El nost Milan

1955. Prima edizione

Paolo Grassi e Giorgio Strehler pensano a un teatro popolare sin dalla fondazione del Piccolo. Per arrivare all’appuntamento con i due autori prescelti, Carlo Bertolazzi e Bertolt Brecht, è però necessario un periodo di sperimentazione e consolidamento. Finalmente, nella stagione 1955-56, vengono presentati El nost Milan di Carlo Bertolazzi e L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht.

È la prima volta che il regista si avvicina a un testo scritto in dialetto milanese e il risultato ha un’enorme valenza tanto sul piano teatrale, quanto culturale. Strehler, che due anni prima ha firmato la regia di Lulù, ripropone Carlo Bertolazzi aprendo così, grazie al Nost Milan, una riflessione sociologica su una metropoli che sta crescendo senza armonia né pietà: «un grido dal fondo di una città violentata».

Nella Milano ricreata da Luciano Damiani, tra nebbiosi luna park, tristi mense popolari e squallidi dormitori, si muove un mondo di disperati, umiliati e offesi, ancora portavoci, nonostante tutto, della dignità degli umili. Emergono, nel folto numero di attori chiamati a portare in scena la vibrante umanità del testo, i protagonisti: Valentina Fortunato e Valentina Cortese (a partire dalle riprese dell’autunno 1961), Emilio Rinaldi e Tino Carraro

Personaggi e interpreti

Al Tivoli

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
Carloeu Tino Carraro
Bortolì Checco Rissone
Martina Elena Borgo
Fernanda Lia Giovannella
Miss Nicoletta Ramorino
Rico Giulio Chazalettes
Marches del Sô Andrea Matteuzzi
Turlurù Raoul Consonni
Lofì Ottavio Fanfani
Menabella Gianfranco Mauri
Maghigia Giusi Raspani Dandolo
Coo d’Oss Maria Zanoli
Pasqualino Franco Graziosi
La Bionda Romana Righetti
La Moretton Giuliana Pogliani
El Tredes de Tarocch Giovanni Rossi
El Dondina Enzo Tarascio
L’impresari del Teatro delle Varietà Dino Malgrid
Un mimo del Varietà Roberto Pistone
Una mima del Varietà Relda Ridoni

Ai cusinn economich

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
Carloeu Tino Carraro
Maria Relda Ridoni
Peppin Remo Varisco
Giovann Franco Moraldi
Martin Dino Malgrid
Peder Ezio Marano
Luisin Gianfranco Mauri
Gasper Lionello Riva
Cecch Paolo Pampurini
Bigetta Elena Borgo
Paoloeu Gaetano Fusari
Bigiassa Giusi Raspani Dandolo
Lena Mara Revel
Teodor Dante Feldmann
Ceser Enzo Tarascio
Lissander Raoul Consonni
Michee Giovanni Rossi
Lo Spazzacamino Roberto Pistone
El Balabiott Luigi Pistilli

Ai asili notturni

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
La sciora Gina Maria Albano
Giovanna Giuliana Pogliani
Caterina Mara Revel
Filomena Maria Zanoli
Pierina Narcisa Bonati
Genoveffa Mary Valente

Scene di Luciano Damiani
Costumi di Ebe Colciaghi
Musiche di Fiorenzo Carpi
Assistente alla regia Virginio Puecher

Testo di Carlo Bertolazzi

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Piccolo Teatro, 3 dicembre 1955

Riprese

1961

Al Tivoli

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
Carloeu Tino Carraro
Bortolì Vincenzo De Toma
Martina Elena Borgo
Fernanda Lia Giovannella
Miss Marisa Minelli
Rico Luigi Montini
Marches del Sô Dante Feldmann
Turlurù Franco Moraldi
Lofì Riccardo Tassani
Menabella Gianfranco Mauri
Maghigia Lia Rainer
Coo d’Oss Maria Zanoli
Pasqualino Mario Mariani
La Bionda Narcisa Bonati
La Moretton Leda Celani
El Tredes de Tarocch Carlo Montini
El Dondina Piero Mazzarella
Il Re del Varietà Ennio Groggia
Luserta Vincenzo Fortunati
Mimi del Varietà Roberto Pistone, Maria Grazia Antonini

Ai cusinn economich

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
Carloeu Tino Carraro
Peppin Remo Varisco
Maria Maria Grazia Antonini
Giovann Franco Moraldi
Martin Enzo Robutti
Peder Ennio Groggia
Luisin Gianfranco Mauri
Gasper Walter Luce
Cecch Cesare Frigerio
Bigetta Elena Borgo
Paoloeu Gaetano Fusari
Bigiassa Clelia Bernacchi
Lena Mara Revel
Teodor Dante Feldmann
Ceser Piero Mazzarella
Mansuett Edgar Biraghi
Lissander Ezio Marano
Michee Carlo Montini
Uno Spazzacamino Roberto Pistone
El Balabiott Franco Friggeri
El Pinascia Lamberto Puggelli

Ai asili notturni

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Fortunato
La sciora Gina Lia Rainer
Giovanna Clelia Bernacchi
Caterina Mara Revel
Filomena Maria Zanoli
Pierina Narcisa Bonati
Genoveffa Mary Valente

Bologna, Teatro Comunale, 1 aprile 1961

Lo spettacolo è ripreso a Roma, Torino e Milano.

In alcune recite il ruolo di Nina è interpretato da Valentina Cortese; il ruolo di Martina da Mara Revel; il ruolo di Bigetta da Lia Rainer.

