Idea critica base per la IV puntata televisiva
Se la prima puntata era: adolescenza-scoperta della vita come teatro – sogno tutto bello, tutto musicale, tutto gioia con appena qualche amarezza, ma subito perdonata, protezione paterna, viaggi felici;
se la seconda era: passaggio alla giovinezza “vera” e dissipazione, la vita non più come sogno ma come realtà anche o spesso tragica, come illusioni che muoiono, la guerra, il vizio, il tradimento, la stupidità degli uomini, il teatro come tentativo fallito e infine come “salvezza”, perché solo là, nel Teatro, quasi contro il Mondo cattivo, si può trovare calore e solidarietà umana e, infine, inizio di un destino “estetico”, teatro come “una riforma da fare”, ancora imprecisa ma già presente;
se la terza è stata “l’inferno teatrale”, la scoperta accettazione della missione teatrale, del teatro come “cosa legata al mondo”, “Teatro e Mondo”, insieme, col suo male e il suo bene, la sua fatica, la sua lotta; il precipitarsi di tutto nel teatro e il perdervisi fino allo stremo, alla “follia” delle 16 commedie in un solo anno, con l’ultima illusione di “cambiare” subito, qualcosa;
la quarta puntata è lo scoprire che le “cose” non cambiano per un’avventura di teatro, per quanto totale essa possa essere. Che un “cambiamento delle cose” (cioè vita, storia, uomini, situazioni storiche, costumi, ecc. ecc.) è qualcosa di molto più lungo e più lento. Che se “Mondo e Teatro” costituiscono un tutto, come esperienza di un essere umano, e non solo un contrasto (sono dialettica, continuamente sana e riaperta), il teatro non cambia il mondo di per se stesso, non cambia neanche il teatro, in un certo senso o, comunque, non lo cambia che in piccola misura, non proporzionata allo sforzo che costa.
Il teatro può “aiutare” a cambiare il Teatro e il Mondo, insieme a mille altri fattori esterni della storia che si muove. È una “illusione” modificare a fondo e presto un costume teatrale (cioè un teatro) con una “riforma” fatta di tot anni di lavoro e anche tot commedie scritte. Si modifica quel tanto che la situazione concede, si gettano le basi per un movimento in avanti che probabilmente ci sorpassa come esseri umani, nel tempo. E altra illusione, ancora più deludente, è credere che si “ammaestrino” in qualche modo gli essere umani, fuori del teatro, con il teatro.
Anche qui le parole, se sono “giuste”, se sono poeticamente risolte, se sono con la storia, nella storia, o avanti e non “a rimorchio”, non “fuori”, non “irrisolte” esteticamente, “servono” a fare la storia, ma in una misura impercettibile, quasi tutta legata al divenire della storia in un contesto molto più vasto. È il momento della presa di coscienza totale della realtà di un’azione “anche rivoluzionaria nel teatro”, della sua precarietà, della sua relatività. Un successo, una somma di successi, anche folgoranti, anche caldissimi, danno l’impressione (perché il teatro ha questa capacità) di essere “arrivati” a un punto fermo, a una conquista permanente. E invece non è vero. Pure, qualcosa è accaduto. Questo senso del limite, della relatività del teatro, è una scoperta terribile, per coloro che hanno già superato le altre fasi di conoscenza, ed è in un certo senso l’ultima. Dal punto di vista teatrale. Ora, o si cede per sempre o si continua, avendo finalmente capito una cosa che però fa un male atroce. Perché è la scoperta di una verità fondamentale: la piccolezza dell’umano nel contesto della vita significa avere il coraggio di essere uno, nel coro umano, che “porta avanti”, invece di “portare indietro”, con tutto ciò che di doloroso comporta, senza cambiare quasi niente. Semmai, sperando che servirà per “altri”, dopo. Assieme a molte altre cose.
