe potuto visitare e toccare “sul serio” muri e case, dopo averle viste “per finta” sul palcoscenico!

Questo problema, ricordo, con la sua seduzione quasi irresistibile per il regista, soprattutto per il giovane regista che ero, fu risolto come doveva, cioè non cadendo nel gioco della teatralità e del teatro e del non teatro, in fondo, così facile, nella sua apparente “intelligenza” critica. Decisi di far svolgere un solo atto, nelle Cucine Economiche e là, in qualche modo, far convergere tutto o quasi il testo del gioco del lotto nel cortile del Broletto. Poiché, certo, questo “gioco del lotto”, questa speranza ultima dei poveri, questa eterna possibilità impossibile non poteva essere messa da parte.

Così là, nelle povere cucine, un sabato a mezzogiorno, con freddo e sole, con le prime sirene lontanissime di una città che si industrializza e le campane che quasi si opponevano a quel suono lungo e nuovo con il suono invece familiare che scandiva il ritmo della giornata e della vita, si parlava anche del lotto di ieri e, attraverso questo, del lotto di oggi. Si parlava di povertà e violenza (c’era violenza anche in quel giorno, c’era il massacro, alle porte, tra l’altro, di Bava Beccaris), si parlava di disoccupazione, di lavoro non trovato e tanto cercato, si parlava di miseria e di fame, di vita che costa sempre più cara, di “danee”, di “cinq franc de roba” che viene ormai pagata dieci, insomma si parlava, in un frammento di umano, di una città che già correva tutta verso il disumano e già non sapeva come fermare questa corsa che ci porta al giorno d’oggi.

Questo secondo lungo atto, come una piccola sinfonia, in cui temi e controtemi si svolgono e si troncano per poi riprendere, diventava molto denso, con una sua poesia aspra e sospesa, che comportava enormi difficoltà ritmiche per costruire una unità che in partenza mi pareva quasi perdersi – qua e là – nel bozzetto, nel colore locale. Su quelle tavole di legno scuro, davanti al quartino di vino e alla tazzina di minestra povera (a Parigi qualcuno scrisse che si sentiva in sala persino l’odore dei cavoli di quella minestra! Mentre il Paoloeu, cuciniere di teatro, rimestava nei suoi pentoloni solo grandi nuvole di ghiaccio secco “per fare il fumo” a teatro), viveva la sua breve avventura un piccolo cosmo di “povera gent” di sottoproletariato di una città in crescita senza armonia e poca pietà, povera gente che però trova continuamente, dentro un tepore fraterno, una lombarda pudica solidarietà fatta di pochi gesti, sia una canzone accennata, sia un sorriso appena sfiorato e nascosto da parola ruvida, sia un passo che rallenta la sua corsa.

Certo, questo lavoro di “riscrittura”, che fonde due temi e due attimi di teatro distinti in uno solo, richiedeva e richiede oggi agli interpreti una estrema sensibilità negli accordi e nei registri, richiede una specie di leggerezza dei toni e dei gesti che purtuttavia mai deve andare a discapito della severità dei contenuti, della chiarezza cruda e violenta di questo grido dal fondo che è El nost Milan di Carlo Bertolazzi.

È un grido dal fondo, dal fondo di una città violentata, già allora violentata, dal fondo del sottoproletariato urbano con ancora tanto di contadino che si inurba e mi viene da dire, semplicemente, ancora una volta, come questo paese-città si sia mosso appena, nella sua storia più densa in tanti anni. Quasi un secolo.

Per la rappresentazione del 1979, programma di sala de El nost Milan, stagione 1979-1980

El nost Milan venticinque anni dopo

Mi ritrovo non più tra le mani il vecchio copione mille volte usato, con mille segni a matita, misteriosi e teneri, di tanti suggeritori scomparsi del Nost Milan di venticinque anni fa, ma, davanti a me, nella luce che comincia a disegnare muri inventati forse più veri del vero, le scene concrete, cioè le scene del Nost Milan di oggi. E i suoi uomini e donne di oggi; i suoi interpreti di oggi, quelli che daranno con i loro corpi, i loro visi, le loro mani, i loro gesti e le loro voci, la dimensione umana ai personaggi della vicenda.