1962

Al Tivoli

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Cortese
Carloeu Tino Carraro
Bortolì Vincenzo De Toma
Martina Elena Borgo
Fernanda Lia Giovannella
Miss Marisa Minelli
Rico Luigi Montini
Marches del Sô Dante Feldmann
Turlurù Franco Moraldi
Lofì Edgar Biraghi
Menabella Gianfranco Mauri
Maghigia Lia Rainer
Coo d’Oss Maria Zanoli
Pasqualino Mario Mariani
La Bionda Narcisa Bonati
La Moretton Leda Celani
El Tredes de Tarocch Carlo Montini
El Dondina Piero Mazzarella
Il Re del Varietà Ennio Groggia
Luserta Vincenzo Fortunati
Mimi del Varietà Roberto Pistone, Relda Ridoni

Ai cusinn economich

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Cortese
Carloeu Tino Carraro
Peppin Remo Varisco
Maria Relda Ridoni
Giovann Franco Moraldi
Martin Gino Centanin
Peder Ennio Groggia
Luisin Gianfranco Mauri
Gasper Walter Luce
Cecch Cesare Frigerio
Bigetta Elena Borgo
Paoloeu Gaetano Fusari
Bigiassa Clelia Bernacchi
Lena Lia Rainer
Teodor Dante Feldmann
Ceser Piero Mazzarella
Mansuett Edgar Biraghi
Lissander Ezio Marano
Michee Carlo Montini
Uno Spazzacamino Roberto Pistone
El Balabiott Franco Friggeri
El Pinascia Lamberto Puggelli

Ai asili notturni

El Peppon Emilio Rinaldi
Nina Valentina Cortese
La sciora Gina Lia Rainer
Giovanna Clelia Bernacchi
Caterina Elena Borgo
Filomena Maria Zanoli
Pierina Narcisa Bonati
Genoveffa Mary Valente

Parigi, Théâtre Sarah Bernhardt, 12 giugno 1962

Strehler ne parla

Tra documentazione e naturalismo

Nell’affrontare El nost Milan, ci siamo trovati di fronte a un lavoro non indifferente e, in un certo senso, al problema generale di documentazione, oltre a quello dell’impostazione del problema scenografico e di quello dei costumi: il primo punto sul quale ci siamo fermati, dal punto di vista scenografico e plastico, è stato quello della strada da scegliere, stilisticamente, rispetto alla scenografia, cioè se conveniva, come in un certo senso sarebbe stato più facile, attenerci a un certo tipo di, diciamo, pittura del tempo storico in cui El nost Milan è stato scritto e nel tempo storico in cui si svolge l’azione, una certa pittura lombarda, un certo modo di esprimersi della pittura lombarda di quel periodo, oppure se non era più giusto attenersi a quella che era la realtà viva della struttura reale della vita del tempo storico in cui si svolgeva il lavoro. La scelta è stata praticamente la seconda, tenendo però conto che l’allontanamento dal tempo storico dell’azione dell’opera non poteva avere naturalmente una dichiarazione scenografica e plastica assolutamente naturalistica e realistica, assolutamente documentaria; […] quindi la soluzione tecnica scenografica del Nost Milan, anche per quello che riguarda il costume, è stata una soluzione di tipo naturalistico, aderente a una certa unità di ambiente, al modo di esistere in certo tempo storico, ma, nello stesso tempo, non subendolo passivamente, ma cercando di richiederlo nella sua forma più giusta.

[…] Il problema della documentazione fu affrontato con un numero non indifferente di sopralluoghi di Milano, in periferia, anche nei dintorni di Milano, con un fortissimo lavoro di fotografie. […] In un certo senso, si trattò di scoprire, per noi, Milano; personalmente, ho sempre amato Milano e pensavo di conoscerla in un certo modo che sfugge un po’ a tutti gli altri; si passa per certe vie, per certi ambienti, ed è naturale che qualcosa sfugga: abbiamo rifatto la scoperta di fatti che esistevano ma che, in un certo senso, si erano perduti. El nost Milan è servito per ricostruire luoghi caratteristici della città: il Naviglio, la zona Ticinese e, soprattutto, avevamo ritrovato l’atmosfera ideale nella zona dell’Arena […]. Molti alberi di quei viali sono ancora sicuramente gli stessi di quando viveva il vecchio Tivoli. La documentazione di un tempo a noi troppo vicino è estremamente contrastata e controversa; ci sono infatti molte persone che ricordano qualcosa, ma ognuna se la ricorda in maniere differente dall’altra. Abbiamo dovuto lavorare su molteplici versioni dei problemi, alcune assolutamente contrastanti. Per quanto riguarda le cucine economiche, esse esistono ancora a Porta Nuova: abbiamo anzi avuto del materiale antico da parte delle cucine economiche, come secchi e altri oggetti svariati.

Se vedessimo le fotografie esatte di quelle che erano le cucine economiche e di quelle che sono rimaste e della nostra scenografia, non si troverebbe nessuna precisa identità, ma se la struttura è mutata, la ragione tipica di questo ambiente è stata resa perché abbiamo potuto andare più in fondo, per raccogliere i documenti, per raggiungere, nell’adattamento scenico, anche la verità poetica. Per quanto riguarda il costume, è stata la prima volta in cui abbiamo affrontato in pieno il problema del costume realistico, vissuto, che non sia costume veramente, ma che non faccia divenire i personaggi dei figurini plastici o un divertimento pittorico; il problema della scelta delle stoffe, del modo di fare questi costumi e di dar loro una vita; il problema dell’invecchiamento del costume vissuto con El nost Milan, da lì in poi è stato affrontato con diverse tecniche.

