Mémoires

L’incompiuta di Strehler. Il sogno dei Mémoires comincia alla fine degli anni ‘60 quando, con la collaborazione dei critici Tullio Kezich e Ludovico Zorzi, il regista prepara la sceneggiatura per un adattamento televisivo in più puntate dell’autobiografia di Carlo Goldoni.
Di fronte all’impossibilità di trasformare il grandioso progetto in realtà, Strehler tenta allora di portarlo sulle tavole del palcoscenico. Uno spettacolo a cui avrebbero dovuto prendere parte attori di diversa provenienza e nazionalità per vestire, assieme allo stesso Strehler, i panni di Goldoni nelle varie fasi della sua vita. Ma nemmeno questa ipotesi riesce a concretizzarsi, sebbene il regista, nel corso degli anni, lavori in più occasioni al progetto (ne comunica la messinscena per il Bicentenario goldoniano e, ancora, nel 1997 ne parla come di un prossimo allestimento).
Appassionate lettere, note di regia e due letture sceniche, a Pavia e a Milano, restano a documentare questo intenso e travagliato percorso in cui la parabola del “signor G.” diventa uno specchio in cui Strehler ritrova se stesso.

Testo di Giorgio Strehler da Carlo Goldoni

Pavia, Salone degli affreschi del Collegio Borromeo, 23 novembre 1992 – Lettura di Giorgio Strehler di brani del copione, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università degli Studi di Pavia.

Milano, Teatro Studio, 6 febbraio 1994 – Lettura di Giorgio Strehler di brani del copione, in occasione della chiusura delle celebrazioni del Bicentenario goldoniano.

Strehler ne parla

Le Memorie del Signor G.

Queste pagine fanno parte di quel grande lavoro sulla vita di Goldoni che ho incominciato a fare nel 1969, cinquecento pagine di storia raccontata, che non sono un trattamento cinematografico, non sono una divagazione sul tema, non sono un’opera letteraria da leggere e basta.
Sono pagine per raccontare una vita di teatro, una storia su Goldoni, che mi ha accompagnato per tutto il mio itinerario di teatrante, ma anche e forse, più di quanto non creda o non voglia, una storia mia e insieme una storia del teatro.
L’occasione, e in un primo tempo lo stimolo per scriverla, è stata la Televisione italiana, che in un secondo tempo è diventata tuttavia essa stessa il freno raggelante, con le sue esitazioni, i suoi tempi misteriosi, le sue evanescenze sospette.
Così, queste Memorie del Signor G., come io le chiamo, sono rimaste a uno stato impreciso.
Qualche volta ho pensato di pubblicare questo zibaldone di immagini e di sollecitazioni, ma ci ha pensato ogni volta il teatro a distogliermene, a portarmi su altri cammini.
Questi brani, frammenti di un lavoro protrattosi a lungo e dai quali mi separo un poco a malincuore, possono dare un’idea di questa storia teatrale, nata non per il teatro ma a esaltazione del teatro. (Problema forse irresolubile: il teatro si esalta con il teatro). Ma poi penso che anche questo possa aiutare ad amare un poco di più un grande uomo di teatro quale Goldoni fu, e quale noi nonostante tutto non conosciamo.

Memorie del Signor G., programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: prima puntata

Un teatro semidistrutto da una rivoluzione, coi palchi abbandonati, statue decapitate, un palcoscenico vuoto, polveroso, con scene semiappese, proteso su una platea scura con panche rovesciate.
La voce di un vecchio che ha compiuto ottant’anni e ha posto la parola fine alle memorie della sua vita e dice che può morire ma non ha paura della morte, perché la morte è “un fenomeno naturale”.
Il vecchio sta cercando di addormentarsi con un suo strano metodo: sillabare un ipotetico vocabolario della lingua veneta-italiana-francese, mai scritto. Mentre la voce ripete parole di teatro, qualcosa sul palcoscenico si mette in movimento. La macchina per fare il mare incomincia a girare, una barchetta finta dondola, un telo si gonfia e, per miracolo di fantasia o memoria, rinasce di colpo una storia della giovinezza del vecchio – che è il signor G. – scrittore di teatro, quando una mattina d’aprile, un secolo prima, partì in un favoloso viaggio con una compagnia di comici, alla volta di Chioggia. Il viaggio per mare segna la prima esperienza profonda, come un trauma dolcissimo, determinante nella vita di G.

Lì egli conosce, per la prima volta, tutto: l’amore, le donne, lo stupore, la curiosità per l’umano mondo dei comici e, attraverso di essi, la curiosità per il mondo dell’uomo; il Mondo e il Teatro si confondono e nasce un’inconsapevole vocazione. Il viaggio-favola finisce e G. si ritrova a notte nella sua realtà: famiglia, vita sociale e domande sul futuro. La realtà ha il volto del padre, dottore, emiliano, grande, erompente, esuberante, pieno di vita e umanità, che cerca di capire, come può, e di “educare”, come può, il figlio che cresce. Il padre è un “amante del teatro”, sa tutto del teatro e molto della vita. I due stanno sempre insieme. Il padre insegna al figlio la medicina, non ci riesce, manda il figlio in collegio come fanno tutti i padri del mondo, lo riprende quando lo cacciano via, lui borghese della grande cerchia dei ricchi e dei nobili, e per “correggerlo” lo sbatte a fare l’aiuto funzionario di un tribunale di provincia.
Qui G. ragazzo ha il primo incontro con la realtà del tempo: dura realtà sociale in cui anche la tortura, la gogna, la confessione pubblica, hanno ancora il loro posto. In una crisi di malinconia depressiva, la prima, il ragazzo vuole inevitabilmente farsi prete. Il padre lo “guarisce” con una cura particolare: i giochi di carte in famiglia, tenere feste tra amici e spettacoli di teatro, a Venezia. Poi lo porta con sé, in un viaggio, nell’inverno e nella neve, al Nord, ai confini con l’Austria. Un altro viaggio-favola, diverso da quello coi comici. Un gioco di amore e tenerezza, fra padre e figlio, l’uno curioso dell’altro. E ancora, ineluttabile, l’incontro col teatro, una sera addirittura, con il passato del viaggio per mare. In uno sperduto teatro, a Trieste, sotto una bora omicida, G. ritrova in una recita un vecchio attore fossile, il capocomico napoletano della “barca dei comici”, nel freddo di un camerino buio dove i due parlano e dove l’attore non sa se dare del tu o del lei al ragazzo. Poi, senza sapere, G. si ritrova addirittura lui “nel teatro” come autore, attore e regista di uno spettacolo di dilettanti, in un teatrino improvvisato a Feltre. È il primo teatro di G. e porta con sé il primo amore di palcoscenico, che si ripeterà nel tempo, e la prima paura, i primi applausi, i primi inchini, il primo sipario che va su e giù come nuvole e sole. E il padre, grosso, in un angolo, su una seggiolina di scena, che guarda, quasi con angoscia consapevole, il figlio che sta facendosi grande e che, senza saperlo, corre, corre verso il suo destino. Riprende il viaggio. E improvvisamente il padre muore, alle soglie della primavera. La meravigliosa favola dell’amicizia del grosso padre emiliano e del piccolo, incerto e un po’ nevrotico figlio finisce così, di colpo, con uno strappo che lascia il giovane come attonito. In un piccolo cimitero toscano, un breve corteo di servi e impiegati fa il funerale al padre morto, in mezzo all’indifferenza degli “altri”.
«Che bravo medico, che brava persona, proprio bravo», dice passando, dal finestrino della sua carrozza, appena schiuso, il conte di Bagnacavallo. E se ne va. La terra, le corone massacrate dalla pioggia. Un calesse che si perde lucido nella campagna, verso un lontanissimo, impreciso orizzonte e, dentro, una madre spaurita e silenziosa, un piccolo fratello un poco grasso e indifferente e G. ormai grande che guarda, in silenzio, gli alberi passare.

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: seconda puntata

Pochi anni dopo. Una guerra. Una stanza da gioco nella notte: fumo, luci, carte e denaro. Colpi di cannoni, silenziosi, fanno tremare i muri e i vetri e i doppieri. Polvere ogni tanto piove dall’alto sui giocatori intorno al tavolo.
In mezzo a questi, G.: un altro. Maturo ormai, quasi cinico: ha preso la laurea di avvocato, ha esercitato poco e male ed è fuggito da Venezia per una storia abbastanza sporca di donne e soldi. Sembra quasi, e forse è, sperduto dentro di sé. E c’è una bionda: Margherita con lo zio, il conte Scacciati, un silenzioso ubriacone soave, cupo e triste. Ci sono ufficiali di ambo le parti in lotta, francesi, tedeschi, mercenari italiani che giocano insieme una notte e poi vanno ad ammazzarsi, quasi senza senso, il mattino dopo. Il gioco finisce all’alba con le trombe dei campi che suonano. Tutti escono. Anche G., che ritrova il palazzotto nel quale lavora come “segretario di ambasciata”. E qui, uno scontro vivacissimo con il suo superiore, un altro potente, un conte mezzo matto, isterico, che lo assale con domande e accuse: dov’era, cosa faceva tutta la notte? Giocava a carte coi nemici? Non potrebbe darsi che certi dispacci segreti siano stati comunicati?… G. si mette a urlare e rompe con l’ambasciatore che lo insulta, gridandogli che è un rivoluzionario, un sovversivo, un plebeo senza rispetto. G. corre in strada e qui incontra la povera gente in guerra, con i carretti miseri, che va, che scappa. Ma G. ancora “non sa”, ancora non si accorge e parte in carrozza verso Parma.
Il viaggio. G. che rilegge un suo “copione” scritto in quegli anni, il primo: un’opera lirica intitolata Amalassunta. Si tratta di un calcolo, più che di un’opera d’arte. L’Italia è il mondo dell’opera lirica, dunque, cosa di meglio per guadagnare un poco di soldi? A Parma poi, come sempre, c’è un famoso teatro lirico, c’è una compagnia di canto famosa e qualcuno che G. conosce. Dunque, il successo è certo, anzi il “trionfo”. Lettura dell’Amalassunta nel ridotto del teatro di Parma. G., solo, in mezzo ai “mostri” del vecchio teatro, un’accolita di castrati, scaricatori di porto diventati bassi e baritoni, ballerini toscani, protettori, madri baffute e figlie vacche. G. tenta di raccontare e leggere. Ma a poco a poco, come è inevitabile, nessuno più l’ascolta. È l’impatto con il “mondo di un certo teatro del tempo” con le sue ignobili regole, i suoi ignobili costumi, fino a quando protratti nel tempo? Alla fine G. urla che basta. E torna all’albergo. Brucia, in lacrime, dopo avere acceso d’estate il caminetto, il suo primo manoscritto. Giura: teatro mai più.
E ritorna il gioco: un’altra stanza, la stessa atmosfera, le stesse parole, gli stessi gesti. Sono cambiati solo i visi dei protagonisti, ora per lo più francesi. Ma c’è ancora la Margherita e il vecchio Scacciati e tutto uguale, monotono. Un ufficiale senza una gamba suona la viola, un altro la spinetta e si balla e si scherza. Poi i cannoni. La tregua è finita. La festa si trasforma in preludio di battaglia. Nella stanza abbandonata sono rimasti soli G., Margherita e il vecchio conte che, ormai si è capito, non è un conte ma un povero ruffiano e che in ciabatte e vestaglia si mette a fare cucina, come una vecchia, “per il signor avvocato”. E il signor avvocato G., pallido, nella luce dell’alba guarda la Margherita, povera prostituta di ufficiali, sempre bionda ma non “fanciulla in ristrettezze”. E la Margherita che pianamente confessa a G. la miseria di una vita difficile. E le rondini italiche che vanno in alto. Eh sì, caro G., le cose del mondo stanno così! Le cose del mondo non sono felici! Non sono “favole” nelle barche e nelle slitte! C’è male, c’è pena, tradimento, miseria, menzogna. C’è la guerra e la morte. Pure G., che è uscito sconvolto dalla casa del finto conte che preparava i tortellini e di Margherita che piangeva silenziosa sulla tovaglia macchiata di vino, la guerra non riesce a vederla. Dalle mura laggiù c’è polvere e polvere. Tutti dicono: «Ecco la cavalleria». Ma la cavalleria non c’è. La battaglia?: un niente di fumo. G. parte per Brescia per allontanarsi dalla delusione. Ed ecco, sulla strada, la carrozza è assaltata da disertori tedeschi. È una scena violenta, improvvisa. G. denudato, derubato, percosso, riesce a fuggire, terrorizzato, lui “non uomo di spada”, per i campi, per salvarsi. Corre, corre. È estate, la natura è bellissima e, qui, G. incontra veramente “la morte”: qui vede, per la prima volta, quella guerra alla quale non credeva. Nel verde, accanto ai rivi allegri, ci sono i morti: ragazzi immobili, quasi invisibili tra l’erba, ma presenti e veri. G. fugge ancora tra questi, con pena e meraviglia e arriva in un paesetto che invece è tutto pace. Ma come? Pochi chilometri, due o tre, e lì la guerra non c’è? È possibile? Non è assurdo? Un vecchio contadino lombardo gli spiega che invece no, possibile è. Oggi qui, domani là: la guerra l’è una brutta bestia! Un caso “l’esserci e il non esserci”. E poi , è difficile che la guerra venga: «Perché, vede questo casolare?». E appare una casona, in cima a un poggio, con cani che latrano. «Lì, vede, ci stanno i “ricettatori”, quelli che comprano dai soldati di “tutte le parti” la refurtiva, il bottino.» Così G. nello stesso momento scopre anche l’“altro” orrore della guerra: il denaro, l’interesse. Cosa gli resta da fare? Tornare a Venezia. Perché a Venezia? Perché è casa, perché Venezia gli appare come un piccolo porto di salvezza. G. riprende il viaggio sconcertato, profondamente turbato. G. ha imparato troppo di colpo, e molto è finito per G. quella sera! La carrozza arriva a Verona. Si ferma per caso e G., aprendo gli occhi, scorge proprio davanti al finestrino un manifesto allegro di teatro e sul manifesto, come mai?, il “suo” nome! Oh Dio, ma cosa sta succedendo? Scende e guarda meglio: sì, fanno teatro, e il teatro lo aspetta, recitano e recitano anche un suo “intermezzo”, proprio suo. Nell’Arena, di notte, G. assiste a un pezzo dello spettacolo. C’è una luna enorme, un pubblico attento, un calore illuminato che riscalda, e tutti sono bravi, allegri, e il pubblico ride e gli applausi e tutto. G. sente rinascere qualche cosa in lui, dal freddo. Va incontro ai comici esitante e i comici lo riconoscono, lo portano a mangiare, gli fanno festa. La cena dolce, con le attrici giovani, la Casanova, l’Agnesina, che hanno bocche rosse e bei seni e lo guardano maliziose e gli cantano canzoni e lo amano e tutti, proprio tutti, che gli vogliono bene e si vogliono bene! Poi le proposte teatrali: perché non resta con noi? Resti a fare “il poeta” della nostra troupe! G. fa le fusa quasi, come un gatto felice. Ma allora, ma allora se la vita è cattiva, dura, piena di morte e di brutture e di freddo, il teatro è dolce, è caldo, è buono, “salva” dalla vita! Sì, il teatro è bontà, è stare insieme, via dall’infamia! Il teatro è “un mondo fuori del mondo” o è “mondo fatto per gioco”, per divertire e amare! Perché non tentare dunque? Ma per un attimo ritorna la “memoria” di quel teatro di Parma, dei “mostri” di teatro. Ci sono anche a teatro i mostri? E sono tanti? Bisogna combattere, anche lì, nel teatro? Nel ritorno a casa, nella notte italiana, con Verona immersa nel sonno e piazza delle Erbe coi banchini della verdura abbandonati, come tanti teatrini nani, G. ascolta un giovane attore toscano, con la chitarra, che parla e parla e spiega: ma sì, il teatro bisogna anche lui cambiarlo, ma è più facile, basta fare così e non così. Perché G., se vuol fare il teatro non cerca, lui, di cambiarlo? G. esita, ma l’attore recita, sui banchini di verdura, alla notte, e salta e canta e G. promette: farò teatro, e farò qualcosa per “un nuovo teatro”. Un teatro nuovo, buono, che scalda, che è vero, che è umano, che è solidale, che sarà felice, felice… e…

