La Tempesta

1948

Per la prima regia lontana da via Rovello, appena un anno dopo la fondazione del Piccolo, è il luogo a suggerire la scelta dell’opera. Dopo aver perlustrato a lungo il Giardino di Boboli, invitati all’undicesima edizione del Maggio Fiorentino, Strehler e i suoi collaboratori scoprono la Vasca dei Cigni, con l’isoletta in mezzo e la statua di Nettuno al centro. Il luogo non è un pretesto: nonostante le limitate possibilità materiali vi è un’assoluta pertinenza tra l’ambiente e l’opera, tra l’incanto del giardino mediceo e quello della magica isola di Prospero.  Era stata interrotta dalla guerra la tradizione di spettacoli all’aperto che aveva visto, a Firenze, Jacques Copeau allestire La rappresentazione di Santa Uliva e Come vi piace e Max Reinhardt il Sogno di una notte di mezza estate e, a Venezia, di nuovo Reinhardt, mettere in scena Il Mercante di Venezia. L’allestimento della Tempesta (per il quale viene concordato il solo rimborso delle spese) è un modo per riprendere una tradizione, ma comporta diverse difficoltà e si rivela quasi un’impresa da pionieri. La compagnia è alloggiata in alcune tende, comprese l’amministrazione e la direzione; spesso le prove sono disturbate dalle rane della vasca. Per giorni e giorni, inoltre, continua a piovere; di conseguenza, il tempo delle prove è limitato alle pause della pioggia.
La Tempesta, nella nuova traduzione di Salvatore Quasimodo, si svolge dunque al centro dell’isolotto, ingrandito per l’occasione. Le gradinate e la platea trovano posto sulle sponde, le tribune del campo sportivo sono trasformate in palafitte e sistemate su un lato della vasca in modo da offrire la maggior visibilità. Tutto concorre, come ricorda lo stesso regista, a creare «uno spettacolo fresco, giovane, con un suo ritmo, suggerito dalla bellissima cornice naturale».

Personaggi e interpreti

Alonso Mario Feliciani
Sebastiano Nino Manfredi
Prospero Camillo Pilotto
Antonio Gianni Santuccio
Ferdinando Giorgio De Lullo
Gonzalo Edoardo Toniolo
Adriano Gianni Lotti
Calibano Marcello Moretti
Trinculo Vittorio Caprioli
Stefano Antonio Battistella
Il capitano Carlo D’Angelo
Il nostromo Ettore Gaipa
Miranda Luisa Rossi
Ariele Lilla Brignone

Scene di Gianni Ratto
Costumi di Ebe Colciaghi
Musiche di Fiorenzo Carpi
su temi di Domenico Scarlatti
dirette da Ettore Gracis
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Soprani Renata Broilo, Magda Bronzoni
Pianista Gianni Del Testa
Coreografia di Rosita Lupi