Questo un primo senso della puntata. Ma non basta. Sebbene il fondamento eroico di questa presa di coscienza sia il fondo di tutta un’azione umana, Goldoni, stroncato dalla fatica, si accorge dunque che non è arrivato quasi a nulla. Anzi, come capita sempre, a questo punto tutto si sfascia. Per G. era una cosa poi quasi voluta o cercata: sempre G. sfasciava da se stesso le cose, giunto a un certo punto. Forse per paura che si sfasciassero da sole, prima! In pochi anni, si può dire dal 1751 al 1753, due anni (due stagioni e mezza di teatro!) gli succede questo:
a) distrugge i suoi rapporti con Medebach, con Teodora, con la compagnia della riforma;
b) li distrugge sul piano affettivo, innamorandosi della Marliani e distruggendo anche crudelmente Teodora. Teodora non aiuta certo per nulla se stessa, anzi peggiora la situazione. È il circolo vizioso delle coppie nevrotiche; si uccidono, invece che aiutarsi. Non possono aiutarsi: equivoci, cattiverie, ripicche, crudeltà, incomprensioni si susseguono. Fino alla fine. Ma si distrugge poi anche il rapporto con la Marliani. E questo è più misterioso. Probabilmente si crea una “situazione insostenibile” dal punto di vista sentimentale, poiché le due donne “coesistono” oltretutto nella stessa compagnia e G. deve averle presenti sempre. Forse la Marliani, anche lei, “chiede” poi troppo. È comunque un punto da chiarire;
c) li distrugge sul piano di lavoro, Medebach e l’edizione abusiva delle opere (grossa azione miserabile). Sul piano dei comici: li lascia dopo tanto lavoro e tanti risultati! Anche questo è un segno;
d) passa da una crisi psicofisica all’altra e riesce a scrivere solo due o tre capolavori, in mezzo a cose molto meno importanti (La locandiera insegni). Incominciano gli anni esteticamente più oscuri di G., sempre in rapporto alla maturità raggiunta. Non in senso assoluto. Va indietro, G.;
e) si scrittura con Vendramin al San Luca. Probabilmente sente il bisogno (o l’illusione) di creare una “sua” compagnia. Infatti G. diventa per la prima volta “direttore” di teatro, non il “poeta della compagnia”. Alcuni attori della compagnia Medebach lo seguono, i più “seri” e i più avanzati nella riforma, anche questo è significativo. Ma per gli altri deve quasi ricominciare da capo. Qualcuno lo conosce dal tempo di Imer. Ma la compagnia del San Luca è in fondo tutta da fare. Anche il teatro: ha un’acustica diversa, è molto più grande, pone nuovi problemi.
La realtà è questa, che G. ci metterà circa otto anni per creare una nuova compagnia in grado di arrivare a recitare I rusteghi, le Villeggiature, le Baruffe, le Ultime sere di carnovale, Todero brontolon, La casa nova, il Curioso accidente; e, del pari, otto anni circa per uscire da una crisi profonda, da uno smarrimento di se stesso, gravissimi. Tutto ciò, egli lo fa, certamente, in parte spezzato, cioè con la presa di coscienza avvertita prima, stanco e malato e con la paura della vecchiaia. Con l’angoscia della vecchiaia povera. È un punto molto importante.
Ma non basta: ecco che in questi terribili anni si innesta il terzo problema:
I problema: umano teatrale;
II problema: estetica teatrale, tecnica teatrale (attori, pubblico);
III problema: “la società”. Cioè i “nemici”.
G. ha sempre sofferto di una specie di “nevrosi di persecuzione”. Non che essa non abbia riscontro nella realtà. La vita di G. fu costellata di inimicizie e di cattiverie. Ma il teatro non è tutto così? E la vita? Cioè Mondo e Teatro?
Nel teatro, le cose, certamente, si esaltano, vengono più “messe in luce”, diventano più crude. Inoltre, esiste questa “psicosi” del nemico, nel teatrante di tutti i tempi, che fa parte della psiche dell’attore-uomo di teatro. Non sfugge nessuno né alla paura (il trac), né a questa “psicosi”. Quindi, le cabale, le persecuzioni, le sorde “inimicizie”, le vendette esistono, ma sono anche ingigantite da G. uomo di teatro e da G. nevrotico. Su questo non ci sono dubbi. Soltanto che, fino a questo momento gravissimo, la “nevrosi di persecuzione teatrale” è rimasta episodica, in fondo, e incerta, quasi larvale. Nonostante le avvisaglie del Chiari e altri.