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: terza puntata

Vent’anni dopo. 1750. Si ritrova il signor G. nel pieno della sua vita di teatro, ormai uomo maturo, stanco, travolto dal teatro che è diventato ineluttabilmente il suo inferno, il suo amore e il “suo vizio”.
In una giornata di sole, Venezia spinta dal vento, in alto nel cielo. E giù, nel buio, una platea di teatro vuota. Nella platea, un uomo che dorme, appoggiato al muro di fondo. È G. che sta sognando, in quel teatro, un altro teatro, anni prima, la sera del debutto della tragedia Belisario, prima commedia per un teatro nuovo, scritta per l’attorino toscano di Verona [Gaetano Casali, ndr].
Il palcoscenico sembra uguale a quello squallido e vuoto che sta davanti a G. addormentato, ma è pieno di luce, di attori vestiti che si inchinano agli applausi, felici come se avessero il mondo tra le mani. Ma subito riaffiora, dalla memoria colorata, la scena vuota e buia di oggi, con un omino che scopa e prepara delle sedie per una prova. Realtà e sogno, vita colorata e apparente, grigia e vera.
Un’attrice, Teodora Medebach, arriva per prima, si siede e chiama G., che si sveglia. I due parlano in attesa degli altri attori, dal palcoscenico alla platea, e parlano di teatro, di se stessi, dei loro ricordi che si fanno anche loro immagini vive: sempre le stesse e diverse, spettacoli, compagni, momenti felici e infelici.
La storia continuerà per ora così, come la storia di un’interminabile prova in cui presente e passato sembreranno mescolarsi, confondersi, in cui il vero e il falso non avranno quasi più confini e in cui il protagonista sembrerà sempre più affondare, dominato e dominatore. Da una parte questo presente, dall’altro sogni e ricordi che si intrecciano e si perdono. Nel dialogo con Teodora affiorano i rapporti di amore, un amore nevrotico, teso, fatto anche di incomprensione tra G. e l’attrice, moglie del capocomico della compagnia che G. dirige come direttore artistico e scrittore. È una grande storia di vita, contraddittoria, ai limiti di una crisi continua, aggravata dal compito che G. si è preso sulle spalle: scrivere sedici commedie nuove in un solo anno, più di una al mese. Perché? Perché la gente vuole sempre di più; perché l’ultima commedia è andata male; perché un celebre attore dopo l’insuccesso è partito per la Polonia; perché il nemico del momento, un certo abate Chiari, fa concorrenza con mezzi sleali, con farse, con satire, con copie; perché occorrono soldi; perché… Perché sembra che tutto il lavoro di “prima” sia inutile, che non abbia contato niente. Nemmeno i successi che appaiono rapidi e fantasmagorici, in immagini di sogno: le prime volte in cui il popolo povero è stato ammesso nel teatro, e ha riso e applaudito le prime commedie “cattive” contro i nobili, le prime parole di fiducia nella borghesia. Ecco perché sedici commedie nuove in un anno! Subito il pubblico che affolla il teatro, gli abbonamenti che salgono. Sedici commedie: una sfida alla vita, per “cambiare qualcosa”.
Poi arrivano gli attori, si incomincia la prova del Teatro comico, commedia-programma di G.: la fatica, l’andare e venire su e giù di G. per mostrare, aiutare, spiegare, dare vita a un nuovo teatro. Poi la prima interruzione: il caffè, bevuto freddo. Teodora, che è sempre ammalata, che ha una piccola crisi (vera? finta?) di cuore e si sdraia in un camerino, pallida e minuta come una bambola. E G. che crede e non crede e la osserva in silenzio dalla porta, nella penombra. Subito, anche qui, il passato prende il posto del presente e affiora un altro camerino, secoli prima. E dentro un’altra attrice, Anna, giovanissima, bellissima, piena di vita. Un addio di teatro con la promessa di rivedersi a… dopodomani. Ma dopodomani, mentre sulla scena si recita una tragedia medioevale, con attori truccati di rosa e blu, arriva invece la notizia che Anna è morta, improvvisamente.

G., nel camerino spoglio, mentre arrivano le voci degli attori, smisurate, piange amaramente e, nascondendosi in un grande fazzoletto, fugge dal teatro come un ladro, inseguito dalle ombre ingigantite dei protagonisti in scena. Corre a casa e lì trova “l’altra parte di sé”, quella “piccolo borghese”: una moglie dai grandi occhi, tenera e silenziosa, che l’aspetta. E capisce tutto e lo accarezza, mentre G. china la testa, vinto, sul tavolo da pranzo, tra i piatti e il vino.

Ritorna il presente, il camerino con Teodora malata o forse no, che respira appena, e G. che le dà una carezza. Poi di nuovo la prova che riprende: di nuovo le parole e i gesti e la fatica. Su una battuta di un attore che ha paura, l’immagine di un altro attore, il primo che recitò senza maschera e che moriva di paura e la voce di G. che ripete: «Forse il teatro si fa solo con la paura!». Anche il nuovo teatro, così diverso da quello di un tempo, quello delle maschere allegre, degli Arlecchini meravigliosi. E qui, non dal passato, ma dal presente, dal fondo del teatro, per miracolo, appare una miriade di persone, due grandi e tanti bambini, vestiti alla russa. Gli attori si fermano e salutano: è il grande Arlecchino Sacchi che ormai vive indipendente e parte con la famiglia per la Polonia: sono tutti i suoi figli, quelli piccoli. Essi sono l’esempio della solidale unità di un mondo che è perduto ormai, ma che persiste nei migliori. La prova è interrotta e al Sacchi gli attori chiedono di far vedere cosa sanno fare i suoi bambini. Sul palcoscenico del nuovo teatro “realistico”, Sacchi e i suoi figli incominciano a fare esercizi con le maschere, salti mortali, scherzi; Sacchi esegue da solo il pranzo dell’Arlecchino servitore di due padroni e tutti gli attori della riforma ritrovano il loro antico mestiere di giocolieri, saltatori di corda, cantanti, e si esibiscono insieme in un attimo di follia teatrale, che incendia il teatro e poi si spegne con la partenza commossa della famiglia Sacchi. G., pensieroso, spiega ai compagni di oggi che quello che ieri c’era è sempre vero e valido se a farlo c’è gente, artisti come quello che è partito. Per i “veri” artisti passato e presente sono sempre una cosa sola. E la prova riprende con il nuovo teatro, più triste forse, ma più vero, più umano, più “impegnato”. Mentre gli attori provano, G. si riaddormenta nel fondo della platea e sogna di nuovo. Un sogno che lo perseguita da sempre: la visita del Grande Censore. Una stanza enorme, un patrizio in abito scarlatto che interroga G. piccolo. Stia attento, G., c’è pericolo che se va avanti così egli finisca per attentare alla politica della Repubblica. Meglio divertire senza offendere, senza colpire, c’è tanto teatro da fare! Sì… sì… G. cerca di accomodare, G. non è un eroe, ma non vuole cedere. Vada, vada G., stia attento, perché la Repubblica… E G. promette, non convinto, promette di aggirare l’ostacolo. Poi G. vede che vengono ad arrestarlo nella notte… Non è un eroe G.! E si sveglia con un grido. Gli attori sulla scena si fermano: «Niente, niente – dice G. – mi sono pestato un piede, nel buio». Quindi racconta un aneddoto sul teatro nuovo: G. ricorda agli attori la serietà di un certo attore Casali, quello di Verona, che si concentrava talmente sul suo personaggio da non rispondere a quelli che lo chiamavano per nome, poiché si sentiva tanto “personaggio” da non ricordarsi più chi era veramente.
Riaffiora dal passato l’immagine dell’attorino truccato da imperatore, che scappa, con gli attori che lo chiamano, sfottendolo, e lui che si nasconde dietro un fondale per “concentrarsi”. Ritorna il presente faticoso, con le ultime battute della prova. Gli attori sono stanchi. Escono. Restano di nuovo soli G. e Teodora. Ancora una volta i due si parlano nel teatro vuoto. L’una andrà a casa dal marito Medebach, l’altro dalla moglie, quella che aspetta. Gelosia? No o sì o poco. Gli altri ci sono e non ci sono. Le ultime parole sono quasi acri, si confondono vita privata e scena, parti e amore. G. ha tanto bisogno di tenerezza. Non sanno darsela. Mentre si lasciano e G. si avvia verso casa, appare l’immagine lontana del primo giorno di nozze, a Genova, di un G. ragazzo quasi e di una Nicoletta quasi bambina. È un ricordo tenero e buffo: G. improvvisamente si ammala con quaranta di febbre e non può “fare niente”. Tenta, Nicoletta lo cura con impacchi freddi, nella grande sera d’estate della giovinezza. Così resterà sempre, lei, quella che capisce e cura, capisce tutto, perdona tutto…
A casa, G. si addormenta su una sedia mentre tenta di scrivere. E da questo momento un susseguirsi di brandelli di “inferno teatrale”: una prima dopo l’altra, uguali e diverse. G. che scrive in piedi nelle quinte. G. che si addormenta sempre in piedi come i cavalli, fino all’ultima delle sedici commedie. Un trionfo. La platea impazzita che grida bravo, gli attori che piangono, la gente che trascina G. in trionfo in strada e poi, “a furor di popolo”, al Casino, il luogo di ritrovo della nobiltà, dei ricchi di Venezia.
All’entrata di G. nella grande sala tutti si fermano, si alzano e applaudono. G., smarrito, non sa cosa dire né fare. È commosso: ma allora ha vinto, ha vinto davvero! Valeva la pena di fare sedici commedie in un anno! Il teatro ha un senso!…Ancora sbalordito, sale le scale di casa, entra, si butta sul letto e con le scarpe lucide, da sera, si addormenta per l’ultima volta con un sorriso felice: mormorando a Nicoletta che tenta di spogliarlo: «Hai visto, Teodora, che qualcosa è successo? Vedrai che domani tutto cambierà, Teodora!…».