Dietro, ancora presenti per poco (o sempre?), le ombre di quelli che furono. Pochi sono rimasti e molti di quei pochi hanno “cambiato ruolo”, sono diventati altri, interpretavano i giovani, oggi interpretano i vecchi. Ma le parole sono ancora le stesse, continuano quasi crudelmente a essere le stesse, non tengono conto del tempo passato, per ricordarci che del teatro solo loro restano, solo loro alla fine contano, cioè contano solo i poeti, e che gli “interpreti”, magnifici e grandi che siano stati, svaniscono al primo canto del gallo come gli spiriti notturni degli incubi o dei sogni.

Mai come ritornando pazientemente e dolorosamente sui propri passi, l’interprete si rende conto di quale metafora della vita sia il teatro in ogni sua componente, in ogni suo gesto. Tino (Carraro) che fu un giovane e lancinante Togasso, un figlio della mala, pallido e violento, oggi è il Peppone, vecchio pagliaccio di piazza, vecchio padre sottoproletario, impotente e vinto, ma con un lampo di chiarezza quando grida alla figlia: «Va’ no con lor». Cioè non andare con “loro” (tutti loro, tutti gli altri, quelli che stanno sopra, quelli che ci prevaricano e ci dominano), per aggiungere solo dopo: «Va’ no con i sciori».

I “loro” sono “i sciori”, imprecisati e precisi, gente con cilindro e carrozza: un altro mondo. E l’attore, non so fino a che punto dimentico di chi lo precedette sul sentiero di quelle parole o fino a che punto cosciente di chi fu l’antagonista suo di allora. Togasso, ora diventato padre e vecchio, là in una scena che è rimasta quasi la stessa (mai proprio la stessa) ma con quei tavoli, quegli oggetti, pane e scodella e vino e cucchiaio di poveri, quest’attore comincia a figurarsi e ad apparirmi come un “altro”.

Questo esercizio spirituale, questa operazione complessissima del teatro che impegna l’uomo intero e il senso del destino umano in un semplice atto di palcoscenico mi vede oggi spettatore silenzioso, pieno di stupore e di tenerezza perché vedo lì svolgersi, semplicemente, il grande mistero dell’esistenza degli uomini. Perché sento ancora, una volta di più, la grandezza profonda del nostro mestiere: tanto più grande quanto vissuto con umiltà e semplicità, come fa Tino, adoperando parole piccole, di mestiere, per dire, per dire molto di più e per nascondere anche la sua angoscia. Chiede: «Ma che testa avrà questo qui?», e questo qui è il suo personaggio “nuovo”. Poi aggiunge: «Io proprio non lo vedo perché la mia testa è diversa (diversa da che? da chi?) e poi ho la faccia più da cattivo, io». E intanto si sta trasformando, dentro, intanto il personaggio comincia a compiere il lavoro che sempre compie su ogni vero attore, cioè lo modifica, anche fisicamente. E bastano un paio di calzoni tanto più grandi di lui, basta una giacca vasta (apparteneva allo Schweyk di Buazzelli), un colpo di pettine ai capelli, un po’ di crespo per nascondere una stempiatura, un paio di baffi che stanno crescendo, un po’ di bianco alle guance che si stanno scavando, ed ecco là, nella penombra, che appare per qualche attimo, ma intensissimo, il “nuovo” attore-personaggio. Lo stesso di prima e tutto diverso.