È a questo punto che avviene l’incontro dialettico o, se vogliamo, “di lotta” tra il mondo di G. e le strutture estetico-sociali del suo momento storico-letterario (anche aggiungendosi a un momento di “debolezza” fisico-sentimentale, direi anche di età – menopausa maschile anticipata); G. si usò molto (ha scritto 222 commedie e tragedie e opere, più altro di sé), scoppia con una violenza incredibile e una chiarezza insolita. Tutto gli si mette contro: i suoi attori di prima, istruiti e bravi, diventano nemici, si alleano con il Chiari. Ciò non può non aver comportato uno choc sentimentale e un danno “reale”, concreto. La polemica chiaristi-goldonisti qui diventa qualcosa di serio, perché sostenuta da una realtà di pubblico e di attori di primo piano. G. è in condizioni di inferiorità circa gli attori; è in inferiorità per sentimento, per sensibilità, quindi per ferite, e fu qualcos’altro di più complesso; è in inferiorità perché sa di essere quello che è, ma sa anche che non serve, che non basta più (non è servito neanche il triplo salto mortale!); in inferiorità circa il luogo: un teatro grande e nuovo; in inferiorità fisica: sta male quasi sempre. Lo sostiene – e questo è l’eroico – una “incrollabile fede” nel teatro e nella giustezza storica di ciò che ha fatto e ciò che fa e farà, ma quasi teorica, astratta. Continua e non molla – veramente è eroico –: è questo il marchio del genio, del predestinato, ma dal punto di vista estetico, immediato, la lotta chiarista-goldonista si sposta completamente e il cammino di G. devia. Egli, qua e là, si “salva”, scrivendo nonostante tutto delle commedie che segnano una costante del suo cammino. Il tragico-buffo è che per gli altri autori meno prolifici questo problema non si presenterebbe: qualsiasi autore che avesse scritto le venti commedie migliori di G., tra le quali almeno dieci capolavori, di cui almeno quattro “assoluti”, non dovrebbe trovare alcuna giustificazione! Invece G. ne ha scritte 222, dunque… Vige anche qui, anche dopo secoli, la legge del salto mortale! G. ha fatto troppi salti sulla corda! Ma la realtà, comunque, di questo periodo è che G., per vincere Chiari, cerca di riuscirci (e lo vince poi, ma indirettamente, cioè per consunzione del nemico) mettendosi sul suo piano, cioè abbassandosi, cioè rinunciando; ecco il periodo delle tragedie, dei martelliani, delle Arcane, delle Persiane, delle Cinesi, ecc. Se però si crede che egli lo abbia fatto solo per “vincere”, è un grosso errore. Il fatto è che il pubblico era già stanco della riforma, del naturale e via dicendo. Voleva già qualche “altra cosa”. Per ragioni di “contrasto”, di alternanza, di volubilità di gusti tipiche del ‘700, ma anche perché aveva un profondo e quasi inconscio bisogno di “sentimenti forti, di sentimenti esplosivi, violenti”. Il secolo stava andando avanti verso la Rivoluzione francese e, senza rendersene conto, il pubblico aveva bisogno di “passioni” che fossero poi buone o cattive o mediocri, poco importa. È come oggi nel cinema; si crea un certo bisogno medio “reale”, nel quale sguazzano poi i pornografi, i finti sociologi, i becchini, gli impotenti, i cretini. Ma comunque questo “bisogno medio” esiste, e un uomo di rappresentazione non può non tenerne conto.
G., che conosceva il Mondo e il Teatro, non poteva non tener conto, anche se più o meno oscuramente, del Mondo e delle sue necessità. In questo contesto si inserisce il Chiari, e la Compagnia Medebach e i nemici in genere. Non ultima poi, la compagnia del San Luca, in via di formazione.
Ecco una domanda. Ad esempio: avrebbe mai potuto, la compagnia del San Luca, al suo primo e secondo anno, ammesso che G. avesse scritto la commedia, fare una scena come quella della Meneghella nelle Ultime sere di carnovale?