Testo di William Shakespeare
Traduzione di Salvatore Quasimodo

Regia di Giorgio Strehler

Firenze, Giardino di Boboli, 6 giugno 1948

Strehler ne parla

Con la splendida e necessaria incoscienza della gioventù

Lo stesso anno [1948], nell’estate, con la splendida e necessaria incoscienza della gioventù, allestii all’aperto a Firenze l’ultimo Shakespeare, quello della Tempesta.
Ho ritrovato nella memoria accenni di quello spettacolo e, sul mio tavolo, esistono i copioni del suggeritore, con indicazioni semplici ed eterne: entrano i ballerini, Ariele canta, si preparano i buffoni (ripenso a quel Giunone del masque della Tempesta), qui si spegne la luce, si accende una luna, nell’equivoco dello spettacolo en plein air che personalmente ho sempre detestato, ma allora molto meno poiché la “magia” della notte della festa del teatro era pur sempre lì presente, come lo era, in un assurdo stilistico, ad Avignone, in certe notti del primo Théâtre Populaire di Vilar, quando alla fine ci si sedeva, pubblico e attori, con Gérard Philipe e tanti amici scomparsi e con la gente a parlare di un nuovo teatro e di una nuova società sotto le stelle. In quell’equivoco nacque La tempesta, sempre con poche prove, poca riflessione, molto timore spazzato via dalla necessità di “far andare in scena lo spettacolo”, costi quello che costi. Scelsi tra molti luoghi possibili un luogo acqueo: la Vasca dei Cigni di Boboli, una grande vasca con un bellissimo Nettuno nel centro. Quel centro divenne l’isola della Tempesta, la statua il culmine dell’isola, con un Giove marino a proteggere e minacciare un sipario d’acqua, e il pubblico al di là del bordo della vasca. Tra il pubblico e l’isola, il simbolico luccicare nel buio e nel riflesso dei fuochi. Oggi che sto lavorando alla Tempesta dopo secoli, di nuovo, quasi alla fine di una storia, ritrovo alcune realtà di allora, in modo diverso: l’elemento marino, per esempio, l’acqua, l’isola-mondo, nel cerchio di una platea coinvolta e spettatrice. Un accento “rinascimentale” in quel Giove di marmo. Ci furono musiche, sempre di Carpi, ricche e decisamente orientate in una direttrice culturale che mi lascia perplesso ma che rispondevano in quel momento a una ragione: grande orchestra e coro, danze e note di uno Scarlatti ritrovato e “più avanti” del tempo della rappresentazione.
Magia esteriore, incanti e lazzi dei buffoni, non profondità e meditazione, non la disperazione inquieta che mi pare oggi di aver ritrovato, non quegli interrogativi supremi che mi pare siano chiusi nella Tempesta. Non esisteva, ricordo, Caliban… poco Ariel… Prospero… aveva poche dimensioni. Ma i due buffoni legati coraggiosamente al rondò della Commedia dell’Arte, uno napoletano e l’altro veneto, uno un Pulcinellaccio, e l’altro uno Zanni primitivo, resistono ancora come fatto critico al vaglio del tempo, anche se con diversi accenti.
La tempesta aprì e chiuse, per me, in quel primo anno, un itinerario shakespeariano che si sarebbe riempito ben presto di molte altre opere. Uscii da quel mettere in scena Shakespeare molto più consapevole e molto più cosciente della complessità dei problemi da affrontare nel futuro. Credo, per un altro verso, che quello fu un momento capitale del mio lavoro formativo. Anche se fu un momento brutale e violentatore.
La traduzione della Tempesta fu preparata da Salvatore Quasimodo espressamente per noi. Fu anche questo un fatto pieno di significato: il legare il nome del poeta Quasimodo a un’avventura di teatro mi pare non possa andare sottovalutato, quale che sia il giudizio che noi si possa oggi dare oggettivamente sulla sua traduzione per certi versi straordinaria, al di là della sua “esattezza” filologica o meno.

Da una conferenza tenuta a Roma il 29 marzo 1978 nell’ambito di un Seminario sul teatro elisabettiano; pubblicata in Shakespeare e Jonson. Il Teatro Elisabettiano oggi, a cura di Agostino Lombardo, Roma, Officina Edizioni, 1979; successivamente in Giorgio Strehler, Shakespeare Goldoni Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Il Saggiatore, 2022.

Suntuosità rinascimentali e incantesimi di luci

Avevano contato molto le suggestioni dello spettacolo en plein air. Avevo voluto cogliere, anche, certi aspetti del teatro come festa. La stessa ricerca andavano facendo, in quegli anni, anche Jean Vilar e Gérard Philipe nelle notti d’estate dei primi Festival d’Avignone, quando recitavano i classici tra le pietre bianche del Palazzo dei Papi, e poi stavano a discutere con gli spettatori sotto lo stellato della Provenza… Il mio ricordo di quello spettacolo? Da un lato un senso autocritico, naturalmente, per quanto di immaturo c’era ancora in quel mio approccio a Shakespeare. Diciamo che, in quella mia prima immersione, ero andato “a media profondità”. Ma il mio ricordo è anche quello di uno spettacolo fresco, giovane, con un suo ritmo, suggerito dalla bellissima cornice naturale. C’era la grande vasca dei cigni di Boboli, con un suggestivo Nettuno al centro; e quel centro divenne l’isola di Prospero. La cornice suggeriva sontuosità rinascimentali, incantesimi di luci nell’acqua che divideva il pubblico dall’isola, ed effetti musicali, naturalmente. Nelle successive edizioni avrei sottolineato la centralità del personaggio di Prospero, avrei dato più rilievo al ruolo di Calibano, che a Boboli era sostenuto dal bravo Marcello Moretti, e alla figura di Ariele, ch’era Lilla Brignone. E avrei ripreso anche quel rondò di buffoni venuti dalla Commedia dell’Arte, anche la metafora dell’isola-mondo. Insomma, credo che quella Tempesta avesse i suoi pregi…