Allo scatto delle prime fotografie di prova scopro uno straordinario essere umano, poverissimo, smarrito, ma con una sua forza avvilita, che fissa la figlia o che l’abbraccia disperatamente. Mostro all’attore queste fotografie di un attimo di prova che sempre accompagnano il mio lavoro, che lo rubano per darci un poco di controllo sul già fatto e non solo con la memoria. L’attore le guarda con perplessità, con meraviglia e, penso, anche altro: dolore, rimpianto della vita che se ne è andata. L’attore si vede e sbianca. Il professionista è soddisfatto e commenta: «Non male. Allora vado avanti così». E basta. E va a uccidere nel 1979, sul palcoscenico del Teatro Lirico, l’infame Togasso, lui che, come Togasso, fu ucciso venticinque anni fa da un altro, dal povero Peppone di allora, tra i tavoli delle cucine economiche di carta e tela e legno di una Milano del 1893 reinventata sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano del 1955.

[…] Già allora, venticinque anni fa, mi colpiva la secchezza di Bertolazzi, che tanto facilmente può essere presa, basta che lo si voglia, basta che ci si fermi allo schema e al modulo esteriore, per “bozzettistica” e, qua e là, per “melodrammatica”. Ma mi colpiva, mi colpisce sempre di più, la “pertinenza”, con una parola provocatoria, di questo brulicare di vita sotterranea che si dispera in solitudine, in solitudine si diverte, in solitudine mangia e muore, ma che è anche capace di amore carnale o tenero (o le due cose insieme), questa umanità che ha rapporti complessi con i suoi compagni di classe o sottoclasse e rapporti semplicissimi e diversi con gli “altri”, appunto i “loro”.

Semplici e diretti, ma non semplicistici: gli “altri” sono soltanto gli avversari ancora irraggiungibili, gli dèi di un Olimpo borghese inattaccabile che detiene un Potere imperscrutabile o, all’opposto, perscrutabilissimo. Parlano del lotto, ad esempio, come “ultima speranza”, del sabato come una cosa da aspettare per poter vivere. Vedono aprirsi una tragedia se qualcuno butta lì (ed è un operaio a dirlo) che «il lotto stanno per sopprimerlo». Uno dice: «Sopprimerlo sarebbe come buttarlo in mezzo alla strada. Piuttosto occorre la riforma. La riforma della ruota. E prima di tutto cambiare il martinino» (il ragazzino del collegio degli orfani che, bendato, tira fuori dalla ruota i numeri ogni sabato). Incalza un’altra: «Ma certo, cosa vuol dire questo tirare fuori, così all’orba? Bisognerebbe che ognuno tirasse una volta per uno» (democraticamente, aggiungo io) «i suoi numeri. Così ci sarebbe giustizia». «Tanto più che» fa ancora l’operaio «io dico che gli assessori giocano sul sicuro, conoscono la cinquina, già da ieri sera».

E così via, scoppiano bombe di profondità, che ancora oggi, attraverso il dialetto di una città che lo sta perdendo e non so fino a che punto posso io aiutare con questo lavoro a far sentire alla gente che non bisogna lasciarselo scappare dalle mani (anche questa è una ragione per cui ripercorro con tanta fatica un percorso di cui ho perso le orme nella neve di un tempo), arrivano nella platea quasi vuota, non già un tempio, non un sacrario, ma un luogo di lavoro dove anche giovani stranieri fissano attenti il nostro quotidiano, nel riverbero dei fuochi della ribalta immaginaria.

Quanta lotta, quanta storia, per cambiare in fondo tanto poco! Questo è il primo sentimento che mi tiene, rielaborando la storia passata o che almeno dovrebbe essere totalmente superata, totalmente allontanata dal tessuto della nostra vita sociale. E invece non è. E proprio ieri c’è stato qualcosa di collettivo che mi ha riscaldato il cuore. A un certo punto del secondo atto un vecchio reduce del ‘48 delle Cinque Giornate rievoca, cantando, una canzone del tempo della sua avventura storica a gente che non l’ha vissuta in prima persona, alla “povera gent”, davanti al gotto di vino, venuta dopo. Dopo che «i tedeschi nel Quarantotto», e via un gesto di sfascio impreciso e biblico…

Gli “altri”, intorno, cantano con lui, a poco a poco, con imprecisione (dicevo: non sanno bene le parole né la melodia, ma qualcosa sanno, dai padri, dai nonni, quando alcuni, i più vecchi, erano ragazzini), poi, a poco a poco, si rassicurano e cantano più forte, come fosse un coro di rivolta e finiscono con una storia in cui si parla di “bombole e cannoni”, bombe e cannoni. Interviene l’ordine, in questo caso un povero servitore di cucine che li invita al silenzio: è proibito schiamazzare, giocare a carte ecc… sta scritto sul fondo della parete della cucina economica!