Una ragione importantissima sta qui. La risposta è certamente “no”. E allora? Allora G. pagò una sua situazione umana-storica, ritornando indietro per vanità, diciamo (vincere Chiari), autodifesa, orgoglio o altro, ma soprattutto perché non poteva fare niente altro. Brechtianamente non poteva fare altro. Poteva, tutt’al più, fare qualcosa di più, se vogliamo. Ma non aveva fatto abbastanza. Tutto il contesto personale e non personale in cui viveva lo spingeva a questo. E non è un caso che proprio da questo periodo sboccino improvvisamente quella serie di capolavori che sono appunto i Rusteghi, le Baruffe, la Casa Nova, le Ultime sere, Brontolon, la Trilogia della Villeggiatura, così poco ancora capíta. Commedie che basterebbero a una vita e c’è invece molto di più: il Campiello, Donne gelose, Pettegolezzi, Innamorati, Bugiardo, La bottega del caffè, La famiglia dell’antiquario, Le massere, e via via fino alle più incerte ma straordinarie: e L’impostore? e Il cavaliere e la dama? e L’avaro geloso? e La putta onorata, La buona moglie, La figlia obbediente?…
Che tutto ciò sia cosciente, lucido o no, poco importa. C’è una lucidità interiore che ti porta a fare ciò che si deve e che si può. In questo, G. fu un maestro. Riuscì sempre ad “aggirare l’ostacolo” e riprendere il filo di un discorso o addirittura non lasciarlo mai cadere. Per chi conosce le condizioni del teatro e della società del suo tempo (veneta in particolare), degli attori e del resto, questo è il più grande miracolo possibile. È una cosa incredibile.
Ma non siamo, ancora, esattamente al centro del problema “società”. Esso diventa fondamentale ed è, direi, il colpo finale solo con Gozzi. Gozzi è il punto focale della storia “sociale” critica-estetica di Goldoni. Gozzi arriva alla fine, ma dà un senso a tutte le incertezze. Diventa il catalizzatore storico-sociale-estetico di tutto ciò che è contro G. In un certo senso, deve aver servito anche da chiarificatore a G. stesso. Chiari non bastava. Chiari era per G. una pezza da piedi, cattiva, noiosa o altro. Gozzi no. Gozzi colpisce e bene. Gozzi è crudele, nobile, colto, intelligentissimo. Con lui, tutta la vita di G. salta in aria, diventa contestata da destra. Tutte le forze che G. ha toccato, più o meno a fondo, tutti gli interessi estetico-politico-finanziari che ha sfiorato, si coalizzano intorno al “leader reazionario”, al grande dilettante, al “signore che gioca”.
Non dimentichiamo che per Gozzi la storia di G. è stata sempre un gioco! Io non credo che Gozzi menta quando rimpicciolisce il senso della polemica con G. È l’atteggiamento di chi è “fuori”, in fondo, della mischia. A Gozzi certo interessava molto di più Gratarol. E infatti lo stronca a morte. G. lo diverte. Anche se è conscio della sua pericolosità sociale. Ma anche qui Gozzi è troppo disincantato, e forse cinico, per essere veramente convinto di “salvare qualcosa”. Per G., invece, l’incontro-scontro con Gozzi è una tragedia. È il culmine di una vita teatrale e storica difficile. G. è meno spiritoso, meno intelligente, meno disincantato, meno dilettante, meno cinico di Gozzi. G., nonostante il suo talento, è in perdita, giorno per giorno. Vince, nella storia, per poesia. Ma perde come essere umano, al minuto.
“Vince per poesia” appunto. Ecco perché l’apice della lotta Gozzi-Goldoni è la sconfitta di G., che emigra, sparisce, lascia il campo, non ce la fa più come uomo, ma è il suo trionfo come artista. Le cose più grandi le ha scritte proprio con e durante Gozzi. Cioè non è sceso, questa volta, sul terreno altrui come con Chiari. Ha fatto andare Gozzi sul terreno suo. E Gozzi non c’è andato. È rimasto là, con le sue fiabe scommessa-barzelletta-boutade, anche geniale e basta. Distrutto. Un atto delle Baruffe distrugge tutto Gozzi. Ma proprio tutto. Tutta la sua nobiltà, la sua cultura, e il resto. Gozzi è un pigmeo, di fronte ai Rusteghi, parola per parola.
La cosa è ovviamente ancora più complessa.