Io, Strehler. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986

Una vera isola per Prospero

La Tempesta. A Boboli. Nello stupendo giardino di Boboli, allora meravigliosamente curato e lussureggiante nonostante la guerra ancora recente. Quando oggi ho rivisto quel luogo, violentato da scritte oscene, con i viali sconnessi, i bei disegni del giardino all’italiana scempiati dall’incuria e dall’incultura di quest’epoca buia che chiamiamo dello spettacolo, mi si è stretto il cuore. Mi sono chiesto se non fosse stato un miraggio della giovinezza, quella grande fontana, col Nettuno trionfante d’acque, il respiro degli alberi nella notte e l’errare leopardiano delle «lucciole appo le siepi». Ma ho guardato attentamente le poche fotografie rimaste, non solo dello spettacolo, ma quelle, più impietose ancora, delle prove. Non fu un miraggio. Fu la realtà della bellezza italica, un esempio di tutte le bellezze che avremmo dovuto amare e difendere e che l’Italia del consumo, dell’ottimismo e dell’apparenza non ha saputo conservare per il mondo. Provammo in quel luogo magico, nell’estate che fu povera di sole e spesso fredda. L’isola di Prospero fu veramente un’isola, al centro della grande Vasca dei Cigni, piena d’acqua. E il pubblico, o almeno una parte di esso, aveva proprio l’acqua sotto di sé. Rivedo provare Battistella-Trinculo con l’impermeabile e uno strano berretto da pescatore in testa e Moretti-Calibano in tuta con mille asciugamani avvolti – fu poi una sua sigla – e De Lullo-Ferdinando giovanissimo e bellissimo, la bellissima e giovanissima Luisa Rossi-Miranda e Lilla Brignone, un Ariel quasi comico, un po’ clownesco. Non l’ho dimenticato questo, tanti e tanti anni dopo, in un’altra edizione della Tempesta che rappresenta forse “lo spettacolo” della mia vita.

La Nascita, l’Infanzia, l’Adolescenza, in Il lavoro teatrale. 40 anni di Piccolo Teatro, Milano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Vallardi e Associati Editori, 1987