Gli attori trovano difficoltà (del resto, è la prima volta che lo fanno) a rendersi esattamente conto della situazione: il rapporto storico è lontano, il Quarantotto un mito, allora tento di colpo un esempio più vicino. E dico: immaginiamo di parlare di Resistenza. Immaginiamo che il Cecch è un vecchio resistente, un po’ ridicolo se vogliamo, nella sua mania di parlare di quei tempi, ma con la sua medaglietta “vera” e il suo esserci stato “sul serio”. E cantiamo, invece che il vecchio Guarda Giulay che vien la primavera, cantiamo Fischia il vento, soffia la bufera, cantiamo, insomma, la nostra Katiuscia partigiana. Ma anche qui, quanti dei presenti c’erano “in prima persona”, quanti l’avevano cantata allora? Pochissimi.

Il rapporto con il tempo storico è però ristabilito. E la fisarmonica attacca piano. Intono la vecchia Katiuscia con le nostre parole italiane, gli altri si accodano e, a poco a poco, sul palcoscenico cresce e si dispiega con violenza, ma anche con allegria, il canto della Resistenza non più imbalsamata ma memoria viva che serve per ricordare che il mondo può essere cambiato anche con una canzone, anche a teatro.

E le analogie sono continue. Ho la sensazione che questo Nost Milan risulterà più acre, molto più acre del previsto, o almeno di quello che prevedono gli esegeti del provocatorio in quanto solo grida, disperazione, nulla dell’uomo di fronte al Cosmo. Più provocatorio perché ancora, purtroppo, con tutti i trasferimenti del caso, pertinente nel tessuto sociale. Più provocatorio perché terribilmente umano in un mondo che corre verso il gelo di sterminate periferie che certamente nemmeno la luce di questo spettacolo di teatro potrà cancellare o nascondere o addolcire.

E qui l’immagine di Nina del Nost Milan e delle sue interpreti lontane, due Valentine, Fortunato e Cortese. Adesso c’è Mariangela Melato. Quale straordinario essere teatrale, si sta muovendo attenta, sul filo di un testo ancora quasi sconosciuto per lei! La Fortunato alta e sottile, dolorosa e, nonostante un suo popolare accento, con una sua sommessa nobiltà. Valentina Cortese, che ritrovava qui stupendamente le sue corde più vere, quelle del popolo da cui è nata e di cui sempre dovrebbe ricordarsi, una specie di selvaggia disperazione e di fragilità che raggiungeva alcuni momenti di autentico strazio. E adesso questa nuova Nina che prova con la sua voce scura e ricca, con la sua concentrazione immediata e profonda, e cerca senza modelli (non voglio che abbia modelli) la sua strada. Nella scena con Tino (Peppone) la “nuova” Nina trova lacerazioni che a me paiono, la prima volta, di un valore eccezionale. C’è una razza di commedianti in questa creatura, un calore, un lampo, che non ritrovavo più da moltissimi anni nel teatro italiano. L’aiuto, con cenni lievi, standole vicino, talvolta come ombra, talvolta abbandonandola, nella stanza semibuia con la luce che entra dai vetri, alla sua improvvisazione. Gli attori sono, alla fine, soli lassù, debbono essere lasciati soli, nel vuoto, per ritrovarsi.

E poi si rifà e si riprende, ma è un momento irripetibile questo: la prima volta che un’attrice fa muovere un suo personaggio dentro di sé e che gli dà voce e carne. Dopo, non sarà mai più così. Vedevo Mariangela in quinta, prima di entrare: tesissima, terrorizzata. Certo, noi viviamo nel terrore. Noi “commedianti veri” viviamo nel terrore di tradire il teatro e i suoi personaggi, viviamo nel terrore di sbagliare il teatro.