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: quarta puntata

L’indomani delle sedici commedie nuove: il risveglio, il rituale delle critiche, degli amici che vengono in pellegrinaggio (non c’è il telefono), attori che parlano, Nicoletta. Teodora sta male. Medebach glielo dice un po’ preoccupato: ce la farà a recitare alla sera? C’è un buon teatro. E poi? Il Teatro comico non starà su più di due o tre sere. Bisognerebbe provare una commedia già recitata a Milano. Se però Teodora ecc. ecc….

Gli echi? Ottimi. Si dà la commedia. Non è una commedia vera e propria. Davanti agli occhi attoniti di G. appare chiaro che “niente è cambiato”. E perché doveva cambiare? Per le sedici commedie nuove? Tutti quei monologhi disperati durante le prove del teatro comico!…

La vita, il mondo non si ferma, anzi va avanti quasi più in fretta e G. è stanco, mortalmente stanco, svuotato. Sta incominciando una crisi nervosa. Ma come fare? Bisogna provare subito, bisogna scrivere subito, presto. «Medebach, cosa si può fare?» G. è smarrito. Medebach cerca di far vedere le “cose normali” a G.

Ma come sono le “cose normali”? G. gli parla anche di soldi, dell’edizione. Ma Medebach ancora evade il discorso, poi si capisce che i diritti d’autore li vuole lui. G. tace: è un altro colpo.

La primavera è vicina. La compagnia parte, deve andare in “terraferma”. G. pensa che forse un cambiamento d’atmosfera, aria nuova, potranno fargli del bene. Addio della compagnia per l’anno prossimo. Si parte.

Partenza per Torino. Incomincia l’interesse di G. per la Marliani. Forse un caso fortuito (il viaggio in carrozza?) o altro. Teodora è in crisi, anche lei.

C’è un incontro tra i due malati, sfiniti. Teodora ha giocato forse la sua vita nelle sedici commedie. G. sembra non capirlo. Ma anche lui sta male e Teodora non capisce lui. Il dialogo è acre, doloroso, malato.

Teodora lo chiude con una “scena” quasi isterica. G. esce sentendo alle spalle gli urli di Teodora e i rimproveri crudeli e i pianti e i «non recito più»…

In questa atmosfera: le recite di Torino. La Marliani invece è allegra, è appassionata, piena di spirito, sta bene. E crudelmente G. comincia a pensare a lei, come donna e come attrice.

Riesce a scrivere anche una commedia per Torino, dove sente continuamente parlare di Molière. Lui ama Molière, l’ha sempre amato, ma adesso lo “sente” di più. La vita di Molière comincia ad apparirgli stranamente vicina, anche se diversa. È un poco di diario che G. fa in una crisi di vita e teatro. Sceglie una forma in versi martelliani per “tenere su” il soggetto.

Teodora recita a forza ma benissimo. La Marliani aspetta nell’ombra.

Poi G. parte per Genova prima della “prima”, non ce la fa più.

Un’estate di mare. Sole, aria, vento, luce. Rivivere, rivivere. Nicoletta è sempre lì. Teodora lontana si trascina, la Marliani aspetta. Medebach anche.

Ritorno di G. a Venezia e si ricomincia; soltanto qui, dall’inferno teatrale, G. precipita in un inferno diverso: si crea una situazione pazzesca in compagnia. G., involontariamente quasi, comincia a scrivere sempre più palesemente per la Marliani.

Innanzitutto Teodora sta male, poi il pubblico ha bisogno di visi nuovi, di nuovi tipi, ecc. ecc… Teodora comincia a capire, ha subito capito!… Ma reagisce come può lei, cioè male. Svenimenti, liti, recite saltate e crisi vere: il suo fisico non ce la fa a quella tensione. G. nemmeno. Ha assalti nervosi, i vapori continui.

Lavoro convulso a Venezia, tournée a Bologna e Milano, viaggi a Modena, a Reggio, Ferrara, la Serva amorosa per la Marliani. Tragedia con Teodora, che si trascina in teatro per recitare lo stesso e sviene sul palcoscenico. E G. che diventa cattivo.

A Milano, altra tragedia: la morte in scena di Angeleri. G. questa volta sembra impazzire. E tuttavia, non si sa come, in queste condizioni riesce a scrivere La locandiera (ecco l’eroico e l’incredibile!), ma La locandiera è il colpo finale della storia con Teodora e con Medebach.

G. ormai non sopporta più nulla. Non sopporta più Teodora. La odia. Odia le sue “scene” che diventano sempre più violente, sempre più teatrali. Non ne vede la disperazione. E Teodora non capisce che G., nella tensione in cui vive, ha bisogno di sicurezza, dolcezza, calore. Non capisce che G. non ce la fa più e che l’attaccamento ‘ingiusto’ per la Marliani ha ragioni profonde, anche artistiche oltre che umane. Medebach ormai ha rotto con G. per la questione dell’edizione.
G. non perdonerà mai a Medebach tutto ciò: il resto può perdonarlo ma la grettezza, l’indifferenza e la rapina “ad un amico” no. E tutta la compagnia risente di questa situazione.

La storia tragica, modernissima, tra Teodora e G., finisce con un ultimo scontro-incontro. Sul palcoscenico del teatro. In un pomeriggio d’inverno, freddissimo, Venezia sotto la neve e il gelo. Quasi Natale o fine d’anno, con i rumori per le strade di una festa che continua per gli altri.

La scena è montata per La locandiera, che si deve recitare la sera. Come sempre si prova, ma nessuno arriva per la neve, il freddo e il resto. Arriva solo Teodora, “quella che arriva sempre in ritardo”, questa volta è l’unica e la prima. E ricomincia un dialogo tra i due. G. in platea, Teodora sul palco, come all’inizio della storia, ma questa volta il tono è diverso. A poco a poco diventa “mostruoso”. Teodora incomincia a gridare. G. anche. Nel teatro vuoto, dove il fiato si fa nebbia e gli echi si rimandano. Teodora ordina infine che non si reciti più La locandiera ma un “suo spettacolo” e incomincia a distruggere la scena montata, in un crescendo che culmina in una violentissima crisi di nervi. Gli attori, pochi, sono intanto apparsi ai lati, spaventati e muti. Uno corre alla porta del teatro in cerca d’aiuto e vede passare due preti che portano l’estrema unzione a un malato. Li fermano e li pregano di entrare in teatro per aiutare “un’indemoniata”. I preti appaiono sul palcoscenico, scoprono l’indemoniata, si trasformano in esorcisti e incominciano a esorcizzare Teodora. L’assurda scena si svolge sulla scena de La locandiera: gli attori, i preti che leggono il libro degli esorcisti, Teodora crollata a terra che improvvisamente a quelle pratiche infami risponde rifugiandosi nella sua infantilità. E si mette a giocare come una bambina con le croci, l’acquasantiera, l’incenso, i campanelli dei preti. L’ultima immagine che avremo di Teodora è questa. Sapremo poi che Teodora è morta a 36 anni, di tisi. Sapremo che Teodora non fingeva. O fingeva solo un poco.

G. travolto anche da questa “tragedia di vita e teatro” dovrebbe accettare la Marliani che ha via libera. Ma non succede così. G. ha come caratteristica del suo carattere non “esplosivo” quella di “cambiare” scena di colpo.

Da qui le sue numerose “fughe” da Venezia e dal teatro anche. Quando una situazione è al culmine, G. la tronca con una fuga, rompe tutto. Così è sempre stato nella sua vita e così sarà anche questa volta.

G. distrugge tutto, improvvisamente. Via da tutti, via da Medebach, via anche dalla Marliani, dai suoi comici, dal suo teatro, che del resto non era nemmeno suo. In altri tempi G. sarebbe “fuggito” anche da Venezia. Ora no, è più “coraggioso”, più vecchio.

Cambia luogo in Venezia. Accetta un contratto con il nobile Vendramin e un nuovo teatro, il S. Luca. L’ultimo suo teatro a Venezia. Farà là il suo teatro, suo poiché sarà direttore, scrittore, regista. Solo. Lo seguono solo pochi attori della compagnia di Medebach. Forse i più seri e certo i più fedeli.

G. è grato a loro di questo gesto. Per il resto: sconosciuti da scoprire. Un mondo nuovo di teatro da scoprire.

Dietro quella facciata scura, di quel grande teatro nuovo (dove è la piccola facciata umana del S. Angelo, la sua piazzetta familiare, il suo caffè, con il suo cameriere-amico, dove è il portiere dietro la guardiola, dove tutto?) G. si ferma smarrito per un attimo. Comincia un’altra storia. Ma quale, ma come?

G. entra “eroicamente” nel nuovo teatro. Un’altra portineria di teatro. Un’altra atmosfera. Un’altra voce: buongiorno signor Direttore. Un lungo corridoio nero. Una porta con vetri che dà sulla platea e là nel fondo un poco di luce e qualche figura umana lontanissima. Un momento ancora. Poi G. dà un colpo alla porta battente e coraggiosamente entra nella nuova platea.

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: quinta puntata

Il teatro S. Luca. La platea vuota. Il palcoscenico lontano. Freddo, buio, grande, con poca gente estranea. Ecco cosa appare agli occhi di G. nel momento in cui varca la porta della platea. Là, in quella nuova platea, ricomincerà il lavoro di sempre: non più il viso di Teodora amata-odiata-capita-non capita, non più tutto… G., in platea, saluta i nuovi attori. Sale sul palco e li fissa uno a uno. Ci sono Falchi e la moglie, venuti via con lui, ritrova Rubini della compagnia Imer, quasi la sua giovinezza. Il resto: niente. Una compagnia squilibrata, la primattrice vecchia, il marito bravissimo ma un mastino per difendere la moglie. E G. capisce che c’è tutto da rifare da capo, tutto nuovo. Come riuscirà, come reggerà? Eppure si mette al lavoro, a pezzi, deluso.

Ma Medebach, tutto il suo mondo di prima, non lascia: si vendica, chiama Chiari al posto di G. E tutti accettano, tutto va bene. E hanno successo!

G., al San Luca, no. G. è sperso, gira, va via, viene, non si trova. La lotta un po’ artificiale tra Chiari e G. scoppia in pieno. G., per non essere travolto, stringe i denti e scende sul terreno di Chiari. Incomincia a scrivere come lui, in versi, tragedie esotiche che “hanno successo”.

È in questo momento che scopre la “sua” ultima attrice, la Bresciani.

Intanto muore anche la madre e G. ha una nuova ricaduta più grave ancora della sua malattia. Siamo nel 1754. La compagnia intanto non funziona, recita di malavoglia. Ha eliminato, ecco, le maschere. Ha scoperto un’attrice nuova, violenta, irruente. Ma la Gandini, prima donna, se ne va con il marito. È un bene e un male al tempo stesso. Comunque un problema in più, per ora.
G. in questa situazione di confusione interiore riesce però a trovare qualche punto fermo: le commedie popolari. La commedia in dialetto. E butta giù: Massere e Campiello. La compagnia questi testi li recita.
Su questi testi la compagnia incomincia a funzionare. Che sia questa la strada? Allora, stende un secondo contratto con Vendramin. Ha bisogno di denaro. Perché il contratto è decennale.

Qui c’è un punto strano.

Chiari, intanto, si consuma da sé. È un attimo di respiro per G. Il duca di Parma gli dà una pensione. Voltaire scrive di lui. Qualcosa sta cambiando, allora? G. riprende fiato e speranza.

Ed è proprio a questo punto che appare il Gran Nemico: Gozzi. Poche stoccate e a G. pare di essere distrutto.

Tutta la sua estetica è buttata al macero con argomenti valevoli per la gente, con una sua logica, con una sua allegra ironia, reazionaria. G. si difende male. L’attacco politico-estetico lo travolge. Non sa cosa dire. Ha anche paura. Appare netto lo spettro antico della Censura per la Bestemmia. I potenti lo tengono d’occhio. Non ha esagerato G.? Non esagera G. con le commedie per il popolo? Non deride troppo? Non ha deriso troppo la nobiltà? E la borghesia? A che punto siamo?

Gozzi tocca tutti i punti deboli. Questo uomo sporco, intelligente, malvagio in fondo, ma anche spregiudicato, reazionario che non crede in niente, prepara una satira che è il suo culmine: quella dell’osteria con G. in veste di “mostro a quattro teste”.
G. la legge di nascosto e non connette più. Fa di tutto perché non appaia, come un bambino, preso in fallo, istericamente. Corre anche a Roma dal Papa, per allontanarsi dal teatro che lo uccide e perché Rezzonico intervenga.
Un sogno lo perseguita. È sempre quello della satira. Questo dialogo di accusa e di difesa costituisce come il basso continuo della sua malattia. Riappare e sparisce.