Documenti

Ettore Gaipa. Un coro di rane per Shakespeare

Il successo di Riccardo II [23 aprile 1948] ebbe un effetto pratico quasi immediato. Strehler e il Piccolo Teatro furono interpellati dal Maggio Fiorentino per la messinscena della Tempesta in Boboli.
Già una volta il Piccolo Teatro era stato invitato a una manifestazione a carattere internazionale, ed era stato poco prima dell’apertura della sua seconda stagione, quando, cioè, aveva ripreso al Festival di Venezia L’albergo dei poveri. Ma, per il Maggio Fiorentino 1948, si trattava di uno spettacolo da creare appositamente, e in luogo ben diverso da un teatro chiuso. Per di più, si trattava di un testo in cui le interpretazioni hanno sempre avuto infiniti strascichi di discussioni, dibattiti, polemiche.
Per la prima volta nella sua carriera, Strehler si trovava a dover risolvere i problemi di una messinscena all’aria aperta, e con un testo di tal impegno. Per la prima volta la sua coscienza professionale dovette sostenere una lotta con se stessa, al punto da portarlo quasi a rinunciare. Ma l’esperimento era troppo importante e allettante perché vi potesse rinunciare, sia pure a seguito di fondatissimi motivi. E, d’altra parte, troppo formativa sarebbe stata un’esperienza del genere, per poterne fare a meno, attendendo onestamente un periodo di più profonda maturazione.
Presa la sua decisione, cominciò il lavoro di preparazione, e cominciarono i sondaggi con alcuni attori estranei alla compagnia. Si pensò a Giorgio De Lullo per la parte di Ferdinando, e alla giovane Luisa Rossi per quella di Miranda. Salvo Randone fu interpellato per la parte di Prospero, che, poi, fu interpretata da Camillo Pilotto. […]
Più volte Strehler si recò a Boboli, a studiare profondamente i criteri che avrebbero ispirato il suo spettacolo, e la gestazione di esso fu quanto mai laboriosa. Innanzitutto si veniva a creare un problema scenografico di estremo interesse, e cioè l’inserimento di una scenografia in un ambiente naturale che non poteva restare avulso da essa, e doveva, in un certo modo, condizionarla. Per di più, la Vasca dei Cigni suggeriva, sì, l’idea dell’isola: ma come creare un’isola di fantasia, in un ambiente naturale reale, e, di più, “coltivato”, come un giardino? A tutto questo, poi, era da aggiungere… il problema dell’acqua: acqua vera, ma… non illuminabile come, invece, una scena artificiale!
A questi problemi si aggiungevano quelli spiccatamente teatrali come le risoluzioni delle magie di Prospero, del seguito di Ariele, della figura fisica, della voce, della definizione plastica e dinamica di Calibano, e, non ultimo, il problema della coppia Stefano-Trinculo, che Strehler ambiva risolvere, confortato da Benedetto Croce, sul piano di una derivazione dalla Commedia dell’Arte, ma con tutti i timori e i pudori che la sua coscienza creativa e critica gli imponeva.
C’era poi da considerare un elemento importante in rapporto alle vie che, fino a quel momento, egli aveva percorse. Con la sola eccezione del Mago dei prodigi, egli aveva mostrato, fino alla Tempesta, un amore verso l’interiorità e l’essenzialità, che una messinscena all’aperto non poteva che mettere a dura prova. Elementi esterni, come una suggestione coreografica, musicale, o anche soltanto ambientale, venivano ad assumere un rilievo che egli non avrebbe potuto ignorare. E fu proprio sul piano coreografico e musicale, in stretta dipendenza tra loro, che egli dovette affrontare le difficoltà maggiori, con i suoi collaboratori, Fiorenzo Carpi e la coreografa Rosita Lupi.
Dopo matura riflessione, egli decise di affidare il tessuto musicale alla rielaborazione di temi di Domenico Scarlatti, cercando in tal modo di interpretare un certo spirito, più che affidarsi a una soluzione, per così dire, storicistica, e valersi di musiche inglesi o continentali dell’epoca (Purcell, Dryden, ecc.). […]
A mano a mano che la scena di Ratto prendeva corpo, Ariele e i suoi spiriti si rarefacevano sul tessuto dei temi scarlattiani, che Carpi aveva intelligentemente elaborato. Calibano assumeva sempre più l’aspetto di un essere mezzo uomo e mezzo balenottero, che gorgogliava le sue frasi con una dizione che esprimeva il passaggio non ancora avvenuto tra questo e quello stadio di evoluzione della specie. Stefano e Trinculo si esprimevano rispettivamente in un veneziano e in un napoletano arcaici, che ben esprimevano la trasposizione dei motti originali shakesperiani. Ferdinando e Miranda si muovevano in una sfera distaccata, già diversa da quella della corte naufragata. E infine Prospero trovava una nobiltà misteriosa di accenti, ma anche una definitiva e terrestre corposità.
Furono prove snervanti. Non era facile adattarsi al luogo, anche perché, al caldo soffocante delle prime ore serali. Inoltre, la vastità dell’ambiente e le asperità dei vari luoghi dell’isola costringevano attori e danzatori a reali fatiche. Non ultima difficoltà da vincere fu… il coro di rane della vasca: un coro continuo e fastidioso, che faceva da contrappunto alle fasi più salienti della recitazione!
La questione delle rane fu risolta drasticamente, esse furono stordite e ridotte al silenzio in una specie di bagno elettrico! E questo procurò al Maggio Fiorentino una spettacolare causa con la Società Protettrice degli Animali!
La prova generale si svolse sotto una pioggia incessante, e questo fatto accentuò i dubbi e le incertezze su un giudizio reale dello spettacolo. Ma, dopo la prima, il tono della critica fu concordemente entusiastico.