Lei era completamente teatro nella sua vigile paura. Si è calmata un po’ quando le ho detto che anch’io ho sempre paura e che era quello forse il segno stesso della vocazione teatrale. Ma non c’era niente da fare di più. Solo far diventare questo suo oscuro senso di angoscia una molla per lanciarsi ancora più in alto nel vuoto del teatro e dare ancora meglio tutto di sé.

Sì, alla fine, l’attore è solo sulla scena perché è l’uomo che alla fine è solo. E per questo penso a queste solitudini di acrobate dell’anima, delle interpreti di questa unica e molteplice Nina con gratitudine. Attraverso di loro ancora una volta di più ho amato meglio il teatro. Dunque, ho amato la vita.

Popolani e sciori nel Nost Milan, “La Stampa”, 4 novembre 1979

Le novità di questa edizione

Lo spettacolo è in linea di massima lo stesso [dell’edizione del 1955, ndr]: stesso impianto scenico, stessa scenografia, stessi moduli, stessa riduzione del testo. Ma se fosse solo questo, si tratterebbe d’un frammento di teatro non vivo, sarebbe soltanto un museo, una fotografia. E invece qui ci saranno cambiamenti profondi, sostanziali. C’è una visione diversa. C’è un maggiore approfondimento di alcuni motivi poetici; c’è una maggiore asprezza; è più acre, è più amaro e desolato. Forse allora era un pochino romantico (anche se c’era ben poco di romantico). Oggi, è più secco, più tagliente. Certo, tutto ciò è dovuto a una mia maturazione, ma anche a una maggiore amarezza al pensiero di questa città così violentata, alla constatazione di quanto si è perduto. Ecco, faccio allora questo lavoro per riaffermare alcuni valori che non devono andare perduti, come il potersi parlare, potersi dire delle cose che tocchino il cuore senza doversene vergognare, cercando poi di rivalutare il dialetto, in questa città milanese ormai solo a metà, per recuperare una nostra identità, per difendere le “radici” della nostra umanità.

Intervista di Paolo A. Paganini, “La Notte”, 22 novembre 1979

Una storia universale di alienazione tra bassifondi e periferie

Riprendendo El nost Milan in modo più secco, io volli allontanarmi ancora di più dal bozzetto o dal melodramma. E mostrare […] l’intatto, il rafforzato carattere provocatorio di quel brulicare di vita sotterranea che Bertolazzi aveva descritto. Cose di altri tempi? No, storia di una emarginazione che continua, di una alienazione ch’è sempre in agguato, ieri nei bassifondi e oggi nelle periferie-dormitori della metropoli. Una vita sotterranea. Una umanità che è anche capace di amore carnale o tenero, o dei due insieme; che ha rapporti complessi con i compagni di classe e invece molto semplici, ridotti al minimo indispensabile, l’obbedienza o l’odio, con “gli altri”, avversari irraggiungibili, dèi di un Olimpo intaccabile, che detengono l’imperscrutabile potere. Con quella ripresa io intendevo continuare una sfida che non era finita, perché non erano finiti i mali della società. Sapevo, so che la sorte amara degli uomini-talpa di Bertolazzi, quelle creature che si rintanavano nelle baracche, continua con l’umanità che viene inghiottita dalla notte delle città.

[…] È interessante che la carriera di alcuni fra i nostri migliori attori sia stata segnata dalle loro interpretazioni di Bertolazzi. Carraro, Valentina Fortunato, Valentina Cortese, Mariangela Melato. E Graziosi, Mazzarella, la Lazzarini, Tarascio, Polacco, Marano… L’umanità di formiche di Bertolazzi ha confermato o affermato molti attori del Piccolo.