[…] El nost Milan, per quanto riguarda lo scenario, segnò un’innovazione (per quanto riguarda oggetti, strutture eccetera), ottenendo una realtà visibile di certi oggetti che non potevano che essere costruiti ex novo: quindi, se costruiti dal falegname o dal carpentiere, dovevamo dare a questi oggetti nuovi una sostanza vitale che essi, appunto perché nuovi, non potevano avere. Quindi il problema famoso della bruciatura, del trattamento del legno con la fiamma ossidrica per invecchiarlo, l’uso di certi acidi, e così via sono problemi che abbiamo risolto e che ci sono serviti anche per L’opera da tre soldi: El nost Milan rappresenta, perciò, l’inizio di un cammino di conquista tecnica che darà i suoi frutti nel futuro.

Colloqui con Arturo Lazzari (1974-75), trascrizione dattiloscritta – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Mi piace il sapore del pane

Si potevano ascoltare, nella “voce fasciata di bruma” di questo teatro, echi di una civiltà nostrana. Compresi una tenerezza per la gente, un rispetto per un piccolo mondo antico rimasto in fondo alla nostra memoria collettiva, una non retorica solidarietà verso il mondo della povera, poverissima gente. Ma che a me è sempre parso un antidoto contro il rischio di avere la testa piena di idee di fraternità e di giustizia e il cuore arido. […] Un’umile tragedia dialettale del Bertolazzi io l’avevo sentita dentro di me, con emozione sincera. Non mi sono mai vergognato di commuovermi di fronte a certe opere di dimessa poesia. Mi piace il sapore del pane.

Io Strehler. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986

Tournée

I ringraziamenti al Théâtre Sarah Bernhardt di Parigi, 12 giugno 1962 - Archivio Piccolo Teatro di Milano

Documenti

Ettore Gaipa. Il problema del dialetto e quello dell’ambientazione

El nost Milan resta un esempio fulgido e isolato nel suo tempo, e come tale postulava problemi di natura delicatissima, all’atto della sua messinscena.

Primo fra tutti, ovviamente, il dialetto. Perché il linguaggio di Bertolazzi non è puramente dialettale, ma arriva al dialetto, pur essendo partito da esso, attraverso la lingua italiana, e attraverso fatti indubbi di cultura. Analogamente, Strehler, pur adoperando attori dialettali a venare in tal modo il tessuto della recitazione, affidò alla compagnia del Piccolo Teatro ruoli che essa, e i suoi attori, avrebbero dovuto risolvere nel dialetto milanese, ma attraverso uno studio e una preparazione che evitasse il rischio dell’approssimazione vernacolare. Attori come Tino Carraro e Valentina Fortunato, che pure sono milanesi, ma che hanno una formazione non dialettale, tornarono quindi al dialetto, ripetendo, a loro modo, il cammino stesso dell’autore, così come attori come Emilio Rinaldi, dialettali, “tornarono” al dialetto dopo essersi liberati di quel tanto di patina e di adagiamento che la lunga pratica della recitazione dialettale ha come inevitabile risultato.

Altro problema, l’ambientazione, ossia i fatti scenografici, di costume, di riferimenti storici e cronistici. E qui fu fatica particolare dello scenografo Damiani e del costumista Frigerio, che riuscirono a svincolare l’ambiente dal quadro di genere, soprattutto ricercando strutture e figure che superassero la ricostruzione pedante da una parte, e la bozzettistica occasionale dall’altra.

Quadri come quello delle cucine popolari resteranno a lungo nella storia del nostro teatro come esempio di un raggiunto criterio di teatro, dove la realtà è al tempo stesso critica e denuncia, ma è anche un atto d’amore nei confronti dell’uomo. Quadri come quello della “pantomima patriottica”, a cui gli attori-mimi Relda Ridoni e Roberto Pistone davano la misura di un equilibrio di stile e di un distacco “narrativo”, restano fra i risultati più singolari di una felicità di espressione e di una perfetta scelta.

Bene aveva fatto Strehler a maturare, lungo quasi otto anni, il testo del Bertolazzi. E non fu un caso che esso vedesse la luce quando, ormai, una accuratissima revisione era stata effettuata, attraverso le più svariate opere, per quanto riguardava il cammino e le caratteristiche di una società italiana ed europea fra il Settecento e la fine del nostro secolo.

Ettore Gaipa, Giorgio Strehler, Bologna, Cappelli, 1959

Louis Althusser. La dissimmetria di Bertolazzi e Brecht

Ecco […] un dramma singolare per la sua dissociazione interna. Si è notato che i tre atti presentano identica struttura e quasi lo stesso contenuto: la coesistenza di un tempo vuoto, lungo e lento a viversi, e di un tempo pieno, breve come un lampo. La coesistenza di uno spazio popolato d’una moltitudine di personaggi, i cui mutui rapporti sono accidentali o episodici, e di uno spazio breve, legato in un conflitto mortale, e abitato da tre personaggi: il padre, la figlia e il Togasso. In altri termini, ci troviamo di fronte a un dramma in cui appaiono una quarantina di personaggi, ma in cui il “dramma” è vissuto da tre di essi soltanto. Più ancora: tra questi due tempi, o questi due spazi, nessun rapporto esplicito. I personaggi del tempo sono come stranieri ai personaggi del lampo: regolarmente essi cedono loro il posto (come se la breve tempesta del dramma li cacciasse dalla scena!) per ritornarvi l’atto seguente, sotto altri visi, una volta scomparso questo istante inconsueto al loro ritmo. Approfondendo il senso latente di questa dissociazione, si arriva al nodo del dramma. Poiché lo spettatore vive realmente questo approfondimento, allorché passa dalla sconcertata riserva allo stupore, fino alla adesione appassionata, tra il primo e il terzo atto. […]