Ettore Gaipa, Giorgio Strehler, Bologna, Cappelli, 1959

Ettore Gaipa. Un palcoscenico sulla Vasca dei Cigni

La scena, impiantata nella Vasca dei Cigni con un andamento a gradoni o gironi concentrici, indicava luoghi deputati che, dal gradone inferiore affacciantesi sull’acqua, salivano a mostrare a sinistra la grotta di Prospero, la zona di Calibano e, a destra, i luoghi su cui venivano gettati rispettivamente i cortigiani e Ferdinando dalla tempesta. Più in alto, dove le rocce e gli anfratti cedevano a una più fantasiosa vegetazione, apparivano di regola gli spiriti di Ariele, in un iter dall’alto verso il basso, quasi a sottolineare gestualmente l’impatto con gli “uomini”, mentre Calibano non superava mai la linea che, dall’acqua agli anfratti, arrivava fino al mondo di Prospero e Miranda. Il culmine dell’isola, alla base della statua di Nettuno, era il punto di partenza del masque e veniva quasi a simboleggiare al tempo stesso il vertice della potenza magica di Prospero, ma anche il suo punto di arrivo e la sua fine.
All’erompere della tempesta musicale su uno dei temi scarlattiani elaborati da Fiorenzo Carpi, la nave di re Alonso percorreva il semicerchio d’acqua da sinistra a destra senza arresti o soluzioni di continuità, su uno sciabolare di luci che colpiva i personaggi a lampi intermittenti, mentre l’acqua restava il più possibile all’oscuro. Soltanto dopo il placarsi della tempesta e nel giorno che seguiva alla notte degli elementi, anche l’acqua cominciava a vivere. Per qualche istante la luce centrava l’acqua e le zone più alte dell’isola, lasciando sulla sinistra Prospero e Miranda in semioscurità e rivelandoli gradualmente con un lento movimento dall’alto verso il basso, dopo aver dato l’illusione che i due corpi umani fossero parte immobile della scenografia.
Sul sonno di Miranda iniziava un mutamento di luce a cui seguiva la musica di Ariele, che appariva da destra in alto e assumeva posizioni sulla zona opposta a Miranda, la sinistra, che restava in ombra quasi totale. Sempre a destra, in basso, strisciava verso Prospero Calibano, comunque preceduto dall’apparizione di Ariele come ninfa marina e da rapidi mutamenti di luce che culminavano nell’apparizione del “mostro”.
Dall’estrema destra in alto, Ariele guidava Ferdinando con il suo canto (Venite a queste sabbie d’oro e Tuo padre è là nel fondo a cinque tese) mentre Ferdinando, come incantato, seguiva la voce e la musica dal basso. Al termine dell’apparizione e dell’uscita degli spiriti, Ferdinando veniva a trovarsi quasi di fronte a Miranda che, guidata da Prospero, era tornata alla sua posizione durante la scena precedente. […]
Il secondo tempo iniziava, musicalmente, nel segno e su un largo motivo di pace degli elementi. A un primo pizzicato di luci che spioveva dalle zone alte e chiazzava ancora parzialmente certe altre, seguiva l’illuminazione della zona di Prospero, preceduta da quella della zona dove Ferdinando usciva, impegnato nel suo lavoro. Miranda lo seguiva dapprima solo con lo sguardo, da lontano. Poi, a misura che gli si appressava, Prospero appariva davanti alla sua grotta, convenzionalmente invisibile nel suo mantello magico. La scena d’amore fra i due giovani, assai parca di movimenti, accennata persino nelle azioni reali che portavano Miranda ad aiutare Ferdinando nel suo lavoro, era come un avvicinamento al centro della scena, un avvicinamento che, però, restava incompiuto: come a sottolineare che, ancora, Miranda restasse nella sfera di Prospero e Ferdinando in quella del lavoro come terapia di riscatto umano. Accentuata era la separazione da parti diverse; e tutta la scena rivelava, come impostazione, un misto di cerimoniale cortigiano (Ferdinando) e di innocenza primitiva (Miranda).