Gozzi rappresenta per G. il “Gran Nemico”, ma il “Gran Nemico” non è solo il Nemico Personale. È la società in cui si è mosso G., attori-pubblico-storia, lui stesso perfino. Quel MONDO che G. ha aggredito, in un certo senso, che ha preceduto, che ha sommosso, con tutta la sua opera, fin dall’inizio, concessioni comprese. Quel MONDO ha subìto G. Qualche volta l’ha capito, qualche altra ha fatto finta, qualche volta l’ha accettato per snobismo, ma sostanzialmente non l’ha fatto mai suo. Di volta in volta, una “parte” di quel mondo, forse, si è sentita più coinvolta e più solidale con G. Ora una certa parte della borghesia, ora una certa parte del pubblico popolare. La parte nobile, mai o quasi mai: forse solo per le “cose” meno importanti o più ambigue. Così G. è stato sempre in una posizione estremamente precaria, corrispondente del resto alla sua posizione “storica”, rispetto al pubblico e agli attori e alla storia. Cioè ancora Mondo e Teatro. Ha mantenuto un equilibrio solo in virtù della sua presenza umana e poetica, della sua imposizione quasi, della sua tenacia, del suo accanimento, anche della sua souplesse in certi casi. Ma non per intima convinzione altrui. Per abbandono ammirevole.
Un esempio teatrale: quanti attori, di tutti quelli passati attraverso Goldoni, lui andato in Francia e altrove, si sono mostrati “autonomi”, ma legati a quei precetti del Teatro comico che aveva fatto loro, alla riforma? Io credo nessuno.
Pure qualcosa era rimasto, nel fondo del loro mestiere, un qualcosa di nuovo che ha fondato il teatro dell’Ottocento. Un qualcosa che era costato una vita a G. e che quasi non si percepiva. Occorreva la prospettiva del tempo per dimostrarlo (se dimostrabile). Gli attori, appena lasciato Goldoni, sono subito tornati a recitare come prima (ma non proprio come prima) e in quel piccolo “non proprio” sta tutto il problema dell’eredità del lavoro di Goldoni, nella storia del teatro moderno. E si potrebbe continuare con le esemplificazioni.
Alla fine G. si è sentito solo. Aveva ragione e aveva torto nello stesso tempo. Nella lotta con Gozzi, G. si è sentito aggredito in tutto e non ha avuto quasi nessuno con sé, al di là del successo “momentaneo” nel quale evidentemente non poteva più credere. Non ha avuto con sé la nobiltà, quella meno di tutti. L’ha sempre criticata, più e meno duramente, direttamente o indirettamente. Non poteva evidentemente aspettarsi nulla. Direi che, in questo senso, troppo ha già avuto!
La borghesia in salita sociale? Si dice che G. sia “il cantore della borghesia mercantilistica” contro la dissoluzione della nobiltà e via dicendo.
Ma anche questo è vero fino a un certo punto. Il fatto è che G. ha incominciato a frustare i nobili. Poi è stato consigliato-obbligato a non farlo o non ha sentito “opportuno” farlo direttamente (BB) [Bertolt Brecht, ndr]. Allora ha esaltato la probità, il buon senso, la virtù della borghesia mercantilistica, senza però mai tralasciare del tutto il “popolo”, la plebe, certo in minore misura numerica, non in minore misura poetica. Nella percentuale, le commedie in dialetto (in versi o no), le commedie popolari sono le più valide. Forse perché sono meno? Comunque lì G. non sbaglia quasi mai o sbaglia pochissimo. Perché?
A un certo punto, si stacca anche dalla “saggia borghesia mercantilistica”, a poco a poco; la borghesia gli appare meno virtuosa, meno edificante, meno contrapposta dialetticamente alla nobiltà. La borghesia si sta involvendo, diventa sorda e gretta, “prima” ancora della Rivoluzione francese! Altro miracolo. I rusteghi sono la critica più spietata, più dura del fascismo della borghesia, della grettezza, della disumanità della borghesia. La Restaurazione. È una commedia distruttiva e anticipatrice del destino “conservatore” della borghesia, prima del tempo. E nessuno ha intuito questo, né gli ha dato voce poetica, oltre a G. Egli è l’unico. Ma chi ha scritto I rusteghi, alla fine di una parabola borghese, non può non essersi, in un certo senso, distaccato già criticamente dalla borghesia! Ecco un altro termine di “isolamento”. Se G. è a un certo punto il creatore della borghesia mercantilistica, a un altro punto non lo è più, anzi ne è il critico più spietato. Resta il popolo. E qui c’è un altro dramma di G., suo, interiore, di classe. G. non poteva diventare il cantore del popolo. Non ne era capace “dentro”, oltre un certo limite. Né il popolo lo consentiva.