Ciò che profondamente mi colpisce è il fatto che la latente struttura disimmetrica-critica, la struttura della dialettica tra le quinte che si riscontra nel dramma di Bertolazzi, è essenzialmente la stessa struttura di opere come Madre Coraggio e, più d’ogni altra, Galileo. Anche qui ci troviamo di fronte a forme di temporalità che non giungono a integrarsi l’una con l’altra, prive di mutuo rapporto, che coesistono, si incrociano, ma non si incontrano, per così dire, mai; ad avvenimenti vissuti che si collegano in un divenire dialettico localizzato, a parte, come nell’aria: a opere marcate da una dissociazione interna, da un’alterità senza risoluzione. La dinamica di questa struttura latente specifica, e, in particolare, la coesistenza priva di rapporto esplicito di una temporalità dialettica e di una temporalità non-dialettica determina la possibilità d’una autentica critica delle illusioni della coscienza (che sempre viene creduta e assunta per dialettica), d’una autentica critica della falsa dialettica (conflitto, dramma, ecc…) tramite la sconcertante realtà che ne costituisce il fondamento, e attende d’essere riconosciuta.

Louis Althusser, Le Piccolo, Bertolazzi et Brecht. Notes sur un théâtre matérialiste, “Esprit”, dicembre 1963

Luigi Lunari. Una nuova fase per Strehler e il Piccolo Teatro

Il primo allestimento del Nost Milan, nel dicembre del 1955, cadde nel pieno di quel triennio che segnò, come ebbe a dire Paolo Grassi, l’esplosione di Strehler. È in questo momento che si verifica un profondo mutamento nella storia stessa del Piccolo Teatro, che passa da un suo primo periodo eclettico, esplorativo, informativo, caratterizzato dai numerosi allestimenti di opere del tutto eterogenee, a un secondo periodo in cui le scelte si circoscrivono, si fanno più univoche, più omogenee e consequenziali l’un l’altra, più orientate in una precisa linea di ricerca.

La statistica stessa – poiché ogni discorso non può che partire dall’analisi dei dati – è assolutamente esplicita in questo senso. Nella stagione 1953-54 Strehler dirige per il Piccolo otto spettacoli nuovi e cinque riprese! Si va dalla Vedova scaltra di Goldoni, al Giulio Cesare di Shakespeare, da un dittico pirandelliano alla Folle de Chaillot di Giraudoux, da una Sei giorni di D’Errico alla Mascherata di Moravia. Ma i nuovi allestimenti scendono poi rapidamente a quattro nella stagione 1954-55, a tre nella stagione 1955-56, uno soltanto in quella successiva. Anche qui si va dalla Trilogia della villeggiatura di Goldoni all’Opera da tre soldi di Brecht, dal Coriolano di Shakespeare al Giardino dei ciliegi di Čechov, dai Giacobini di Zardi a Dal tuo al mio di Verga; ma l’eclettismo è solo apparente. O – meglio – la varietà delle opere si allinea lungo due precise vie maestre, ciascuna profondamente caratterizza da uno “stile” storicamente definito: uno stile realistico di chiara origine stanislavskiana, e uno stile epico-didascalico di altrettanto chiara derivazione brechtiana. È da questo momento che si potrà parlare di due modi d’essere – e quasi di due anime – di Strehler regista e “autore” di spettacoli; è da questo momento che le sue scelte si personalizzano non solo drasticament limitando il campo delle ricerche, ma anche e soprattutto componendo un lungo discorso che in un primo tempo è essenzialmente ricerca formale e storia di uno stile, ma col tempo si farà sempre più chiaramente ricerca di precisi contenuti e confessione autobiografica.

Luigi Lunari, El nost Milan nella storia di uno stile, programma di sala de El nost Milan, stagione 1979-80

Alberto Bentoglio. La riscoperta di Carlo Bertolazzi

Se il nome di Carlo Bertolazzi è uscito dalla ridotta cerchia degli studiosi e degli appassionati di teatro milanese e ha conquistato un’attenzione ben più vasta, culminata nella revisione critica dell’opera del drammaturgo, è merito della riscoperta che ne compie Strehler. Già nel 1953 […] il regista aveva messo in scena Lulù, ma è l’allestimento della prima parte (La povera gent) del dittico El nost Milan (1893) che apre la stagione 1955-56 a rilanciare e presentare al pubblico milanese, in uno spettacolo denso di verità e di poesia, il capolavoro di Bertolazzi. Già al termine dell’estate Strehler dà inizio alle prove del Nost Milan che gli appare come uno splendido canovaccio, ricco di suggerimenti e aperto a un’analisi approfondita nei confronti della società di tutti i tempi, che viene messa sotto accusa. L’aver attribuito a Bertolazzi un intento polemico e una volontà di denuncia che, probabilmente, non gli appartengono, costringe il regista a forzare, qua e là, il senso dell’opera e a cancellarne o attenuarne i toni festosi che le sono propri in molti punti: è, del resto, la mancanza di organicità e unitarietà dell’opera a dare adito a tale forzatura in sede di regia. A tale scopo, prima di tutto, il regista interviene sul copione, fondendo gli ultimi due atti, eliminando alcune battute e scene e inserendone di nuove, frutto del lavoro di équipe, nato durante le prove, fra gli attori e Strehler, con l’evidente scopo di rendere lo spettacolo più vivo, ma, soprattutto, più consono allo spirito polemico impresso dal regista a tutta la rappresentazione. Mostrando poi, sulla scena, un susseguirsi disorganico, apparentemente privo di senso, di vicende di soprusi e di violenze di cui è vittima “la povera gent” che subisce il male, con la pacata rassegnazione di chi sa di non possedere né i mezzi né la forza per opporvisi, Strehler crea una tensione ininterrotta e uno stato di angoscia che consentono a tanti piccoli fatti di assumere il volto di tragedia. Ad amplificare lo squallore funereo che emerge da questa visione dell’opera concorrono le scene, splendide, di Luciano Damiani, ispirate alla pittura di Angelo Morbelli, che riproducono, con fedeltà assoluta, una Milano d’altri tempi, grigia, misera, sordida, dalle architetture fatiscenti e dai muri enormi, sporchi, attraversati da un intrico di tubi scoperti. Di pari passo, con tale impostazione data allo spettacolo, Strehler chiede ai propri attori una recitazione rallentata, ricca di pause, di gravi silenzi, agevolato, in ciò, dall’impiego del dialetto milanese che, essendo ricco di vocali lunghe, prevede una certa lentezza nel pronunciare le parole. […] Con questo allestimento, Strehler inaugura l’interesse per un filone drammaturgico “nazional-popolare” e dimostra come una solida regia possa valorizzare in maniera definitiva un testo fino a quel momento ignorato dal pubblico e dalla critica, facendo di esso un piccolo classico.