La seguente scena Calibano-Trinculo-Stefano iniziava già sopra le righe, con i tre personaggi in stato di avanzata ubriachezza. Il disegno eversivo, le interruzioni di Ariele, gli equivoci sonori, tutto si animava di musiche e suoni mentre si accentuava il carattere da Commedia dell’Arte nei movimenti. […]
All’apice di tensione e follia di questa scena faceva contrasto la serena gravità della seguente, in cui Prospero conduceva Ferdinando e Miranda verso quel centro simbolico della scena dove aveva luogo l’unione fra i due giovani. Qui Ferdinando s’è già liberato dei modi di corte e Prospero della sua durezza.
Il masque nasceva dalla grotta alla base della statua di Nettuno e – a parte Iride (Ariele) – era cantato da Cerere e Giunone. […]
Ora Prospero scendeva dalla zona alta, avvolto per l’ultima volta nel suo mantello magico e impugnando la bacchetta – e l’umanità, che il suo spirito di vendetta aveva conculcata, si rispecchiava in quella nascente in Ariele prossimo alla libertà. Dopo il grande monologo («O elfi dei colli…») e l’iscrizione dei cortigiani nel cerchio magico che, da folli, li faceva immobili, Prospero si liberava dal manto e contemporaneamente cominciava a sciogliersi la loro rigidità. Ma prima aveva luogo il commiato di Ariele e l’ultimo ordine: svegliare la ciurma, condurre tutti sul posto. Al centro dell’isola si scioglieva l’incantesimo, avveniva l’agnizione, la riconciliazione, il ricongiungimento di Ferdinando con il padre, l’ingresso del Nostromo e dei rivoltosi; e, oltre la clausola finale della ragione e del perdono, l’epilogo, preceduto da una festa di fuochi artificiali. Le parole dell’epilogo – pronunciate in proscenio – arrivavano sull’ultima eco e sulle ultime tracce dei fuochi e mostravano Prospero, libero nella sua finale condizione di uomo dalla “debole forza”, senza più spiriti e sortilegi, ora invocante dal pubblico «l’aiuto buono delle mani» e la preghiera che lo liberi da ogni peccato. […]
I costumi – rinascimentali, ma già anticipanti il barocco – erano fondamentalmente di panno Lenci, con colori pastello che includevano anche Stefano e Trinculo (Brighella-Pulcinella), il Nostromo e il Capitano. Calibano aveva dell’incerata e della canapa. Gli spiriti e Ariele avevano fondi di calzamaglia e ornamenti che alludevano a uccelli. Ariele, comunque, aveva sovrapposizioni di materiale leggero, seta probabilmente, in una specie di trait d’union con il mondo rinascimentale-barocco e una specie di allusione ad ali. Del resto, le braccia degli spiriti erano anche embrioni di ali.
I luoghi deputati dell’isola non erano mai totalmente isolati luministicamente, anche se sottolineati da effetti specifici. Non si estingueva mai un piazzato generale, a parte l’apparizione di Ariele-Arpia e il braccaggio di Calibano e compagni da parte della muta di cani. Le luci esprimevano il trapasso dalla notte della tempesta all’alba del nuovo giorno, fino alla sera della cadenza finale. Quindi, un ampliamento delle quattro ore entro le quali si svolge, secondo Shakespeare, l’azione scenica. Il masque avveniva in un pieno fulgore di tramonto.
I temi di Domenico Scarlatti erano a grande orchestra (dirigeva Ettore Gracis) e con interventi corali. Il golfo mistico era il sottosuolo dell’isola. L’effetto sonoro era quasi sempre di doppia eco, sotterranea e area, come se venisse contemporaneamente dal fondo della terra e del mare e dall’aria.
Gestualità: Ariele e gli spiriti volutamente convenzione barocca; parziale legnosità in Stefano e Trinculo; movimenti da acquario in Miranda e Ferdinando; statuarietà di Prospero; Calibano rotolava.