E qui matura la decisione di fuggire ancora una volta in vita sua, ma per sempre. A Parigi. Ha perduto. Come uomo ha perduto. Hanno vinto. Ma come artista non è ancora detta l’ultima parola. Anzi.

E con uno sforzo che sarà l’ultimo della sua vita, butta in faccia a Gozzi, a Venezia, al mondo, i suoi ultimi capolavori: Innamorati, Rusteghi, Curioso accidente, Casa nova… uno dopo l’altro.

La grande lite nella libreria con Gozzi. C’è, anche se non c’è stata. Lo scontro tra i due è strano, prima calmo, poi acceso, i libri volano e G., per la prima volta nella sua vita, non ha più paura. È al di là. Gozzi lo minaccia: il pubblico viene a vedere tutto, anche le favole, le fiabe con le streghe. Vedrà, Goldoni! E G. dice: «Vediamo».

Così avviene. Ma G. continua per la sua strada. A L’amore delle tre melarance (1760-61), in cui il G. e Chiari sono appaiati, G. risponde non con pamphlets, satire, sonetti o altro ma, appunto, con La trilogia della villeggiatura, Todaro brontolon, Le baruffe chiozzotte. Col suo teatro più suo. Ora la compagnia è pronta, finalmente.

Gozzi fa volare mostri, c’è persino il Sacchi con lui che salta, recita, gioca, fa tutto quello che noi sappiamo. Non importa. I palazzi bruciano? I giardini nascono dal niente? I mostri mandano fumo? La gente ride, la gente fa «oh che bello», si incanta? Benissimo. G. ormai è perduto. È “via”, ormai. Può vedere le cose da lontano, l’ultima commedia è l’addio: Una delle ultime sere di carnovale.

È finita. La richiesta della pensione può anche essere un gioco di dolorosa ironia. O forse l’ultima carta data in mano a chi non la vorrà tenere.

Una delle ultime sere di carnovale: il teatro che urla, commosso, che dice resta, torna, non andar via! Per la prima volta, in Venezia, G. viene in scena e guarda in faccia dal palcoscenico la sua gente. Ha gli occhi pieni di lacrime. Ma non resta. Ormai sa troppo. Sa che la “sua storia” si è chiusa, così. Con quel ballo delle Baruffe, forse, con gli zoccoli sul legno, i piedi in tondo, la chitarra, i violini in scena e lui fattosi “giovane” che si allontanava, perché non era al suo posto, nemmeno lì. Era solo.

L’episodio si chiude con l’abbandono della casa di Venezia: le casse, i libri, i bauletti. Le stanze vuote. Lui e Nicoletta alla fine di una vita quasi, dentro le stanze vuote. E poi si va, si va. Di nuovo, “alla ventura”, ma ormai vecchi. L’immagine di Venezia corrosa, nell’acqua, una conchiglia vuota, mortuaria, svanisce come in fondo a un pozzo, per sempre.

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Memorie del Signor G.: sesta puntata

Il viaggio di G. per Parigi dura un anno e più. È un viaggio interminabile, in cui pare quasi che G. non “voglia” arrivare nel luogo dove egli passerà trent’anni della sua vita. Gli ultimi, nel presagio sempre più vicino della Rivoluzione. Sono anni in gran parte “inutili” per l’uomo di teatro G. Non inutili per “l’uomo di mondo” G., per l’osservatore amorevole della vita e della storia, percorsi da un brivido lungo nell’apparente disperdersi dei fatti. Infiniti fatti, piccoli e grandi, avvenimenti, incontri, esperienze che formano il tessuto nel quale G. diventa un “vecchio”, affonda nell’età, quasi “si lascia andare” a “contemplare” e partecipare dal di fuori a ciò che avviene. Egli è, in questo periodo, al tempo stesso “uno di fuori che guarda” il Mondo muoversi e il piccolo protagonista che annota e vede con inesausta curiosità ma più non sa quasi “far diventare teatro” quello che vede e sente.
Forse G. è morto alla pienezza dell’arte quell’ultima sera a Venezia, in quell’addio straziante del teatro San Luca.
Così, si avranno qui due piani di racconto: uno “soggettivo” (G. che vede gli altri e le cose), fatto di attimi, di immagini quasi sovrapposte e senza ordine né scopo apparente, e uno “oggettivo” (G. in alcuni momenti capitali della sua storia umana), fatto di momenti vissuti da protagonista. Emergerà chiaramente anche la sostanziale “indifferenza” o “ingratitudine” del Mondo nei suoi confronti e il suo vivere sempre più, con poca speranza, sorpassato in parte da ciò che avviene intorno a lui e con sempre meno benessere, fino alla miseria: miseria dignitosa, nascosta, accettata con umiltà, con tenerezza, ma pur sempre miseria. Apparirà chiaro anche che il vivere di G. accanto ai “grandi della terra”, i re, le regine e le principesse, in un mondo alla deriva tra feste di corte, giochi di carte, lutti e cortei, è stato senza che questi nemmeno si accorgessero di lui: G., uno dei tanti stipendiati della Corte di Francia. Pure egli continuerà a scrivere, a dare teatro, ancora commedie e idee, anche se non più con la grande fiamma che aveva bruciato prima. Indomabilmente G. sarà, fino all’ultimo, “uomo di teatro”, con il suo dovere, il suo destino di uomo che lavora.
Ma quando il nuovo mondo arriverà, egli non ci sarà più. Così vedremo G. arrivato a Parigi ed il suo incontro notturno con la città illuminata, l’architettura, le nuove dimensioni, il fiume, i giardini, i palazzi (tutto così grande!) e i fuochi d’artificio e il dialogo con Nicoletta sulla bellezza, sul futuro a Parigi e…
Poi, l’incontro con gli attori italiani in Francia, al “Teatro Italiano”, che G. ritarda di quatto mesi (!) per ambientarsi, dice, ma più per “paura”. Entra nel Teatro Italiano, a Parigi, durante uno spettacolo e ciò che vede è un enorme sedere di un clown-Arlecchino che “fa ridere” i francesi con sconci lazzi della Commedia dell’Arte, quelli che G. aveva sconfitto a Venezia e dentro di sé. E nella storia. Con questo tipo di teatro G. dovrà dunque misurarsi di nuovo? Ma come? G. prende tempo ancora. E, intorno, la vita di ogni momento, la curiosità di ogni minuto: qui l’incendio notturno di un teatro, il teatro d’opera che va a fuoco con tutti i suoi scenari («Bellissimo!”» dice), là l’incontro con una donna che abita sul suo pianerottolo ed è italiana: la Riccoboni, la celebre Riccoboni del Riccoboni, il più celebre attore italiano con Sacchi, morto in Francia! Su suo consiglio G. va alla Comédie-Française e assiste a una recita del Misantropo di Molière. Ne rimane sconvolto (che precisione, che chiarezza, che ordine!). E là, invece, il clown col sedere per aria? Ritrova gli attori italiani e avviene praticamente la rottura: butta sul tavolo cinque, sei commedie, canovacci come poteva farli trent’anni prima o come faceva Gozzi. Li prendano. Facciano quello che vogliono. Non rinnoverà il contratto, ma gli altri rispondono: «Cosa vuoi? Con gli italiani vogliono ridere, ridere e ridere!». «E ridano pure, ma senza di me.» G. se ne va per sempre dal Teatro Italiano di Parigi. E, di nuovo, la vita: la distruzione di un’enorme quercia che tutti piangono ma G. no, perché vede in questa distruzione il posto per costruire meglio domani, e porta a casa un ramoscello, un ricordo.

Lo spettacolo delle mongolfiere che salgono nell’aria (cosa non può fare l’uomo! E domani? Potrebbe volgere al progresso, questa invenzione…)

Grazie ad amici influenti riesce a trovare un “mestiere sussidiario” a Corte, come professore di italiano delle figlie del re. Da un lato se ne sente lusingato, dall’altro… È diventato un salariato, senza saperlo. Ma in strada, nelle immagini che passano rapide davanti ai suoi occhi, non ci sono solo l’architettura e le feste e le invenzioni, ma anche qualcosa d’altro. A un angolo G. assiste all’assalto a pietraie di una carrozza di un nobile da parte di un gruppo di popolani. G. alla prima avvisaglia si eclissa. Non è un eroe. Ma rimane colpito. Cosa sta succedendo? Ne parla con l’ambasciatore di Venezia che l’ha in stima e lo invita. «Caro Goldoni, perché non pensa di tornare a Venezia? Molti sarebbero contenti!» – «Ah, sì, adesso…» – Gozzi si è rovinato con le sue mani per una sporca storia di donne, quell’attrice, quella Teodora.» – «Ah! Teodora!…» G. sa che è un’altra con lo stesso nome. Lo stesso nome! G. ride piano. «Caro Goldoni, qui le cose possono diventare difficili.» – «Come difficili?.» – «Il popolo è inquieto.» G. non sa credere. Pensa che sempre tutto si possa aggiustare con una “democratica convivenza”, lui! E poi, via, non è il caso… Però… Il colloquio finisce così.
E qui, improvvisamente, la disgrazia “fisica”. Mentre G. va in carrozza a dare lezione alle principesse, leggendo Rousseau, un colpo apoplettico lo abbatte. Perde per sempre l’occhio sinistro. «Son diventà orbo, Nicoletta» dice sempre, «non posso neanche leggere, neanche scrivere. Ma io se non leggo, se non vedo, se non scrivo, muoio…» e studia il francese con accanimento. Ha un piano segreto che non dice a nessuno, solo per accenni a Nicoletta: scrivere una commedia in lingua straniera.

E fuori: muore un re. Morto il re, viva il re. G. assiste a questi rituali di lutto e potenza, da lontano, con un occhio solo, mezzo nella nebbia. Ma dov’è il nuovo re? Inchinandosi ne vede, solo e male, i piedi che vanno rapidi.

Dieci anni sono passati. E avanti: lo spostamento estivo a Versailles, la fila interminabile delle carrozze nel sole: un altro funerale. «Farà più fresco a Versailles, Nicoletta. Perché non hai mai voluto imparare il francese? A Versailles si sta bene. C’è il ballo. C’è il gioco delle carte, di sera. Io gioco… col re. Da lontano. Vivo dignitosamente. Ho la mia pensione. Scrivo commedie, per “mio piacere”. Non per bisogno. Le ho mandate a Venezia. Qui, certo, il mio teatro non lo capiscono. Ma…Poi le traduzioni, si sa! E il teatro italiano: in rovina. No, sono le commedie dell’Arte in rovina. È capitolo chiuso. Dormi, Nicoletta?» E così altri cinque, dieci anni a Versailles. Poi Parigi, di nuovo: Notre-Dame, Maria Antonietta, il matrimonio. G. di notte, al lume di una candela con specchio per fare più luce, lavora. Scrive, scrive, con un occhio solo, come un ladro. Ha la proibizione di scrivere e leggere, soprattutto di notte.

Il titolo: Le bourru bienfaisant, di C. Goldoni. Ecco la commedia in francese! Notte per notte ci lavora. Finito il Bourru, G. incontra Voltaire. Voltaire a letto, che tiene banco. Gli parla in italiano. «Hai capito, Nicoletta? Mi parlava in italiano, quel grande uomo! E lodava il mio Bourru, capisci, lui francese!» La commedia viene accettata dalla Comédie-Française! «Quale onore, quel honneur, ah! quel honneur!…» Ma, subito dopo, un incontro con Rousseau lo sconvolge. Rousseau è povero, abita in soffitta, con una donna. Lo scopre che sta copiando musica e G. lo rincuora. Ma Rousseau ride: «No, perché? Va bene così. Meglio copiare musica che scrivere articoli di merda per giornali di merda. Copio, mi diverto con la musica e guadagno da vivere e scrivo quello che mi piace. Bella idea, no? E ride». G. lo guarda con terrore. Poi il ménage: la donna accende il fuoco, porta da mangiare e da bere e si siede al tavolo. Ma come? È la signora Rousseau? Ma, scusate, la signora Rousseau accende il fuoco come una serva? «Sicuro, perché no? Siamo soli, noi due, stiamo bene. Perché spendere per una serva? Facciamo da soli, da soli. Arrivederci, caro Goldoni, e per la Comédie non ci pensi. Non serve. La Comédie è una merda. La sua commedia non la rappresenteranno mai. O, se la rappresenteranno, lo faranno male, malissimo. Au revoir, mon cher ami, au revoir!»
G. esce, quasi impaurito da quella visita. Rousseau è un tipo troppo diverso. «Diverso, Nicoletta, capisci? Io… io… a me piace mangiar bene, vivere decorosamente, con la casa, la servitù che occorre… Però, che coraggio, lui!… Come scrive, lui!… Io, però, anch’io ho il mio coraggio, un altro tipo di coraggio, il mio… Come no. Come no?… Dormi, Nicoletta?»