Alberto Bentoglio, Invito al teatro di Giorgio Strehler, Milano, Mursia, 2002

Giovanni Testori. La dignità religiosa e umana di Milano

Fu quella una delle pochissime volte in cui andare a teatro non ha significato celebrare un rito non più celebrabile, ma spaccare, per amore, la propria anima e vedersi riflesso nel proprio passato. Fu una esperienza indimenticabile, fui preso dalla restituzione millimetrica, molecolare di quella Milano a cavallo tra l‘800 e il ‘900, proposta alla Milano di quegli anni, ancora ferita e lacerata dalla guerra. L’indimenticabile intuizione di Strehler fu quella di penetrare attraverso quelle lacerte, quei resti, per poi scendere giù fino a ritrovare, a riaffermare, per adesione e per affetto, quello che è il segno della cultura milanese. Una dolorosa coscienza religiosa della vita e della società, coscienza che diventa dignità. Fu dentro questo sguardo che anche il testo di Bertolazzi, che più che un testo è un canovaccio, si dilatò e diventò capace di rappresentare il silenzio di quella cultura. Mi ricordo che anche a Parigi gli spettatori francesi avvertirono, al di là delle parole che non comprendevano, la totalità di dignità religiosa e umana di questa cultura milanese.

Giovanni Testori, Col Nost Milan nell’anima, “Il Sabato”, 22 dicembre 1979

Rassegna Stampa

Uno spettacolo in grigio su grigio

Lo squallore funereo, il cupo incubo quasi gorkiano, se si osservi bene, è dato, più che dalle parole, dai cenni, dai gravi silenzi, dal passo strascicato che la regia ha suggerito ai personaggi. In ogni modo, vita, e il senso di una precisa capacità dello scrittore a percorrere il mondo degli umili e a disegnare i tipi con un sospiro e con un sorriso. Sono, non bisogna dimenticarlo, gli anni in cui l’impressionismo plastico di Medardo Rosso darà vita, con un pugno di cera, ai personaggi della Portinaia e del Bambino malato, che rappresentano appunto il vertice di quella stagione della “melanconia lombarda”; e siamo anche nel tempo che porterà all’aneddotica bozzettistica di una buona metà della nostra pittura, non solamente lombarda, che da una parte, a Venezia, culminerà nel pateticismo di Luigi Nono del Refugium peccatorum, che sembra la conclusione della storia di una Ninì chioggiotta, e dall’altra, a Milano, nel dolente crepuscolarismo dei vari “vinti” di Angelo Morbelli, il pittore del Viatico, del Natale dei rimasti e dell’Inverno al Pio Albergo Trivulzio, con tutti quei vecchi desolati e quelle mura grigie, alla cui pittura e alla cui mesta epica del dolore pare si sia rifatto, con gusto finissimo, Giorgio Strehler, facendo muovere i suoi attori entro le architetture dei quadri scenici – tutti giustamente applauditi – di Luciano Damiani. Le arti sono tutte unite, l’una all’altra, a filo doppio, e le consanguineità tutte riconoscibili a prima vista.

Strehler ha spaziato i tempi del dramma, ha dato agli incontri della Nina, del teppista e del “mangiafuoco” una ritmica cupa, per attenuarne gli scoperti scontri melodrammatici: ma la più intima validità del testo è venuta a galla là dove appunto, nelle scene d’assieme, dove i protagonisti sono assenti, il canovaccio non è carico di avventure bieche e non gronda sangue. La vita dei personaggi del Nost Milan sta dalla parte dei minori. Tra le vecchiette e le donnette dell’asilo notturno, tra un frusciar di ciabatte e di giaculatorie, Strehler ci ha dato uno dei suoi più accentuati saggi di intelligenza teatrale: superando, pur con un testo leggero come una ragnatela, le convenzioni del minore dialettismo. […]

Tutto lo spettacolo è guidato da una mano avvedutissima, alla ricerca di toni grigio su grigio. […] Non basterebbe certamente lo spazio per elogiare tutte le piccole notazioni preziose della regia di Strehler, e l’impegno attentissimo di tutti gli attori che proprio dovrebbero essere numerati uno per uno. Ricorderemo per tutti – sono in complesso una quarantina – la Fortunato, amaramente patetica, Carraro che abilmente non ha calcato sulle fosche tinte del teppistone, il bravissimo Rinaldi che ha dato tanta sommessa e dolente umanità al personaggio del Peppon.