Ettore Gaipa, La Tempesta 1948 a Boboli, 1978, note inedite dattiloscritte – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Rassegna stampa

Una tappa nella rinascita del nostro teatro

Uno spettacolo all’aperto impone al regista tutta una serie di problemi di estremo interesse e di difficoltà tanto maggiori, nonostante le apparenze, quanto maggiore è la bellezza e la suggestività del luogo. Per la prima volta, si utilizzava per uno spettacolo l’isolotto della Vasca dei Cigni; l’acqua verde e stagnante del laghetto contornato da altissime siepi di lecci, le statue sorgenti dalle acque, il solenne Nettuno del Giambologna al centro dell’isola, e la profondità serena di queste notti fiorentine e i fruscii notturni del bosco, erano altrettanti elementi di incanto e di magia. Ma altra era la magia da ricercare sui pendii dell’isolotto genialmente trasformato da Gianni Ratto in un rupestre scoglio; Strehler doveva forse prima di tutto vincere queste suggestioni, riportare le parole a una forza incantata tale che potesse resistere alle seduzioni della natura, e in essa fondersi e armonizzarsi. E, in gran parte, la regia è riuscita a compiere questo miracolo, proprio in vista della esatta impostazione filologica, e cioè della presenza sempre avvertita e sempre risolta di quel sottofondo di teatro popolare, che ha permesso la collocazione di ogni personaggio, di ogni gruppo nella sua giusta luce.
Qui è tutto un gioco di luce e di ombra, di male e di bene, l’uno e l’altro umani: tanto la cospirazione del tenebroso Antonio (uno dei più stupendi personaggi shakespeariani, che Santuccio ha reso in modo perfetto), quanto l’angoscia e la debolezza del re o il cicalare utopistico del vecchio Gonzalo (interpretato dal Toniolo).
In una sfera più celeste si muovevano Miranda e Ferdinando, le due creature d’amore: il loro linguaggio pare nato dallo stile galante, ma insieme si libra nella zona profonda e misteriosa dove vivono quei gioielli che sono i sonetti di Shakespeare; Luisa Ranieri e Giorgio De Lullo hanno dato loro la lievità e il profumo della giovinezza.
Alto su tutte le figure del dramma, si erge Prospero. Pilotto è stato veramente mirabile per maestà e naturalezza, una delle sue più alte interpretazioni. Prospero ha scoperto nella sua voce calda e nei suoi gesti sicuri il perfetto equilibrio tra la saggezza veramente montaignana dell’uomo rinascimentale, dominatore delle forze naturali e soprannaturali, e la melanconia virile della pietà, del perdono, della solitudine […].
Gli spiriti folletti erano svaniti nell’aria: Lilla Brignone che ha dato un Ariele tutto incorporeo, vivo solo per la sua ansia di gioco, di verità, di libertà, aveva guidato nell’ombra il corteo delle apparizioni, che per tutta l’opera avevano circolato come l’aria e come i sentimenti tra figura e figura; e ora forse i grilli e gli uccelli addormentati nel grande parco li udivano passare col vento della notte.
Lo spettacolo ha segnato una vera tappa nella faticosa rinascita del nostro teatro, e ne va reso merito al Piccolo Teatro e alla Soprintendenza del nostro Maggio Musicale. Tutti i più bei nomi del Teatro italiano, critici, registi, attori, erano tra il pubblico, oltre a numerose autorità. Accoglienze caldissime.