Io Strehler. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986

Documenti

Mariangela Melato. Non esistono maestri come Strehler

Mancavo dalla scena dai tempi della Orestea di Ronconi [1972, ndr], anche se molte volte ero stata sul punto di tornarvi. Ma cercavo la cosa bella, la cosa giusta. Il mio rapporto col teatro non si era mai chiuso. Col teatro ho incominciato a Milano, dove sono nata, e dove andavo timida a vedere gli spettacoli di Strehler. Era un’emozione che ci faceva venire a tutti la voglia di recitare. Poi mi sono adattata alla classica battuta “Il pranzo è servito”, pur di lavorare; poi è venuto l’Orlando, il cinema, e via, sino a oggi.

Ho bisogno come attrice di tornare in palcoscenico, per verificarmi; al cinema si può essere anche bravi per caso. Ci ho pensato a lungo, poi ho telefonato a Strehler, perché no?, nonostante non lo conoscessi personalmente, forte della mia ammirazione per lui.

[…] Ci siamo trovati l’uno di fronte all’altra, io col mio foglietto di proposte, lui col suo. Incominciamo a parlare e scopriamo che avevamo scelto gli stessi titoli, gli stessi autori. Una cosa straordinaria. Abbiamo presto “sintonizzato” su Bertolazzi, forse per le mie origini lombarde. E poi perché è un testo che amo molto e che avevo già tentato di recitare prima in televisione e poi al cinema.

Strehler aveva di me, professionalmente, la mia stessa idea.

Intervista di Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 2 aprile 1978


Quello con Giorgio è un incontro felicissimo
. Io, che ho lavorato con Visconti, Fo, Ronconi, posso dire che, per gli attori, maestri come lui davvero non ce ne sono. Ha le doti della semplicità e della verità, è generoso e violento, quando loda e quando sgrida. Ogni giorno la sua passione, la sua vitalità, la sua intelligenza critica mi sbalordiscono. Non è vero che si impone sugli attori, anzi, li capisce bene, gli attori. La sua puntigliosità non deve ingannare, è sempre in funzione di un risultato globale di spettacolo. Starlo a sentire è come andare a Scuola; e oggi, che di scuole non ce ne sono più, un uomo come lui è importante.

[…] Il problema vero del mio personaggio è che devo portarmi dentro la tragedia e poi esprimerla praticamente solo nell’ultima scena. È un dilemma mio di logica interna, ché devo naturalmente evitare ogni eccessiva immedesimazione e quindi diventa anche un problema di voce, di tensione, di stato fisico, per arrivare “giusta” all’ultimo monologo.

[…] La Milano di Bertolazzi è tenera per me, mi ricorda un po’ i racconti di mia madre, è come se mi fosse presente nelle orecchie, o nelle foto che ho visto. Io recito per la prima volta la parte di una popolana, e siccome per la verità popolana non sono, mi avvicino alla Nina guardandola con amore e rispetto. Se fossi una vera proletaria farei certo meno fatica, invece mi ritrovo per esempio con le mani sbagliate, troppo belle, ma conquisto il personaggio non per imitazione ma accerchiandolo con l’affetto, e non solo con il mestiere. E poi questa Milano di fine secolo mi sembra che non sia proprio definitivamente scomparsa: anche se è la città più toccata dalla violenza, credo che certi valori rimangano, e penso che si possano ancora incontrare milanesi ironici e tenerissimi. Forse non c’è più la stessa miseria, la stessa fame, ma anche questo è relativo: i problemi del Nost Milan sono attuali ancora oggi. Il dramma di Nina, che non vorrebbe essere povera, è più che mai vivo e presente, qui fra noi.

Intervista di Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 9 novembre 1979

Franco Graziosi. Togasso, un ladro di polli

Il Togasso è un “malvagio” da quattro soldi, un ladro di polli, che non mi fa certo vibrare per delle cose straordinarie, e che quindi guardo un pochino dal di fuori, criticamente, per quanto sia possibile. Non è insomma un personaggio che mi possa sconquassare sentimentalmente. Semmai, mi diverte, ecco, tento di divertirmi e quindi di dargli quello che gli spetta, a prescindere da quello che è il linguaggio… Ogni tanto mi sembra di recitare in olandese. Ma sono abbastanza al coperto: prima di essere ammazzato, ho due scene e mezzo, e nemmeno così impegnative per numero di battute.