Orio Vergani, “Corriere d’Informazione”, 5 dicembre 1955

Un Albergo dei poveri milanese

Tra Bertolazzi e Gor’kij corre un lungo cammino, d’accordo. Ma che nell’epoca, a torto o a ragione oggi giudicata tra le più felici della storia, negli anni delle economie assestate e delle fiorenti ricchezze, in una città non retriva, anzi attivissima e già da secoli famosa per le sue istituzioni benefiche, uno scrittore autenticamente milanese avesse immaginato quei casi angosciosamente fioriti tra le baracche del Tivoli, le pentole maleodoranti delle cucine popolari e lo squallore dei dormitori pubblici, sola speranza una vincita al lotto, questo significa da parte del Bertolazzi aver veduto ciò che gli altri preferivano ignorare o non vedevano affatto.

Merito di Giorgio Strehler, validamente coadiuvato dallo scenografo Luciano Damiani, è aver trasformato quello squallore in una presenza costante, riconoscibile nell’architettura delle scene, in taluni particolari ossessivi (mai dimenticheremo quei tubi scoperti, unica decorazione sulle pareti enormi), negli arredi. Niente, ci è parso, avrebbe potuto corrispondere con altrettanta intensità alle parole dei protagonisti.

Raul Radice, “L’Europeo”, 11 dicembre 1955

Tutta la vecchia Milano in via Rovello

La scena di prosa non si può concedere il lusso di improvvisare dagli attori. Ma Strehler ha fatto qualcosa del genere. Affidate a Tino Carraro e a Valentina Fortunato (milanesi entrambi) le parti principali, ha chiamato attorno a sé, per coprire le restanti diciannove parti, pochi attori suoi e molti attori che appartennero alle vecchie compagnie meneghine: tra questi, un collaboratore di Ferravilla, Pampurini, già in là con gli anni e attualmente lattoniere. Un lavoro esasperante di rimodellamento, di eliminazione di scorie, di acclimatazione, tre mesi di lavoro. Poi il velario si è aperto sulle brume del Tivoli che la scena di Damiani ha prodigiosamente popolato di baracconi e tiri a segno e carrettini; sulla nuda, desolata povertà delle cucine economiche; sul tetro grigiore degli asili notturni.

E come per un miracolo (senza barboni) tutta la vecchia Milano è tornata in via Rovello.

Paolo Emilio Poesio, “La Nazione”, 11 dicembre 1955

La potenza del teatro dialettale

L’atmosfera nebbiosa, la tristezza autunnale, le luci struggenti di cui Giorgio Strehler e lo scenografo Luciano Damiani hanno intriso il paesaggio del primo atto, quel Tivoli che sorgeva nei pressi del Teatro Fossati e fu un parco di divertimenti d’infimo ordine, sono l’ammirevole, angosciosa premessa a quanto vedremo in seguito. Difficilmente un apparato scenografico potrà suggerire il senso di squallore questa volta avvertito negli androni dell’asilo notturno e nelle aule del refettorio: pareti umide e grigie, sull’intonaco delle quali corre la geometria agghiacciante delle tubature del gas e dell’acqua potabile, ambienti che risuonano di voci diversissime […] in ognuna delle quali ogni poco riaffiora e domina l’accento della miseria.

Ritratto di una Milano lontanissima, tuttavia capace di ferire a distanza l’orgoglio cittadino. Donde il disagio, l’intima ribellione d’una parte di quanti avevano creduto di riconoscere nel titolo di Bertolazzi una specie di affettuosa vanteria rivelatasi poi crudelmente ironica. […]

La ricomparsa del Nost Milan, per chi ancora ne avesse dubitato, conferma tra l’altro di quale prontezza, sensibilità e vivezza, di quanta forza anticipatrice il nostro teatro dialettale sia stato e sia tuttora capace nei confronti del teatro in lingua. Si capisce benissimo che al Nost Milan il Piccolo Teatro abbia dedicato cure non minori di quante solitamente dedica ai testi di Shakespeare, di Ibsen o di Pirandello.

Raul Radice, “Il Giornale d’Italia”, 16 dicembre 1955

Una regia accorata e penetrante

La regia è più accorata che polemica, come il dramma stesso. Penetrante, senza incrudelire. Le innumerevoli annotazioni e il vario e mutevolissimo gioco della recitazione mai gratuiti, sempre agili e veridici nonostante le difficoltà da superare e che anzi hanno alimentato la fantasia di Strehler.

[…] Il povero Bertolazzi, così misconosciuto, così tartassato dalla fortuna e dagli attori, si sentirà ripagato dalle amarezze sofferte in vita? È una benemerenza che renderà più agevole, anche se il più tardi possibile, l’ingresso in paradiso di Paolo Grassi che tiene i cordoni della borsa del Piccolo oltre le fila della sua organizzazione, perché quella di aver ridato El nost Milan non è solo una bella ma anche una buona azione.

Massimo Dursi, “Il Resto del Carlino”, 17 gennaio 1956

La realtà cerca le proprie immagini

La commedia non mi pare sia una denuncia sociale ma qualcosa di più. È una verità sociale, contenuta in una valutazione pessimistica della realtà, animata da una partecipazione sorprendente al segreto quotidiano degli uomini. In tale partecipazione, Milano diventa una presenza insostituibile, ispiratrice e dimensionatrice del bene e del male quotidiani, dei limiti della realtà e delle suggestioni dei silenzi e dei luoghi. Tutto contenuto in una diretta e semplice espressione.

In tal senso, la miserabile scena iniziale di Luciano Damiani è un avvio preciso dell’incontro del mondo rappresentato. Giorgio Strehler ha unito alla Trilogia della villeggiatura e al Giulio Cesare, il massimo dei suoi risultati, un’altra stupenda regia. […] L’avvicinamento alle possibilità drammatiche dei personaggi avviene con notazioni sottilissime e persuasive. Il secondo e il terzo atto sono forse quanto di meglio Strehler ha fatto nella strada che diventa sempre più la sua: la realtà che non si limita e cerca le proprie immagini.