Bruno Schacherl, “l’Unità”, 8 giugno 1948

In una pura atmosfera di sogno

Prospero spezzò e nascose sotto terra la sua bacchetta magica, ma la ritrovò e la ricompose ieri sera Giorgio Strehler per le meraviglie degli spettatori che dai viali cintati di meraviglie verdi, attraverso misteri di ombre e di luci, scesero alla Vasca dei Cigni. Ne era emersa l’isola ricca di rocce, di antri muscosi e di vegetazione, risonante di lontane musiche e arcane voci. Il merito maggiore della regia di Giorgio Strehler è stato quello di aver liberato il dramma da tutto quanto potesse sapere di macchinoso, di costruito, di tecnicamente teatrale e di averlo tenuto in un’atmosfera poeticamente pura, irreale. Il Piccolo Teatro ha potuto scrivere una bella pagina di questo Maggio Fiorentino […].
Vivo e commosso è stato il successo. La grave e umana stagione di Pilotto in Prospero, la poesia e la dolcezza di Lilla Brignone nello spirito di Ariele, il buffonesco contrasto di Moretti, Battistella e Capriolo, l’artistica compostezza di Santuccio, l’ingenua dolcezza di De Lullo e di Luisa Rossi hanno conquistato gli spettatori unitamente alla mirabile scenografia di Ratto, alle suadenti musiche di Carpi su temi dei due Scarlatti. Lo zampillare delle fontane intorno all’isola, che aveva l’incarico di sipario, ci ha rinviato, infine, alla realtà: ma il sogno è durato, e durerà ancora molto, nel ricordo.

Giulio Trevisani, “l’Unità”, 9 giugno 1948

Una finzione sempre più credibile

Un rincorrersi di bianche scalinate, di prati verdissimi, di alberi finti armoniosamente accostati a veri, di grotte e anfratti, di relitti e, sul fondo, a ventaglio, una cupa scogliera nel mezzo della quale spiccava, senza disturbare, il Nettuno autentico del Giambologna. Si trattava di realizzare un aggancio fra il reale e il fantastico, di inserire il testo come stato poetico in una architettura da giardino ricreata dagli accostamenti di una scenografia che fosse così accorta da non violare l’armonia dei volumi preesistenti.
Bisognava operare questa fusione senza troppo appesantire, anzi creando zone e spazi in cui l’azione potesse svolgersi con quella lievità che, sbrigliata e acuta nel Sogno di una notte di mezza estate, si fa qui più lirica e pensosa. Questo il non facile compito che l’intelligente fantasia di Ratto ha risolto in modo egregio, fornendo al regista il primo mezzo per la costruzione dello spettacolo.
E Strehler non avrebbe potuto valersene meglio, dando al testo una realizzazione affascinante e suggestiva.
[…] Dopo le prime battute, l’isola si è veramente trasformata, animata da immagini incantevoli, soffusa di luci morbide, percorsa da teorie leggerissime di spiriti suscitati da un Ariele, cui la grazia di Lilla Brignone pareva veramente aver conferito un’esistenza immateriale. Di contro Calibano, Marcello Moretti, mostro informe e pure scosso da fremiti umanissimi, trascinava penosamente la sua ripugnante sembianza. E, man mano che l’azione proseguiva, più credibile si faceva la finzione, più propensa la nostra fantasia a lasciarsi prendere dal giuoco suggestivo delle luci, delle parole, dei suoni, meno avvertibili i limiti, sempre così precisi, tra realtà e sogno.
[…] E su questo paese di sogno il fascino immenso di una notte di giugno verso la quale si levavano le arie di Scarlatti, intelligentemente rielaborate dal gusto musicale di Fiorenzo Carpi.
E non si pensi, dopo quanto si è detto, che la regia, abbagliata dalle infinite risorse che il testo offriva, abbia sacrificato questo, a un gioco raffinato, a formule di suggestioni spettacolari: ché, anzi, ciò che di più sostanziale La Tempesta possiede, quel fiducioso messaggio di comprensione e di umanità che lo stanco Shakespeare pare abbia voluto lasciare per bocca del magnanimo Prospero all’attenzione di tutti gli uomini prima di ritirarsi nella vagheggiata pace di Stratford, mi pare abbia trovato in Strehler e nei suoi collaborati interpreti rispettosi e capaci.

Romolo Valli, “Reggio Democratica”, 10 giugno 1948

Questo sito utilizza sia cookie tecnici sia cookie di parti terze per il funzionamento della piattaforma e per le statistiche. Può conoscere i dettagli consultando la nostra Privacy Policy.