Intervista di Paolo A. Paganini, “La Notte”, 22 novembre 1979

Rassegna Stampa

Davvero si comprende cos’è il realismo poetico strehleriano

La povera gent, come il titolo dice, è lo spaccato, minuzioso sino alla spietatezza, della grama esistenza, scandita dalla fame e dal freddo, del sottoproletariato di una città squassata dalle tensioni sociali, vicina a diventare, tra contraddizioni d’ogni genere, come per una precoce elefantiasi, una moderna metropoli.

Credo che la motivazione prima del ritorno di Strehler al testo (oltre al personale puntiglio con cui va rivisitando i più suggestivi allestimenti del passato) sia proprio questa: che, in fondo, i divari, le sproporzioni, le fratture sociali della Milano d’oggi sono, sotto mutate spoglie, le stesse di allora. I guasti odierni sono cominciati là, tra la nebbia di un remoto 1893.

Ed eccola, questa nebbia, mentre si sprigiona lattiginosa tra le giostre e i baracconi del Tivoli, che lo scenografo Luciano Damiani accampa, con pudica eleganza, a ridosso delle mura dell’Arena. Si agita, tra quei miserabili tendoni, un’umanità guitta e disperata: Strehler, con un calcolo molto arrischiato, ne smorza le voci, le fonde in un indistinto mormorio di frasi spezzate, di insulti sospesi a mezz’aria. Qui, in questo mondo lacero, un furtarello è l’occasione di una festosa ribellione minima (è la sequenza del portafogli rubato, che gira, come per un gioco da fanciulli, di mano in mano). Qui l’amore, quasi per rivalsa, acquista cupe, strazianti risonanze: è l’amore di Nina per il saltatore Enrico, che sta per essere ghermito dalla morte; è quello per il Carloeu detto Togasso, uomo di malavita, che sta, inatteso, per travolgerla.

La scena dell’incontro e della seduzione tra Nina e il Togasso (Mariangela Melato e Franco Graziosi) acquista, tra quei vapori notturni, un che di sublime e grottesco: allampanato e sbilenco lui, con una oltraggiosa loscaggine da bulo nel tratto e nella voce; tenera, impaurita lei, eppure già fremente di quella rabbia che presto vedremo esplodere, incontenibile.

Dal buio umidore dei giardini pubblici alla luce fredda, tagliente, di un sabato ai cusinn economich, le mense dei poveri. È, a mio avviso, il momento più alto, più liricamente suggestivo dello spettacolo. Qui davvero si comprende cos’è il realismo poetico strehleriano: la fusione mirabile, quando riesce a compiersi, di un’accanita osservazione del reale, scrutato con ostinazione, e la sua traduzione in originalità ed essenzialità di gesti, parole, movenze.

[…] L’equilibrio dei pieni e dei vuoti, proprio sul piano figurativo, dei silenzi e degli strepiti, su quello fonico, è calibratissimo. E intanto vengono a innervarsi, l’uno nell’altro, il dramma corale e quello individuale. Comprendiamo che l’angoscia amorosa della Nina non è che una variante dell’angoscia di tutti. Soggiogata dal suo drudo (Graziosi, nel secondo incontro, dà il meglio di sé, mescolando trasporto e brutalità, complicità dei sensi e cinismo), Nina non sa rintuzzare i rimproveri del padre, un Peppone che Tino Carraro gonfia di una umanità piena, debordante. Sarà allora il vecchio a uccidere il Togasso, tra quei filari di banchi: e la scena stessa del duello è un piccolo prodigio di invenzione registica, col perdente addosso al vincitore, poi in piedi, in un soprassalto d’orgoglio, e giù, infine, sul tavolaccio trapassato.