Roberto Rebora, “Sipario”, gennaio 1956

Uno spettacolo con pochi confronti nella scena contemporanea

È difficile dire con quanta abilità, con quanta intelligenza e con quanta precisione Strehler sia riuscito a portare in scena questa non facile opera di Bertolazzi, a sfrondarla di ogni frammentarismo e di ogni facile deviazioni folcloristica o populistica, a immetterla in un clima di purissima realtà scenica: a farne uno spettacolo che, in particolar modo nel secondo atto, raggiunge una perfezione di ritmo, una compattezza e una dosatura che trovano pochissimi confronti nella messa in scena contemporanea. E che dire dell’interpretazione, nella quale non è dato cogliere una incrinatura, una nota stonata o uno sfasamento di cadenze? […]

Anche il pubblico romano, superato un primo istante di difficoltà causato dal dialetto lombardo, ha sentito a pieno la bellezza e la penetrazione di uno spettacolo carico di una evidenza che va al di là dello stesso linguaggio, e che, specie nel secondo atto, ha raggiunto punte di emozione intensa.

Gli applausi a scena aperta non si sono contati, e poi altri battimani calorosissimi e otto o dieci chiamate dopo ciascun atto per tutti gli attori, e una autentica ovazione a Strehler quando si è presentato alla ribalta insieme con Damiani e Carpi.

Renzo Tian, “Il Messaggero”, 8 aprile 1961

Un miracolo di perfezione stilistica quasi impossibile da descrivere

Il Piccolo Teatro di Milano è a Roma, per la terza volta in oltre dieci anni di attività. […]

Quale esempio di civiltà teatrale, quale straordinaria testimonianza culturale sia alla base del lavoro del Piccolo, si può facilmente intuire di fronte al miracoloso spettacolo che, su quella verità, Strehler ha saputo costruire. Non è facile esprimere qui ciò che il palcoscenico suggerisce, l’emozione che se ne diffonde; è quasi impossibile riferire il miracolo di perfezione stilistica che definisce il secondo tempo, non si sa come esprimere la qualità di una interpretazione fatta di intelligenza e di passione. Il regista non si è concesso un solo abbandono; l’impostazione dello spettacolo è di un rigore esemplare, senza la minima concessione al colore: sorvegliatissima. Servono non poco, a questa definizione, le scene di Luciano Damiani, di un realismo puntiglioso e insieme allusivo, costruite su impasti di colore e di luce di altissima suggestione (e furono applaudite all’alzarsi del sipario). Un contributo di stile è fornito, ancora, dalle musiche di Fiorenzo Carpi.

Mario Raimondo, “La Giustizia”, 9 aprile 1961

Le due voci di Milano: una campana e le sirene

Una campana e le sirene: questi suoni, queste “voci” della città (Milano, 1893), che preme intorno agli stanzoni squallidi delle cucine popolari e degli asili notturni, non potrebbero meglio definire, alla conclusione del dramma, mentre il sipario lentamente si chiude sulla scena ormai vuota e straziante, la dialettica interna e l’equilibrio umano di una regia come quella con cui Giorgio Strehler ha restituito al palcoscenico, dopo mezzo secolo di deplorevole oblio, un testo vitalissimo, pungente, acre, commosso e risentito quale ci appare oggi El nost Milan di Carlo Bertolazzi.

Una campana e le sirene: non sono i soli suoni, le sole “voci”, che ricorrono in uno spettacolo dove i rumori, le musiche (musiche bellissime, ci pare, e certamente di una intensa suggestione, quelle di Fiorenzo Carpi) e persino lo strascicare di un passo sull’impiantito, lo stridere di una porta che si chiude, lo sciacquio nei lavabi, certi colpi di tosse, il rimestare delle stoviglie dentro i piatti contrappuntano esattamente i tempi e i toni della recitazione, riempiono le lunghe pause, trovano un preciso e puntualissimo timbro nel respiro di un’orchestrazione geniale. Ma questa campana, queste sirene incidono nel concerto rigorosamente, minuziosamente realistico, l’alternativa di due temi che proprio al realismo, o almeno alla sua stretta dichiarazione tecnica e rappresentativa, evidentemente sfuggono. La campana, infatti, sembra l’emblema di quelle vibrazioni romantiche, di quell’adesione sentimentale, di quella sorvegliata e cosciente concessione a un certo naturalismo e persino a certo melodramma che l’obiettività e la sensibilità di Strehler non potevano non accettare dalle pagine di Bertolazzi. E le sirene, invece, appaiono il chiaro simbolo cui è ricorso il regista nel suo intervento critico, chiarificatore (potremmo aggiungere “didascalico”, pensando a quanto Strehler abbia assorbito lo spirito e la lezione di Brecht) inteso a illuminare il significato storicistico, sociale, inevitabilmente polemico di un dramma tanto calato in un’epoca e tanto propizio a ricostruire un mondo, un ambiente, una condizione umana.

Le sirene che risuonano dietro le quinte, implacabili, a scandire i tempi del dramma e la cui estrema insistita vibrazione accompagna l’ultimo cadere del sipario, come un suggello estremamente significativo, non sono insomma che il simbolo della città industriale che nasce, di questa nuova città che s’annuncia e che respinge ai suoi margini chi è derelitto e indifeso, di questo nuovo mondo rigido e impietoso che si sta edificando anche a spese di chi ne ha paura, di chi non ha le forze per affrontarlo, di chi è costretto a scontare un’antica e inalienabile memoria.