Ancora un palcoscenico: il successo del Bourrou alla Comédie. Goldoni che esce davanti al pubblico (ma a Venezia non si usa. Non è cosa… dignitosa. Sembra che uno venga fuori per dire son qua, applauditemi). G. del pubblico, però, vede poco o niente! Come sempre e più di sempre, una nebbia scura con luce davanti, ombre che applaudono. E cala per l’ultima volta la tela.

G., solo in palcoscenico, come duecento anni prima, apre la bandinella e incolla l’occhio e vede la platea vuota e scura che muore. L’ultima.

E ancora anni e le immagini: una sonnambula che cammina sul tetto e non cade. Gli esperimenti magnetici di Mesmer («Quello cura la malinconia depressiva, i vapori, Nicoletta! Credi che mi farà bene?»). L’attesa in mezzo alla folla, sulla riva della Senna, che arrivi qualcuno. Ma chi? Uno che ha trovato il modo di camminare sull’acqua. Ma no? «Ma sì! Però il tizio non è arrivato, Nicoletta. Ma, sarebbe possibile?» La morte del re Luigi XV. Il funerale, il nero. Poca roba, nonostante tutto.

G., da dentro, non vede che dettagli.

Poi l’improvvisa partenza per Versailles. Questa volta è una fuga. Ma che succede? «Difficoltà, caro Goldoni! Difficoltà politiche…» – «Ah…» G. lo chiede a un suo amico parigino, un fuoruscito inglese: John Wilkies. E Wilkies gli spiega che le cose precipitano. Ma la ragione, gli uomini… il tempo. «Non c’è più tempo, Carlo» – «Forse è vero. Io sono troppo vecchio ormai… io sono rimasto indietro.»

Una mattina, improvvisamente, G. si sveglia in una Versailles vuota. Sono scappati tutti nella notte, hanno portato via tutto. C’è solo un custode che chiude. («Mi hanno abbandonato! Mi hanno abbandonato qui! Si sono dimenticati di me!, senza soldi, neanche mi hanno pagato il mensile e gli arretrati.»)
G. è disperato, senza soldi, prigioniero a Versailles perché non pagano più gli stipendi e sempre più vecchio e più orbo. Si aggira come una talpa nella mansarda di Versailles, tra i suoi libri. Poi decide l’ultimo suicidio: vende la biblioteca per tornare a Parigi. C’è l’illustrissimo ambasciatore di Venezia, Gradenigo, che si degnerebbe di comprarla. G. e Nicoletta, alla fine di una vita, preparano le casse coi libri venduti. Una lettera a Gradenigo: «Grazie per l’opera di bene e qui l’elenco dei prezzi. Per essere onesti». Questo è G.
E infine l’ultima casa. L’inverno, fa freddo. I passeri cercano il miglio alla finestra. Da G., per loro, ce n’è sempre. G. intanto scrive ancora: I Mémoires: sì, proprio I Mémoires! G. ha ormai ottant’anni. «Ma mi sento bene, mi sento bene. Ogni tanto il cuore batte troppo presto. Poi si calma. E qualche volta faccio fatica ad addormentarmi. Allora invento un vocabolario della lingua veneta-francese-italiana e dopo poche parole… il sonno… il sonno… Il sonno è l’immagine della morte. Ma io non ho paura della morte. Perché la morte…»: il cerchio si chiude, sulla stessa voce dell’inizio della storia. Poi di colpo una data: Nevoso 1793, II della Repubblica.

Una seduta della Convenzione. È tardi. Sera. Buio. Perché non si rimanda la discussione dell’ultimo punto all’ordine del giorno, quello riguardante la restituzione della pensione al poeta Carlo Goldoni? Il deputato Chénier insiste: «Dopo gli assegnati, la fame, la Vandea e i traditori, dopo la politica, non avranno dunque posto, tra noi, la cultura e lo spirito? Non è l’arte, ecc. ecc?….». Vengono portati candelieri fumanti. I deputati (da Danton a Robespierre e altri) ascoltano pazienti il discorso di Chénier che conclude: «Cittadini! Goldoni finisce i suoi giorni nella miseria. Pensionato del re, ha subito il destino di tutti coloro che dipendevano dalla tirannia. Ma egli, più volte, fu sentito dire che avrebbe preferito ricevere quella pensione da una libera Repubblica piuttosto che da una tirannica monarchia. Tutta l’opera di questo poeta appartiene ai tempi prossimi della libertà. Il disgusto della licenza a teatro, il disprezzo per un teatro che con le sue farse null’altro poteva fare che avvilire uomini avviliti, avvilendoli sempre più; è stato uno dei tanti presagi della caduta del dispotismo. In questo spirito, Carlo Goldoni ha riformato il teatro italiano. Ma egli è povero. Però egli ha scritto una commedia in lingua francese che s’intitola Le bourru bienfaisant, quasi per ricordarci che anche noi, noi che oggi dobbiamo essere duri, mai dobbiamo però dimenticare la nostra tenerezza! Chiedo la votazione per la restituzione degli emolumenti al poeta Carlo Goldoni, per sua scelta cittadino della Francia e del mondo».
La Convenzione approva, con molta semplicità, alzando la mano.
C’è altro da dire?
Ah! sì: un commesso ministeriale cerca un indirizzo con una grande busta in mano. «Scusate, Golini, Goldini… Ah! Goldoni sta qui?» La portinaia gli indica le scale buie e strette. «Lassù. All’ultimo piano. Ma non c’è più! Poveretto, è morto l’altro ieri! Non c’è più nessuno.». – «La moglie?» – «No. L’ha accompagnato al cimitero ed è sparita. No, non c’era nessuno. Veniva poca gente. Ma che brava persona, il signor Goldoni! Così buono e così solo. Molto solo.» «Qui ci sarebbe la sua pensione. Gliel’hanno restituita con gli arretrati.» «Peccato, troppo tardi!» Sì, troppo tardi.
L’immagine del commesso che se ne va, con la busta chiusa in mano.

Memorie del Signor G. – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato nel programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1987-88

Goldoni, genio della vita

Idea critica base per la IV puntata televisiva

Se la prima puntata era: adolescenza-scoperta della vita come teatro – sogno tutto bello, tutto musicale, tutto gioia con appena qualche amarezza, ma subito perdonata, protezione paterna, viaggi felici;
se la seconda era: passaggio alla giovinezza “vera” e dissipazione, la vita non più come sogno ma come realtà anche o spesso tragica, come illusioni che muoiono, la guerra, il vizio, il tradimento, la stupidità degli uomini, il teatro come tentativo fallito e infine come “salvezza”, perché solo là, nel Teatro, quasi contro il Mondo cattivo, si può trovare calore e solidarietà umana e, infine, inizio di un destino “estetico”, teatro come “una riforma da fare”, ancora imprecisa ma già presente;
se la terza è stata “l’inferno teatrale”, la scoperta accettazione della missione teatrale, del teatro come “cosa legata al mondo”, “Teatro e Mondo”, insieme, col suo male e il suo bene, la sua fatica, la sua lotta; il precipitarsi di tutto nel teatro e il perdervisi fino allo stremo, alla “follia” delle 16 commedie in un solo anno, con l’ultima illusione di “cambiare” subito, qualcosa;
la quarta puntata è lo scoprire che le “cose” non cambiano per un’avventura di teatro, per quanto totale essa possa essere. Che un “cambiamento delle cose” (cioè vita, storia, uomini, situazioni storiche, costumi, ecc. ecc.) è qualcosa di molto più lungo e più lento. Che se “Mondo e Teatro” costituiscono un tutto, come esperienza di un essere umano, e non solo un contrasto (sono dialettica, continuamente sana e riaperta), il teatro non cambia il mondo di per se stesso, non cambia neanche il teatro, in un certo senso o, comunque, non lo cambia che in piccola misura, non proporzionata allo sforzo che costa.
Il teatro può “aiutare” a cambiare il Teatro e il Mondo, insieme a mille altri fattori esterni della storia che si muove. È una “illusione” modificare a fondo e presto un costume teatrale (cioè un teatro) con una “riforma” fatta di tot anni di lavoro e anche tot commedie scritte. Si modifica quel tanto che la situazione concede, si gettano le basi per un movimento in avanti che probabilmente ci sorpassa come esseri umani, nel tempo. E altra illusione, ancora più deludente, è credere che si “ammaestrino” in qualche modo gli essere umani, fuori del teatro, con il teatro.
Anche qui le parole, se sono “giuste”, se sono poeticamente risolte, se sono con la storia, nella storia, o avanti e non “a rimorchio”, non “fuori”, non “irrisolte” esteticamente, “servono” a fare la storia, ma in una misura impercettibile, quasi tutta legata al divenire della storia in un contesto molto più vasto. È il momento della presa di coscienza totale della realtà di un’azione “anche rivoluzionaria nel teatro”, della sua precarietà, della sua relatività. Un successo, una somma di successi, anche folgoranti, anche caldissimi, danno l’impressione (perché il teatro ha questa capacità) di essere “arrivati” a un punto fermo, a una conquista permanente. E invece non è vero. Pure, qualcosa è accaduto. Questo senso del limite, della relatività del teatro, è una scoperta terribile, per coloro che hanno già superato le altre fasi di conoscenza, ed è in un certo senso l’ultima. Dal punto di vista teatrale. Ora, o si cede per sempre o si continua, avendo finalmente capito una cosa che però fa un male atroce. Perché è la scoperta di una verità fondamentale: la piccolezza dell’umano nel contesto della vita significa avere il coraggio di essere uno, nel coro umano, che “porta avanti”, invece di “portare indietro”, con tutto ciò che di doloroso comporta, senza cambiare quasi niente. Semmai, sperando che servirà per “altri”, dopo. Assieme a molte altre cose.
Questo un primo senso della puntata. Ma non basta. Sebbene il fondamento eroico di questa presa di coscienza sia il fondo di tutta un’azione umana, Goldoni, stroncato dalla fatica, si accorge dunque che non è arrivato quasi a nulla. Anzi, come capita sempre, a questo punto tutto si sfascia. Per G. era una cosa poi quasi voluta o cercata: sempre G. sfasciava da se stesso le cose, giunto a un certo punto. Forse per paura che si sfasciassero da sole, prima! In pochi anni, si può dire dal 1751 al 1753, due anni (due stagioni e mezza di teatro!) gli succede questo:
a) distrugge i suoi rapporti con Medebach, con Teodora, con la compagnia della riforma;
b) li distrugge sul piano affettivo, innamorandosi della Marliani e distruggendo anche crudelmente Teodora. Teodora non aiuta certo per nulla se stessa, anzi peggiora la situazione. È il circolo vizioso delle coppie nevrotiche; si uccidono, invece che aiutarsi. Non possono aiutarsi: equivoci, cattiverie, ripicche, crudeltà, incomprensioni si susseguono. Fino alla fine. Ma si distrugge poi anche il rapporto con la Marliani. E questo è più misterioso. Probabilmente si crea una “situazione insostenibile” dal punto di vista sentimentale, poiché le due donne “coesistono” oltretutto nella stessa compagnia e G. deve averle presenti sempre. Forse la Marliani, anche lei, “chiede” poi troppo. È comunque un punto da chiarire;
c) li distrugge sul piano di lavoro, Medebach e l’edizione abusiva delle opere (grossa azione miserabile). Sul piano dei comici: li lascia dopo tanto lavoro e tanti risultati! Anche questo è un segno;
d) passa da una crisi psicofisica all’altra e riesce a scrivere solo due o tre capolavori, in mezzo a cose molto meno importanti (La locandiera insegni). Incominciano gli anni esteticamente più oscuri di G., sempre in rapporto alla maturità raggiunta. Non in senso assoluto. Va indietro, G.;
e) si scrittura con Vendramin al San Luca. Probabilmente sente il bisogno (o l’illusione) di creare una “sua” compagnia. Infatti G. diventa per la prima volta “direttore” di teatro, non il “poeta della compagnia”. Alcuni attori della compagnia Medebach lo seguono, i più “seri” e i più avanzati nella riforma, anche questo è significativo. Ma per gli altri deve quasi ricominciare da capo. Qualcuno lo conosce dal tempo di Imer. Ma la compagnia del San Luca è in fondo tutta da fare. Anche il teatro: ha un’acustica diversa, è molto più grande, pone nuovi problemi.
La realtà è questa, che G. ci metterà circa otto anni per creare una nuova compagnia in grado di arrivare a recitare I rusteghi, le Villeggiature, le Baruffe, le Ultime sere di carnovale, Todero brontolon, La casa nova, il Curioso accidente; e, del pari, otto anni circa per uscire da una crisi profonda, da uno smarrimento di se stesso, gravissimi. Tutto ciò, egli lo fa, certamente, in parte spezzato, cioè con la presa di coscienza avvertita prima, stanco e malato e con la paura della vecchiaia. Con l’angoscia della vecchiaia povera. È un punto molto importante.
Ma non basta: ecco che in questi terribili anni si innesta il terzo problema:
I problema: umano teatrale;
II problema: estetica teatrale, tecnica teatrale (attori, pubblico);
III problema: “la società”. Cioè i “nemici”.
G. ha sempre sofferto di una specie di “nevrosi di persecuzione”. Non che essa non abbia riscontro nella realtà. La vita di G. fu costellata di inimicizie e di cattiverie. Ma il teatro non è tutto così? E la vita? Cioè Mondo e Teatro?
Nel teatro, le cose, certamente, si esaltano, vengono più “messe in luce”, diventano più crude. Inoltre, esiste questa “psicosi” del nemico, nel teatrante di tutti i tempi, che fa parte della psiche dell’attore-uomo di teatro. Non sfugge nessuno né alla paura (il trac), né a questa “psicosi”. Quindi, le cabale, le persecuzioni, le sorde “inimicizie”, le vendette esistono, ma sono anche ingigantite da G. uomo di teatro e da G. nevrotico. Su questo non ci sono dubbi. Soltanto che, fino a questo momento gravissimo, la “nevrosi di persecuzione teatrale” è rimasta episodica, in fondo, e incerta, quasi larvale. Nonostante le avvisaglie del Chiari e altri.