Nulla di più realisticamente straziante della “estraneità” in cui egli lascia il Cogitore (cioè se stesso) nelle Baruffe: «Noi siamo della razza di quelli che restano a terra». Il popolo non lo vuole, il Cogitore: «Sti siori dalla perucca, co nualtri pescaori, no i ghe sta ben». Ecco la verità. Nel Cogitore però capita di più. Così, con tutto il suo amore “per il popolare”, G. resta anche qui con un piede in aria! Più in là non può andare, non è ancora capace di “oltrepassare il solco”. In definitiva G. resta un déraciné: capace alla fine di stare a corte e di godere dell’urbanità della stessa, di criticare Rousseau perché fa lavorare da serva la moglie, e di capire allo stesso tempo John Wilkies, la Bastiglia, la storia, e di dichiarare, io credo veramente sincero, di essere repubblicano e “uomo nuovo”. G.: un girondino avanzato? “Uno a parte”, ma nel solco della rivoluzione? Che una rivoluzione, probabilmente, avrebbe travolto, a una sua svolta?
Tornando a Gozzi, mentre ciò maturava in G. e forse – ripeto – anche per contrasto con le tesi del Nemico, che obbligavano G. a chiarirsi con se stesso, Gozzi lo accusava di essere proprio quello che solo in parte egli era. G. era già ormai più avanti. Quindi: accusa di trivialità, di bassezza, di guadagnarsi il pane per vivere con l’arte (accusa fondamentale e inaccettabile per G.), di metter in forse le istituzioni, di essere pernicioso, sciatto, volgare, cattivo scrittore, disonesto anche, tutto il possibile. E tutto in parte legittimabile, da un punto di vista “reazionario”. La difesa di G. è quella dei capolavori, ma è anche appunto la sua sconfitta.
Le altre difese sono parziali, polemicamente e in parte capziose come capziose sono le critiche. La verità è che Gozzi aveva capito, e con lui o per lui molti altri, che G. non era dei loro. Tutt’altro. Ma di chi era G.? Con chi? Al di là degli amici (pochi)?
Io credo che nell’ultimo periodo, prima di partire da Venezia, G. sentisse di non essere con nessuno fino in fondo. Di essere solo. La richiesta della pensione di stato è come una pierre de touche o un vezzo caparbio: sapendo che sarebbe stato no. Certo presupponendolo. E la Repubblica si vendicò, dicendogli appunto che le pensioni si danno alla gente “utile”!
C’è in mezzo forse l’ultimo amore per la Bresciani. Ma io sarei propenso a credere che di tutte le sue attrici, forse la Bresciani non ci fu o contò poco, come donna, per G. Era un tipo contrario al suo: troppo violenta, troppo “virile”, forte di carattere, non era “forte-piquante”, non era soubrette! Ma eroina. Illazioni. Valide o no.
La partenza per Parigi è comunque l’unica soluzione e l’unico errore possibile. Ma è un atto di disperazione. È l’ultima fuga, ammantata anche di automenzogne e autodistruzione.
Del resto, se ancora oggi i tre quarti della critica goldoniana non sa niente di Goldoni, non ha capito niente, ha equivocato tutto, anche la sua vita, anche i Mémoires (“papà Goldoni”, ma chi l’ha inventato, chi è quel primo mostro?), cosa potevano capire i contemporanei di lui?
La storia di G. è una storia esemplarmente tragica ed eroica, sommessa ma eroica. G. è un uomo che non ha mollato fino all’ultimo: Mondo e Teatro, e questo per sessant’anni di vita teatrale più ventiquattro di assaggio!
Fino all’ultimo giorno ha seguito il suo destino, il suo “genio comico”. E il suo “genio ambulante”. E il suo “genio della vita”, osservare, comparare, essere incuriosito, cercare di capire. Come, e più, di come poteva.
Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli Editore, 1974