Fra la campane e le sirene, fra l’adesione sentimentale e l’intervento illuminante, si sciolgono nella rappresentazione, come si è detto, gli umori vivi e pregiati di un realismo estremamente preciso. La ricostruzione storica e ambientale non potrebbe risultare più attendibile, né più puntigliosa. Ottenute da Luciano Damiani scene fedelissime nella ripetizione dei modelli reali, e pur così esemplari di uno squallore che è dentro le anime ancor prima che negli ambienti (quel luna park che annega le sue luci e le sue illusioni in una tristezza indicibile, quella cucina popolare, quel dormitorio, quei muri bianchi come di ospedale, quelle iscrizione perentorie, quei rubinetti gocciolanti sui lavabi, quelle panche rigidamente allineate, quella luce del giorno che si fa livida e spettrale come penetra dai finestroni e dagli opachi lucernari), Strehler ha concertato i suoi attori su tempi d’azione, su modulazioni espressive e su reazioni psicologiche che restituiscono mirabilmente il senso di una vita reale, di un fluire spontaneo di gesti e di parole proprio in un certo momento, in una certa città, in una certa classe sociale.

Personaggi e semplici figure, talvolta solo un profilo, uno schizzo, un’immagine sbalzata dallo sfondo, nei chiaroscuri dell’affresco, riescono fissati dai costumi (di Ebe Colgiaghi), dagli atteggiamenti, dai tratti caratteristici e dai timbri della recitazione con un rilievo icastico. Ma, nello stesso tempo, tutti partecipano e si accordano alle tonalità fondamentali del coro: la solidarietà di classe, la comune rassegnazione, certe affettuose complicità, l’inevitabile conciliarsi di ogni conflitto davanti agli unici e veri nemici che sono i “sciori” invisibili e lontani. Un coro, si aggiunga, che pare a volte comporsi nella cadenza di una eterna, solenne, lacerante liturgia della miseria.

Gian Maria Guglielmino, “Gazzetta del Popolo”, 22 ottobre 1961

Il miglior teatro che si possa desiderare

Lo spettacolo è di altissimo livello; il miglior teatro direi, quanto a regia, ad allestimento e a recitazione, che si possa desiderare. Il regista Strehler, a sei anni dalla prima edizione, s’è preoccupato d’interpretare con sensibilità più affettuosa la psicologia dei personaggi e l’atmosfera del tempo; ha smussato certe punte polemiche, abbandonato un po’ di facile “colore”, rinunciato a tanti “effetti” superficiali che il dramma suggerisce, per far risaltare meglio la dimessa, accorata e calda umanità del testo. […]

Perché El nost Milan, opera minore e dimenticata del Bertolazzi (non si rappresentava da 35 anni), ha avuto questa postuma rivalutazione? Non c’è che una risposta: per merito di Giorgio Strehler e del Piccolo Teatro. Come il goldoniano Arlecchino servitore di due padroni, pur restando un testo trascurabile nella produzione del nostro massimo commediografo, è diventato nell’ultimo decennio il nostro copione più universalmente applaudito (il Piccolo, infatti, l’ha portato in tutto il mondo), così El nost Milan, costruito come un grosso spettacolo, ha ormai in sé – al di fuori del testo – elementi di suggestione e di curiosità storico-ambientale sufficienti a farlo apprezzare da qualunque pubblico.

Vittorio Buttafava, “Oggi”, 12 novembre 1961

La nobiltà del mondo degli esclusi

La città e il popolo, questi erano i due elementi di cui disponeva Strehler per la sua messa in scena. La città, il popolo e la struttura di un melodramma. Si percepiscono le tentazioni: il pittoresco, l’aneddoto, l’ammiccamento, la derisione. Queste tentazioni, la regia le evita tutte.

È una messa in scena di una precisione prodigiosa. Talvolta documentaria, per l’insistenza del dettaglio, realista e lirica per una sorta di densità segreta, d’intensità trattenuta che giunge a una reale violenza nella denuncia dell’ingiustizia sociale. E questo senza urla, senza effetti, senza magniloquenza, senza le pie menzogne dei nostri bravi demagoghi, nella maniera più lucida e semplice del mondo.

Questa lucidità e questa nitidezza collocano la povertà nella sua solitudine, nella secchezza, nel freddo, nella durezza della sua solitudine. Dal primo atto dove, al Tivoli, la libertà resiste ancora agli attacchi di questa povertà, in cui ancora si sente come un’ultima gioia di esistere, fino al terzo atto, in cui il terribile strumento della carità massacra ogni dignità, ogni slancio, ogni coscienza, c’è una sorprendente, precisa, crudele e tenera osservazione di un mondo al di fuori della volontà, di un mondo soppresso, di un mondo che subisce e attende, e che non si può lasciare senza tradirlo, e che non si può lasciare senza umiliarlo: il mondo dell’indigenza, il mondo della miseria.

E Strehler restituisce a questo mondo la sua nobiltà, il suo carattere, la sua atmosfera sensibile, con una intelligenza del reale, una conoscenza franca del gesto, una preoccupazione per la verità più segreta che regala alla sua messa in scena, alla sua direzione degli attori, e fino alle più modeste indicazioni, una gravità, un tatto, una fermezza di cui il teatro non ci offre che pochi esempi. Interiorizzando il romanticismo, stilizzando il naturalismo o, più correttamente, riducendolo al suo movimento essenziale e raggiungendo così una sorta di bellezza austera, dona a questo testo frammentario, fatto di scene più o meno legate, e in cui i tratti più caricaturali abbondano, un potere di provocazione estremamente reale.

Per provocazione intendo una forza che ci obbliga a prendere questa o quella attitudine morale, e anche politica, davanti a una situazione, a un fatto, a un’affermazione che, al di là della ribalta, il teatro richiede.

Pierre Marcabru, “Arts”, 20 giugno 1962

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