È a questo punto che avviene l’incontro dialettico o, se vogliamo, “di lotta” tra il mondo di G. e le strutture estetico-sociali del suo momento storico-letterario (anche aggiungendosi a un momento di “debolezza” fisico-sentimentale, direi anche di età – menopausa maschile anticipata); G. si usò molto (ha scritto 222 commedie e tragedie e opere, più altro di sé), scoppia con una violenza incredibile e una chiarezza insolita. Tutto gli si mette contro: i suoi attori di prima, istruiti e bravi, diventano nemici, si alleano con il Chiari. Ciò non può non aver comportato uno choc sentimentale e un danno “reale”, concreto. La polemica chiaristi-goldonisti qui diventa qualcosa di serio, perché sostenuta da una realtà di pubblico e di attori di primo piano. G. è in condizioni di inferiorità circa gli attori; è in inferiorità per sentimento, per sensibilità, quindi per ferite, e fu qualcos’altro di più complesso; è in inferiorità perché sa di essere quello che è, ma sa anche che non serve, che non basta più (non è servito neanche il triplo salto mortale!); in inferiorità circa il luogo: un teatro grande e nuovo; in inferiorità fisica: sta male quasi sempre. Lo sostiene – e questo è l’eroico – una “incrollabile fede” nel teatro e nella giustezza storica di ciò che ha fatto e ciò che fa e farà, ma quasi teorica, astratta. Continua e non molla – veramente è eroico –: è questo il marchio del genio, del predestinato, ma dal punto di vista estetico, immediato, la lotta chiarista-goldonista si sposta completamente e il cammino di G. devia. Egli, qua e là, si “salva”, scrivendo nonostante tutto delle commedie che segnano una costante del suo cammino. Il tragico-buffo è che per gli altri autori meno prolifici questo problema non si presenterebbe: qualsiasi autore che avesse scritto le venti commedie migliori di G., tra le quali almeno dieci capolavori, di cui almeno quattro “assoluti”, non dovrebbe trovare alcuna giustificazione! Invece G. ne ha scritte 222, dunque… Vige anche qui, anche dopo secoli, la legge del salto mortale! G. ha fatto troppi salti sulla corda! Ma la realtà, comunque, di questo periodo è che G., per vincere Chiari, cerca di riuscirci (e lo vince poi, ma indirettamente, cioè per consunzione del nemico) mettendosi sul suo piano, cioè abbassandosi, cioè rinunciando; ecco il periodo delle tragedie, dei martelliani, delle Arcane, delle Persiane, delle Cinesi, ecc. Se però si crede che egli lo abbia fatto solo per “vincere”, è un grosso errore. Il fatto è che il pubblico era già stanco della riforma, del naturale e via dicendo. Voleva già qualche “altra cosa”. Per ragioni di “contrasto”, di alternanza, di volubilità di gusti tipiche del ‘700, ma anche perché aveva un profondo e quasi inconscio bisogno di “sentimenti forti, di sentimenti esplosivi, violenti”. Il secolo stava andando avanti verso la Rivoluzione francese e, senza rendersene conto, il pubblico aveva bisogno di “passioni” che fossero poi buone o cattive o mediocri, poco importa. È come oggi nel cinema; si crea un certo bisogno medio “reale”, nel quale sguazzano poi i pornografi, i finti sociologi, i becchini, gli impotenti, i cretini. Ma comunque questo “bisogno medio” esiste, e un uomo di rappresentazione non può non tenerne conto.

G., che conosceva il Mondo e il Teatro, non poteva non tener conto, anche se più o meno oscuramente, del Mondo e delle sue necessità. In questo contesto si inserisce il Chiari, e la Compagnia Medebach e i nemici in genere. Non ultima poi, la compagnia del San Luca, in via di formazione.

Ecco una domanda. Ad esempio: avrebbe mai potuto, la compagnia del San Luca, al suo primo e secondo anno, ammesso che G. avesse scritto la commedia, fare una scena come quella della Meneghella nelle Ultime sere di carnovale?

Una ragione importantissima sta qui. La risposta è certamente “no”. E allora? Allora G. pagò una sua situazione umana-storica, ritornando indietro per vanità, diciamo (vincere Chiari), autodifesa, orgoglio o altro, ma soprattutto perché non poteva fare niente altro. Brechtianamente non poteva fare altro. Poteva, tutt’al più, fare qualcosa di più, se vogliamo. Ma non aveva fatto abbastanza. Tutto il contesto personale e non personale in cui viveva lo spingeva a questo. E non è un caso che proprio da questo periodo sboccino improvvisamente quella serie di capolavori che sono appunto i Rusteghi, le Baruffe, la Casa Nova, le Ultime sere, Brontolon, la Trilogia della Villeggiatura, così poco ancora capíta. Commedie che basterebbero a una vita e c’è invece molto di più: il Campiello, Donne gelose, Pettegolezzi, Innamorati, Bugiardo, La bottega del caffè, La famiglia dell’antiquario, Le massere, e via via fino alle più incerte ma straordinarie: e L’impostore? e Il cavaliere e la dama? e L’avaro geloso? e La putta onorata, La buona moglie, La figlia obbediente?…
Che tutto ciò sia cosciente, lucido o no, poco importa. C’è una lucidità interiore che ti porta a fare ciò che si deve e che si può. In questo, G. fu un maestro. Riuscì sempre ad “aggirare l’ostacolo” e riprendere il filo di un discorso o addirittura non lasciarlo mai cadere. Per chi conosce le condizioni del teatro e della società del suo tempo (veneta in particolare), degli attori e del resto, questo è il più grande miracolo possibile. È una cosa incredibile.
Ma non siamo, ancora, esattamente al centro del problema “società”. Esso diventa fondamentale ed è, direi, il colpo finale solo con Gozzi. Gozzi è il punto focale della storia “sociale” critica-estetica di Goldoni. Gozzi arriva alla fine, ma dà un senso a tutte le incertezze. Diventa il catalizzatore storico-sociale-estetico di tutto ciò che è contro G. In un certo senso, deve aver servito anche da chiarificatore a G. stesso. Chiari non bastava. Chiari era per G. una pezza da piedi, cattiva, noiosa o altro. Gozzi no. Gozzi colpisce e bene. Gozzi è crudele, nobile, colto, intelligentissimo. Con lui, tutta la vita di G. salta in aria, diventa contestata da destra. Tutte le forze che G. ha toccato, più o meno a fondo, tutti gli interessi estetico-politico-finanziari che ha sfiorato, si coalizzano intorno al “leader reazionario”, al grande dilettante, al “signore che gioca”.
Non dimentichiamo che per Gozzi la storia di G. è stata sempre un gioco! Io non credo che Gozzi menta quando rimpicciolisce il senso della polemica con G. È l’atteggiamento di chi è “fuori”, in fondo, della mischia. A Gozzi certo interessava molto di più Gratarol. E infatti lo stronca a morte. G. lo diverte. Anche se è conscio della sua pericolosità sociale. Ma anche qui Gozzi è troppo disincantato, e forse cinico, per essere veramente convinto di “salvare qualcosa”. Per G., invece, l’incontro-scontro con Gozzi è una tragedia. È il culmine di una vita teatrale e storica difficile. G. è meno spiritoso, meno intelligente, meno disincantato, meno dilettante, meno cinico di Gozzi. G., nonostante il suo talento, è in perdita, giorno per giorno. Vince, nella storia, per poesia. Ma perde come essere umano, al minuto.
“Vince per poesia” appunto. Ecco perché l’apice della lotta Gozzi-Goldoni è la sconfitta di G., che emigra, sparisce, lascia il campo, non ce la fa più come uomo, ma è il suo trionfo come artista. Le cose più grandi le ha scritte proprio con e durante Gozzi. Cioè non è sceso, questa volta, sul terreno altrui come con Chiari. Ha fatto andare Gozzi sul terreno suo. E Gozzi non c’è andato. È rimasto là, con le sue fiabe scommessa-barzelletta-boutade, anche geniale e basta. Distrutto. Un atto delle Baruffe distrugge tutto Gozzi. Ma proprio tutto. Tutta la sua nobiltà, la sua cultura, e il resto. Gozzi è un pigmeo, di fronte ai Rusteghi, parola per parola.
La cosa è ovviamente ancora più complessa.
Gozzi rappresenta per G. il “Gran Nemico”, ma il “Gran Nemico” non è solo il Nemico Personale. È la società in cui si è mosso G., attori-pubblico-storia, lui stesso perfino. Quel MONDO che G. ha aggredito, in un certo senso, che ha preceduto, che ha sommosso, con tutta la sua opera, fin dall’inizio, concessioni comprese. Quel MONDO ha subìto G. Qualche volta l’ha capito, qualche altra ha fatto finta, qualche volta l’ha accettato per snobismo, ma sostanzialmente non l’ha fatto mai suo. Di volta in volta, una “parte” di quel mondo, forse, si è sentita più coinvolta e più solidale con G. Ora una certa parte della borghesia, ora una certa parte del pubblico popolare. La parte nobile, mai o quasi mai: forse solo per le “cose” meno importanti o più ambigue. Così G. è stato sempre in una posizione estremamente precaria, corrispondente del resto alla sua posizione “storica”, rispetto al pubblico e agli attori e alla storia. Cioè ancora Mondo e Teatro. Ha mantenuto un equilibrio solo in virtù della sua presenza umana e poetica, della sua imposizione quasi, della sua tenacia, del suo accanimento, anche della sua souplesse in certi casi. Ma non per intima convinzione altrui. Per abbandono ammirevole.
Un esempio teatrale: quanti attori, di tutti quelli passati attraverso Goldoni, lui andato in Francia e altrove, si sono mostrati “autonomi”, ma legati a quei precetti del Teatro comico che aveva fatto loro, alla riforma? Io credo nessuno.
Pure qualcosa era rimasto, nel fondo del loro mestiere, un qualcosa di nuovo che ha fondato il teatro dell’Ottocento. Un qualcosa che era costato una vita a G. e che quasi non si percepiva. Occorreva la prospettiva del tempo per dimostrarlo (se dimostrabile). Gli attori, appena lasciato Goldoni, sono subito tornati a recitare come prima (ma non proprio come prima) e in quel piccolo “non proprio” sta tutto il problema dell’eredità del lavoro di Goldoni, nella storia del teatro moderno. E si potrebbe continuare con le esemplificazioni.
Alla fine G. si è sentito solo. Aveva ragione e aveva torto nello stesso tempo. Nella lotta con Gozzi, G. si è sentito aggredito in tutto e non ha avuto quasi nessuno con sé, al di là del successo “momentaneo” nel quale evidentemente non poteva più credere. Non ha avuto con sé la nobiltà, quella meno di tutti. L’ha sempre criticata, più e meno duramente, direttamente o indirettamente. Non poteva evidentemente aspettarsi nulla. Direi che, in questo senso, troppo ha già avuto!
La borghesia in salita sociale? Si dice che G. sia “il cantore della borghesia mercantilistica” contro la dissoluzione della nobiltà e via dicendo.
Ma anche questo è vero fino a un certo punto. Il fatto è che G. ha incominciato a frustare i nobili. Poi è stato consigliato-obbligato a non farlo o non ha sentito “opportuno” farlo direttamente (BB) [Bertolt Brecht, ndr]. Allora ha esaltato la probità, il buon senso, la virtù della borghesia mercantilistica, senza però mai tralasciare del tutto il “popolo”, la plebe, certo in minore misura numerica, non in minore misura poetica. Nella percentuale, le commedie in dialetto (in versi o no), le commedie popolari sono le più valide. Forse perché sono meno? Comunque lì G. non sbaglia quasi mai o sbaglia pochissimo. Perché?
A un certo punto, si stacca anche dalla “saggia borghesia mercantilistica”, a poco a poco; la borghesia gli appare meno virtuosa, meno edificante, meno contrapposta dialetticamente alla nobiltà. La borghesia si sta involvendo, diventa sorda e gretta, “prima” ancora della Rivoluzione francese! Altro miracolo. I rusteghi sono la critica più spietata, più dura del fascismo della borghesia, della grettezza, della disumanità della borghesia. La Restaurazione. È una commedia distruttiva e anticipatrice del destino “conservatore” della borghesia, prima del tempo. E nessuno ha intuito questo, né gli ha dato voce poetica, oltre a G. Egli è l’unico. Ma chi ha scritto I rusteghi, alla fine di una parabola borghese, non può non essersi, in un certo senso, distaccato già criticamente dalla borghesia! Ecco un altro termine di “isolamento”. Se G. è a un certo punto il creatore della borghesia mercantilistica, a un altro punto non lo è più, anzi ne è il critico più spietato. Resta il popolo. E qui c’è un altro dramma di G., suo, interiore, di classe. G. non poteva diventare il cantore del popolo. Non ne era capace “dentro”, oltre un certo limite. Né il popolo lo consentiva.
Nulla di più realisticamente straziante della “estraneità” in cui egli lascia il Cogitore (cioè se stesso) nelle Baruffe: «Noi siamo della razza di quelli che restano a terra». Il popolo non lo vuole, il Cogitore: «Sti siori dalla perucca, co nualtri pescaori, no i ghe sta ben». Ecco la verità. Nel Cogitore però capita di più. Così, con tutto il suo amore “per il popolare”, G. resta anche qui con un piede in aria! Più in là non può andare, non è ancora capace di “oltrepassare il solco”. In definitiva G. resta un déraciné: capace alla fine di stare a corte e di godere dell’urbanità della stessa, di criticare Rousseau perché fa lavorare da serva la moglie, e di capire allo stesso tempo John Wilkies, la Bastiglia, la storia, e di dichiarare, io credo veramente sincero, di essere repubblicano e “uomo nuovo”. G.: un girondino avanzato? “Uno a parte”, ma nel solco della rivoluzione? Che una rivoluzione, probabilmente, avrebbe travolto, a una sua svolta?

