Per farvela breve, questo atteso Giardino s’è aperto, s’è preso applausi a scena aperta e chiuso, s’è incontrato con il miglior favore della stampa, e adesso ha iniziata la serie delle repliche, che saranno lunghe e felici.
Andiamo a raccogliere, qua e là, qualche frutto di questo bel giardino di via Rovello, che anticipa di tutta una stagione l’avvento delle comuni ciliegie di nostra conoscenza? Cogliamo, vi prego, la più succosa, invitante: la ciliegia Sarah, sempre così nutriente e dissetante, doviziosa e adescante ogni volta di più. Oh gusto inenarrabile dei suoi stati d’animo altalenanti fra il genio e la sregolatezza della sua Liubov Andreievna, di cui la Ferrati ci dà, più che un ritratto, una scultura viva e parlante, piangente o sognante, smarrita o danzante: che brava…
E mordiamo questa opima, traboccante, rorida ciliegia Fulvia Mammi: già prima di coglierla ne pregustiamo il robusto sapore, quella polpa ubbriacante e tentatrice che ci fa sempre più riconoscenti alla Divina Provvidenza…
E assaggiamo, raccomando, questa fluida, morbida, ornamentale ciliegia Cei, ogni dì più godibile, più estrosa, più essenziale…
E gustiamoci la ciliegia Fortunato, la ciliegia Bonati: due colori, due sapori, due godimenti diversi, ma l’uno e l’altro tonificanti e validi per tutti i gusti, padronali o ancillari…
Questo il ricco grappolo di fresche e belle ciliegie femmine di via Rovello, al banco di vendita Grassi-Strehler.
E i ciliegioni maschi?
Spicca, svetta, emerge Tino Carraro, il mercante. La fa subito da padrone, da maneggione, da deus ex machina, nel pericolante Giardino dove le foglie sono un po’ come le foglie giacosiane, e come quelle cadranno, ma nelle sue mani, lo sapete. S’è combinata una faccia da Čechov, indovinatissima: e con quella adesca e suggerisce, consiglia e profitta delle circostanze, il “lavorato” Lopachin di Tino Carraro. Mi sbaglio, o è una delle felici creazioni del Nostro? Si vedano, fuor delle sue battute così convincenti, certi suoi silenzi, certe sue pause e controscene di una eloquenza potentissima: arte dei veri attori è il sapere ascoltare quanto e forse più del saper dire.
Quasi in ombra appare Luigi Cimara: lo si vede di passaggio, nel fondo, al suo primo apparire in scena, con relativo applauso di sortita. Ma lui tira via, passa ed esce con gli altri. E quando riappare per le sue scene, è sempre come volesse un poco distaccarsi, oscurarsi, annullarsi. Ma non ce la fa: alla sua personality non si addice l’ombra. Più lui si trae indietro, più il pubblico se lo gusta e gode, divorandoselo con gli occhi.
Lo studente Pietro (occhiali obbligati) è Giancarlo Sbragia: meticoloso, buon oratore, distinto ballerino, eccellente virtuoso di balalaika, primeggerebbe in un buon coro di Cosacchi del Don, posto che Strehler avesse voluto, ma non ha voluto, peccato.
Invece primeggia, in casa di Liubov Andrejevna, il decrepito Firs, ritrattato a meraviglia da Aristide Baghetti. Dà il tono, di splendore e decadenza, assieme, a tutto il complesso. Stupendo Aristide: presta i suoi anni ottanta agli ottantasette del vecchio servitore, con tutta la religione che soltanto i grandi vecchi comici italiani sanno osservare, e badate: non un sostantivo, non un aggettivo, non un verbo o avverbio solo che da quelle labbra vien fuori, si perde, per basso e soffocato che sia, bisbigliato o sospirato appena! Nessuno, in sala, grida a lui «Voce!» oppure «Forte!», come purtroppo succede ogni volta che il “recitare Čechov” impone misura e smorzatura, com’è la legge. Giù il cappello, amici, al decano dei comici italiani in attività di servizio.
Luciano Ramo, “Film d’oggi”, 27 gennaio 1955