Allora tutto precipita al suo esito. Nel freddo albore della domenica, una timida luce filtra nell’atrio degli asili notturni. Le confidenze delle misere ospiti del dormitorio stentano, si direbbe, a prender corpo (ed è un altro livello, nel dosaggio della parola, che Strehler impone agli interpreti). Anche la confessione di Peppone, venuto a comunicare alla figlia l’atroce verità, è sussurrata appena. Proprio qui, con uno scarto inatteso, la parola, invece, esplode perentoria, si fa urlo manifesto di un’atroce ribellione. È la ribellione di Nina, che rifiuta quella fame, quella esistenza di stenti, si darà alla vita galante, si farà mantenuta: e vuole che il padre lo sappia, prima di perdersi. In piena sintonia col personaggio, la Melato sfodera, nella voce fonda che a tratti s’incrina e stride, nella gestualità larga e febbrile, un generoso talento che speriamo sia presto rimesso alla prova.

Guido Davico Bonino, “La Stampa”, 20 dicembre 1979

Che grande regia rimasta intatta negli anni!

Ecco il Tivoli, il povero luna park del primo atto, quella specie di sogno rauco nella nebbia, in cui sul livido del freddo, della miseria e della malattia (il clown morente), Strehler mette come un tintinnio crepuscolare fra note sguaiate di tromba e punte rosse di sigari che bucano il buio, spentasi l’effimera luminaria, sotto gli alberi neri e bagnati. Ecco il grande atto delle Cucine Economiche, dove la scenografia di Damiani, immagine corrosa del quotidiano nella triste luce di quel mezzogiorno dei poveri, blocca geometricamente (i due tavoli paralleli, il muro di fondo con le scritte che richiamano al regolamento) il cerimoniale della fame; e ogni gesto ha un significato, ogni isola d’angoscia – o miserabile speranza o paura d’un domani oscuro o ricordo patetico che già scopre il proprio abisso negli anni (le Cinque Giornate, epopea di vecchietti che nessuno più ascolta) – si chiude in sé e insieme continua a navigare con le altre nel filo d’un tempo ritmato dalle sirene e dalle campane, segni che sigillano la fase di passaggio fra un’amara ma rassicurante civiltà contadina e l’ignoto, duro futuro industriale.

Che lezione di sensibilità istrionica: che grande regia rimasta intatta negli anni, che anzi dagli anni riemerge arricchita, non solo perché si adorna dei fascini ambigui del tempo, ma perché qua e là, si veda il terzo atto, quello degli Asili Notturni, approfondisce, modifica; e aggiunge spazi.

Fra gli interpreti il posto d’onore spetta senza dubbio a Mariangela Melato, a questa Nina così dura e tenera, così aspra e fragile; nella cui voce un’antica tristezza lombarda, terragna, supina, e insieme una cupa gioia della volontà, la sicurezza d’una libertà del fare, intima, invincibile, splendono umide, misteriosamente intrecciate. E non per nulla un grande applauso ha salutato il suo “a solo” del terzo atto. Così, Tino Carraro ha dato al personaggio del Peppon una tenerezza brusca e pudica, una violenza sommessa, dolorosa. E Franco Graziosi, pur alle prese con un dialetto che gli è estraneo, è un Togasso di tetra eleganza, mordente e ambiguo.

Sono in tanti: e ognuno ha il suo gesto, il suo momento. Ma non si possono dimenticare, pur in un rapido elenco, la freschezza popolaresca di Narcisa Bonati, le caratterizzazioni precise di Elena Borgo, la puntigliosa bravura di Alarico Salaroli, questurino comicamente squallido, il pittoresco mestiere di Carlo Montini, il patetico muratore brianzolo di Gianfranco Mauri, la tristezza smarrita di Elisabetta Torlasco e Nino Bignamini, sposini impauriti, la sincerità di Claudio Maggioni, veterano stizzosamente e infantilmente abbarbicato ai propri ricordi.

Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 20 dicembre 1979

Questo sito utilizza sia cookie tecnici sia cookie di parti terze per il funzionamento della piattaforma e per le statistiche. Può conoscere i dettagli consultando la nostra Privacy Policy.