Tornando a Gozzi, mentre ciò maturava in G. e forse – ripeto – anche per contrasto con le tesi del Nemico, che obbligavano G. a chiarirsi con se stesso, Gozzi lo accusava di essere proprio quello che solo in parte egli era. G. era già ormai più avanti. Quindi: accusa di trivialità, di bassezza, di guadagnarsi il pane per vivere con l’arte (accusa fondamentale e inaccettabile per G.), di metter in forse le istituzioni, di essere pernicioso, sciatto, volgare, cattivo scrittore, disonesto anche, tutto il possibile. E tutto in parte legittimabile, da un punto di vista “reazionario”. La difesa di G. è quella dei capolavori, ma è anche appunto la sua sconfitta.
Le altre difese sono parziali, polemicamente e in parte capziose come capziose sono le critiche. La verità è che Gozzi aveva capito, e con lui o per lui molti altri, che G. non era dei loro. Tutt’altro. Ma di chi era G.? Con chi? Al di là degli amici (pochi)?
Io credo che nell’ultimo periodo, prima di partire da Venezia, G. sentisse di non essere con nessuno fino in fondo. Di essere solo. La richiesta della pensione di stato è come una pierre de touche o un vezzo caparbio: sapendo che sarebbe stato no. Certo presupponendolo. E la Repubblica si vendicò, dicendogli appunto che le pensioni si danno alla gente “utile”!
C’è in mezzo forse l’ultimo amore per la Bresciani. Ma io sarei propenso a credere che di tutte le sue attrici, forse la Bresciani non ci fu o contò poco, come donna, per G. Era un tipo contrario al suo: troppo violenta, troppo “virile”, forte di carattere, non era “forte-piquante”, non era soubrette! Ma eroina. Illazioni. Valide o no.
La partenza per Parigi è comunque l’unica soluzione e l’unico errore possibile. Ma è un atto di disperazione. È l’ultima fuga, ammantata anche di automenzogne e autodistruzione.
Del resto, se ancora oggi i tre quarti della critica goldoniana non sa niente di Goldoni, non ha capito niente, ha equivocato tutto, anche la sua vita, anche i Mémoires (“papà Goldoni”, ma chi l’ha inventato, chi è quel primo mostro?), cosa potevano capire i contemporanei di lui?
La storia di G. è una storia esemplarmente tragica ed eroica, sommessa ma eroica. G. è un uomo che non ha mollato fino all’ultimo: Mondo e Teatro, e questo per sessant’anni di vita teatrale più ventiquattro di assaggio!
Fino all’ultimo giorno ha seguito il suo destino, il suo “genio comico”. E il suo “genio ambulante”. E il suo “genio della vita”, osservare, comparare, essere incuriosito, cercare di capire. Come, e più, di come poteva.

Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli Editore, 1974

Un tabarro scarlatto nei giardini del Louvre

L’ultima immagine di Goldoni vivo è quella che in Una delle ultime sere di carnovale del lontano 1762, da una ribalta accesa a festa, dice addio a tutti e non sa più trattenere le lacrime.
Goldoni ha allora 55 anni e lascia l’Italia per la Francia, portando con sé per sempre quel tanto di mistero che ogni esilio volontario racchiude e forse, nel commiato, nella promessa di “inviare i disegni” a Venezia, anche il presentimento che in quella sera si conclude la sua storia di uomo di teatro.
Certo non la riaprirà la sua fatica di librettista, la creazione obbligata di nuovi canovacci della Commedia dell’Arte ormai esangue, anche a Parigi, non le sue commedie “francesi”, non la trilogia di Zelinda e Lindoro, che nulla aggiungono alle conquiste raggiunte molto tempo prima con Gli innamorati, e nemmeno il gioco stupefacente del Ventaglio, tanto stupefacente, tanto “gioco” da svelare, dietro lo scintillio dei toni e il variare dei ritmi, la gelida struttura di un meccanismo perfetto, non il volto della poesia. È questo ormai il periodo in cui Goldoni si affida non alla creazione bensì alle sue Memorie, ricalcando come può nei ricordi il cammino percorso.
E l’immagine dell’uomo Goldoni è quella che ci riporta Vittorio Alfieri di ritorno dalla Francia, quando ci parla di «un tabarro scarlatto, alla veneziana» che passeggia silenziosamente per i giardini del Louvre.
Attorno si prepara il quattordici luglio.
Veramente la grande avventura di Carlo Goldoni si ferma a Venezia. Il lungo cammino della riforma si arresta proprio a quella ribalta del Teatro San Luca. Ed è proprio in questo ideale terzo atto, scritto tra gli anni 1753-1762, che il mondo poetico di Goldoni raggiunge la sua estrema, completa maturità.
Basta riflettere sul catalogo delle opere di questo periodo – Le massere, Campiello, I rusteghi, La casa nova, Todaro Brontolon, Baruffe chiozzotte, Innamorati, La guerra, Trilogia della villeggiatura, Una delle ultime sere di carnovale (e le precede di poco La locandiera) – per convincersene.
Le commedie più vitali, quelle in cui brilla maggiore poesia, in cui ogni parte si compone con maggiore equilibrio, in cui un sovrano senso del mestiere meglio si lega alla chiarezza di un’ispirazione inequivocabile, sono tutte qui.
Cosa ne resta escluso? Certamente un catalogo imponente di opere: Il bugiardo, La bottega del caffè, La putta onorata
L’inesauribile vitalità drammatica di Goldoni si ripercuote “sempre” in tutta la sua opera, anche in un solo personaggio, in una sola invenzione e, talvolta, raggiunge i limiti di un equilibrio tanto più miracoloso quanto più ottenuto attraverso un compromesso formale, un accordo più o meno libero tra volontà e necessità, tra ispirazione e forme drammatiche costituite. Tale, appunto, la caratteristica di tanta parte dell’opera goldoniana, continuamente tesa a costituire un fatto drammatico autonomo, valido di per sé, oltre ogni programma, oltre ogni “riforma”, e nello stesso tempo a rappresentare un superamento della drammaturgia del suo tempo.

Si tratta, tuttavia, sempre di un compromesso (diciamo semplicemente, schematizzando: Commedia dell’Arte da una parte – commedia realistica dall’altra) tra due tendenze ormai sempre più nettamente contrastanti.
Tutta la storia di Carlo Goldoni, uomo di teatro, è vissuta in questa dimensione. La liberazione da questo compromesso ha luogo quando la “riforma” si conferma totalmente, senza concessioni, molto tempo dopo l’annuncio del Teatro Comico, e si potrebbe definire questo momento con una data: l’abbandono della compagnia Medebach [nel 1753, ndr], con gli ultimi Arlecchini, i Pantaloni e i Brighella, e il trasferimento appunto al teatro San Luca. Nasce allora appunto, qui, la serie dei “capolavori” assoluti, quelli che provano la grandezza di Goldoni.
Per noi la storia di Goldoni insomma è un cammino di conoscenza, è un cammino tra gli agguati formalistici, le formule, le trasposizioni pseudopoetiche, le evasioni favolistiche, aneddotiche, del meraviglioso, del suo tempo, verso la “realtà” di un’avventura umana che si svolge nella “sostanza” quotidiana di un secolo.
A noi pare che Goldoni abbia più ragione di tanti suoi critici quando, oltre che di decenza, di proprietà, parla di “umano”, di verità dei sentimenti, di “realtà”, quando enuncia semplicemente, senza reticenza il suo “programma”. Noi accettiamo questa immagine di Goldoni proprio sulla base di ciò che Goldoni vuole essere, sulla base di ciò che i suoi oppositori (Gozzi, Chiari e altri) ci dicono che sia. Accettiamo il “programma” di Goldoni quando ci dice: «Ma più del maraviglioso m’accertai che sempre la vince nel cuore dell’uomo il semplice, il naturale».
Quale poi sia la misura di questo “realismo”, quale sia poi la stessa definizione di realismo, non è compito di questa nota. Vorremmo tuttavia che ben chiaro fosse almeno che il limite del realismo, almeno come noi l’intendiamo, è assai più vasto di quello che si vorrebbe.

Lettera senza data a Luciano Perugia, il previsto produttore esecutivo Rai per i Mémoires – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Ora vi svelo il mio Goldoni segreto

La storia di Carlo Goldoni, della sua vita, è la storia di un uomo. È anche indissolubilmente la storia di un uomo di teatro. Storia, dunque, pubblica. Vita, vista quasi come spettacolo, giorno per giorno e trasformata mimeticamente in spettacolo. E, nello stesso tempo, storia molto segreta, piena di ombra umana, con molti drammi veri. Questi, quasi sempre taciuti o appena sfiorati. Storia anche di sconfitte, piante nel silenzio, di vittorie che danno poca gioia, tanto effimere sono.

Perché l’uomo di teatro, Goldoni o un altro, ha la sua misteriosa misura di pudore per tutto ciò che è la “sua vita vera”. Sempre. Perché chi troppo è accecato dai fuochi della ribalta, chi troppo ha bruciato se stesso, davanti agli altri e, si può dire, vive solo per darsi agli altri nell’implacabile nudità di un palcoscenico ovunque si trovi, sempre riserba, gelosamente, il profilo nascosto di sé.

È questo il suo unico modo di difendersi, di esistere, anche fuori e quasi “dentro” il teatro che lo tiene. Così, le memorie di Carlo Goldoni – al di là del senso della misura, del gusto del sottinteso, così tipici di un suo tempo storico-letterario – lasciano volutamente un ampio margine legittimo di divagazione, di una lettura tra le righe che sappia andare al di là dei fatti e scoprire forse, proprio là nel sottofondo, nel sottaciuto, l’eterno di ogni essere umano. Nel teatro e fuori. Dunque, un discorso per immagini sulla vita di Goldoni sottintende molto più che una illustrazione formalistica o una ricostruzione di un “tempo storico” o di un ambiente. Assai più che “il teatro del 1730-1793” o “Le avventure e disavventure di un autore drammatico”, con quel tanto di patetico e coloristico che la materia richiama a sé.

Un discorso che soltanto una lettura, estremamente e coraggiosamente personale come è sempre quella di una vita altrui perduta nel tempo, soltanto un atto d’amore, arbitrario come è l’amore, può far diventare anche vita propria.

La storia di Carlo Goldoni, non più monumento di se stesso, non classico immobile ma avvocato veneziano, scrittore di teatro, avventuriero onorato e altro. Storia di un uomo che visse una riforma di teatro (una, tra tante!), che la volle e la subì, così come la storia anche la imponeva, nel mondo del teatro, tra le quinte di teatro, con la gente di teatro, con una specie di continuità di comportamenti che il tempo non ha quasi mutato. Il teatro rinasce dalle sue ceneri sempre uguale e diverso.

E ancora, allo stesso tempo, storia di un essere umano che non fu così buono, così limpido, così equilibrato, così piccolo-borghese come una falsa tradizione ottocentesca, appaiata a una nuova critica, apparentemente dissacrante e sostanzialmente invece conservatrice, vogliono ancora far credere.

Un uomo che fu “anche” questo, questo e molto altro, che fu fondamentalmente umano, direi, terribilmente umano e quindi disarmato di fronte al male, al buio, alla miseria interiore che tanto spesso, ieri e oggi, il teatro trascina con sé, come una condanna.

Un uomo che seppe vivere tutto “dentro” la realtà del suo secolo, in quella malinconica dolcezza, non priva di asprezza molto spesso irridente e improvvida di un tempo storico che stava per chiudersi per sempre. Un uomo che avvertì – forse non come coscienza – ma certo come curiosità, come poesia (anch’essa verità), come intuizione e sensibilità sociale, un nuovo secolo avventarsi contro. Il sorriso umano di Goldoni è troppo spesso un sorriso critico per ingannarci. Ma non “critico” soltanto sui “caratteri”, sui cosiddetti “vizi” degli uomini: critico proprio più addentro, sulle categorie di una società in movimento, attento al gioco delle classi, quelle che uscivano dalla storia e quelle che appena vi stavano entrando.

Carlo Goldoni fu certamente un uomo che visse in un’epoca di fine-inizio estrema, in una delle tante crisi finali dei tornanti della storia, e che a questa crisi, e perciò contraddizione, non si sottrasse mai, perché non poteva né sapeva, né voleva, sottrarvisi.

Perché, in definitiva, nessun artista, qualora lo sia veramente, può sottrarsi alla storia e nulla conta il suo grado di autocoscienza. Importa solo la sua sincerità di fronte al reale e il suo saperlo innalzare a fatto d’arte per tutti, senza inganno. Anche contro se stesso. Nulla conta, per rivelarci la sua misura di storicità, la dichiarazione di Goldoni, ad esempio: «Io d’altronde non iscrivo sermoni per insegnare, ma Commedie per onestamente divertire». Nessun vero artista «iscrive mai sermoni per insegnare». Ma, nello stesso tempo, nessun vero artista iscrive solo Commedie o altro per “onestamente” divertire. C’è – tra l’uno e l’altro – un rapporto dialettico che nessuno può spezzare, pena il silenzio.
Tutt’al più – e questo certo è importante – Goldoni, più di altri e meno di altri, cercò di difendersi – piuttosto male – da questa carica tragica che gli stava davanti, che già lo circondava e lo sopraffaceva, in un certo senso. Si difese nascondendosi in una misura di “comprensione” molto spesso più apparente che reale, di indulgenza che non era vera indulgenza, e soprattutto si lasciò incantare da un senso infantile, rimasto sempre in lui presente, della vita, del miracolo del quotidiano come “rappresentazione” mai vista. Da qui, quell’altro stupore di scoperta che tanta parte dell’opera di Goldoni porta con sé e che il tempo ha lasciato intatto.
Infine, la vita di Goldoni come tre tempi di una ideale rappresentazione di teatro. Il primo che comprende l’adolescenza, la scoperta del mondo, sensorialmente quasi, e del teatro, l’uno nell’altro. Viaggi, mutamenti, ritorni. Ritorni già senza scampo. Il secondo: lotta per un “nuovo teatro”, sfida contro gli altri e contro se stessi. Lo sfinimento. E il gioco, dall’altra parte, della vita vera, le sue tenerezze e miserie, felicità di un lampo e cocenti amarezze lunghe come anni e i debiti e le fughe impossibili.
Il terzo: l’autoesilio a Parigi. Le “scoperte” di un nuovo mondo, curiosità e delusioni. Il senso di aver dato fondo a tutto e di non aver mutato nulla. Un teatro ritrovato troppo avanti e diverso, o troppo attardato, come se lui non fosse mai esistito! È la vita che fugge, si disperde, mentre intorno un mondo intero va veramente alla deriva, tra feste, balli di corte, rappresentazioni sacre e profane, lutti, feste, opere in musica e in prosa e bancarotte.

Tre attori diversi, per ogni periodo.

Tre attori diversi. Profondamente diversi. Solo riconoscibili per alcune convenzioni, per una vaga matrice comune: colore di una pupilla, uno sguardo, un profilo, un modo comune di inclinare la testa su una spalla. Per il resto: quasi estranei. Tre tempi di una vita “vista da lontano”, vista da un altro che scrive di sé come di un altro.
Quel vecchio che si spegne in una stanza di una Parigi in rivolta, solo, nella luce di un freddo gennaio che entra dalla finestra, dove radi passeri cercano il miglio, sembra che non abbia niente in comune con quel ragazzo che fugge da Rimini, su una barca di comici, con cani, gatti, scimmie, serventi, nutrici e musica e risa, in un mattino ventoso di aprile, secoli prima. E l’autore di commedie, abbastanza celebre, nell’autunno veneziano, ai primi brividi dell’inverno, e che lotta per un teatro, immerso in un groviglio di trame di palcoscenico, di storie di vita e teatro, accanto allo scorrere apparentemente quieto di una vita “normale” – casa famiglia affetti – è ancora “un altro”.
Nell’eterno gioco delle età che più non sanno riconoscersi, nel tempo che passa, resta solo il gesto, solo il “ciò che si fa”, resta la fedeltà all’immagine profonda di sé a dare un senso e una unità morale a un sempre povero e contraddetto comportamento umano. Povero e contraddetto e meraviglioso. Proprio perché umano.

Ora vi svelo il mio Goldoni segreto da 10 anni nel cassetto, “Corriere della Sera”, 13 marzo 1982

Un’occasione mancata

I Mémoires è un lavoro fatto per la tv che non ha avuto seguito ma che è stato preparato, pensato, con amore e attenzione negli anni in cui la Mnouchkine ha fatto il suo Molière. Perché poi la televisione italiana abbia pensato – o non abbia pensato – che fosse utile fare Molière e non Goldoni è una cosa che ancora mi sfugge. La realtà è che oggi esiste un bel film sulla vita di Molière ma non esistono altro che alcune pagine ponderose sulla vita del nostro grande autore; la lettura al Teatro Studio non può che essere la lettura di qualche pagina di quel lungo trattamento (sei episodi), e potrà forse dare appena un’idea di quello che poteva essere la trasposizione televisiva e che ho pensato fosse giusto portare a conoscenza del pubblico.

Intervista di Fabio Battistini, “Hystrio”, gennaio/marzo 1989

Le sceneggiature scomparse

Nel ‘69-70 la tv mi commissionò, per quattro lire, un film su Goldoni. Avevo immaginato cinque puntate, l’ultima delle quali ambientata a Parigi, che volevo trasformare in un caravanserraglio di tutti i più grandi attori d’Europa, da Eduardo a Barrault.

Non solo il progetto morì, ma non si trovarono più le sceneggiature. Avevo preparato un trattamento di 500 pagine che avevo tradotto in cinque sceneggiature con la collaborazione di Tullio Kezich e di Ludovico Zorzi. Consegnai i materiali ad Angelo Romanò che disse: «Ah, Goldoni. Nacque in una repubblica che moriva e morì in una repubblica che nasceva». Questa storia si chiuse nel ‘74 per sempre. Io ho il trattamento. Ma le sceneggiature? In Rai le cercano da un anno. Pensare che avrebbero tutto il diritto di fare quel film senza darmi un centesimo.

[Ora] sto rifacendo il trattamento per il teatro. L’ho intitolato Le memorie del signor G.. Evito di chiamare Goldoni per nome, perché non voglio che questo spettacolo sia celebrativo. Voglio, invece, che parli di un uomo che fu un grande teatrante che tutti conoscono troppo poco, anche in Italia. Pochi sanno che Goldoni scrisse uno splendido breviario di recitazione. A un certo punto raccontava di un suo amico, l’attore Casali, che faceva il Belisario. Tutte le volte, prima di cominciare a recitare, se ne stava in un angolo della scena per “incentrarsi”. Era il 1734, molto prima di Stanislavskij, e Casali si “incentrava”. I suoi colleghi lo sfottevano, ma Goldoni lo lodava. La sua vita è un racconto grande e tragico, soprattutto per l’ingratitudine dell’Italia.

Il film cominciava in un teatro vuoto di Parigi. Si vedevano bauli, costumi abbandonati e si sentiva una voce di vecchio dire: «Tutto è finito, tutto è compiuto. Ho 84 anni, ho scritto le mie Memorie. Qualcuno dirà: chissà questo Goldoni… È a Parigi da vent’anni, chissà quanto ha guadagnato. Devo disilludervi: sono povero». Da lì nasceva una saga. Il punto in comune sono i bauli, i costumi abbandonati, un’enormità di materiali che si accumuleranno in palcoscenico e in platea, creando l’illusione di un enorme trovarobato, nel quale trovano posto anche le lacrime. Forse tutto si chiuderà con una nevicata. Non so se il 6 febbraio del 1792 a Parigi nevicasse. Ma qui la neve ci sta bene: copre tutto, annulla tutto.

Intervista di Osvaldo Guerrieri, “La Stampa”, 28 novembre 1991

Farò i Mémoires a chiusura del Bicentenario goldoniano

Il 1993 è l’anno in cui si dovrebbe celebrare, in qualche modo, e riflettere un poco su Goldoni, soprattutto in Italia. È il bicentenario della sua morte.
Per ora mi accorgo che si fa poco o nulla. Penso che si continuerà a fare poco o nulla. In Europa – soprattutto in Francia – si fa qualcosa di più. Il Piccolo Teatro - Teatro d’Europa farà invece molto. Parte della stagione 1992 e parte della stagione 1993 saranno dedicate a occuparci in modi diversi e con manifestazioni diverse di Goldoni e della sua opera.
Ecco cosa abbiamo previsto e cosa stiamo facendo in questa circostanza che per noi è un’occasione d’amore, tanto Goldoni ha contato per il nostro Teatro, per me e – penso, dai risultati ormai storici – per il pubblico.
Stiamo provando Le baruffe chiozzotte che ritornano a noi e a voi. […] Esse riprenderanno vita a Siviglia il 7 ottobre a chiusura dell’Esposizione Universale, poi passeranno a Madrid, poi a Londra, poi a Düsseldorf e a Milano, nel teatro che le ha viste nascere, il Lirico. Ben altro sarebbe stato se avessero potuto rinascere a Milano, in un Teatro diverso [riferimento alla nuova sede, in costruzione, del Piccolo Teatro, ndr]. Quello che non nascerà mai più, a disonore di una collettività cittadina che non l’ha voluto, o l’ha voluto male. […]
Infine, a chiusura del bicentenario, saranno rappresentati i Mémoires di Goldoni. Questo nuovo spettacolo, forse, più che uno spettacolo è la somma di una teatralità nata sulla vita di Goldoni ma anche sulla vita del Teatro ieri ed oggi. È la sua glorificazione, la sua rappresentazione anche metaforica. È certo il più grosso sforzo estetico, ma anche organizzativo, cioè di pratica teatrale, che il Piccolo compie e che offrirà al pubblico. È un progetto che non ci appare inferiore all’impegno del Faust, a cui ritorneremo presto, per concluderlo. 190 personaggi – almeno 80 attori, musici, tecnici, cinque episodi e un epilogo (non so ancora come ripartiti), l’emozionante, e come sempre incerta nei suoi esiti, fatica di scrivere questo testo-spettacolo che ho intrapreso in prima persona; e sono poi non solo i Mémoires di Goldoni, ma quelli di Goldoni e quelli di tutto un mondo, anche del nostro, anche del mio, che sono veri tutti, basati sui fatti e sulla realtà, ma sono sogno, divagazione, lettura tra le righe, che includono verità di scritti, meditazioni, e altro di Goldoni, di lettere… tante cose. Talvolta mi chiedo se non siano troppe. Spero di no. Anche difficoltà di mettere insieme, in questo teatro italiano che dicevo all’inizio ormai quasi inesistente, senza progetti, senza slanci, senza coraggio, tanti interpreti, tanti artefici. Legarli a un piano poetico comune, portarli avanti nelle prove, tutti insieme, poi nelle recite, assicurare loro vita e lavoro, parliamo qui anche di fatti sociali, di denaro da spendere e da ricevere per un lavoro compiuto con onestà, parliamo di tecnica: scene tante, di costumi appunto non meno di 190 o giù di lì. Insomma, parliamo di tutto un mondo d’arte e di pratica teatrale. Parliamo di una meravigliosa avventura di una carovana, di un circo altissimo, in cui tanta gente dovrà vivere accanto per mesi e mesi, parliamo di questo e altro. Ecco il profilo di questi Mémoires.

Vi reciteranno tanti e tanti attori del Piccolo, quelli di sempre (Tino Carraro, Franco Graziosi, Giulia Lazzarini, Gianfranco Mauri…) e molti che se ne sono andati e che ritorneranno (Valentina Cortese e Valentina Fortunato…), alcuni magari torneranno soltanto per essere un simbolo, qualche sera, per esserci (De Carmine…), ci saranno tutti i nostri allievi, quelli di ieri e quelli di oggi. Quaranta giovani nati dal Piccolo. E altre figure che hanno contato nella nostra storia. Vorrei che fossero quanti più possibile. Ci saranno quattro o cinque Goldoni. Carraro e io daremo il nostro volto e il nostro corpo per i due Goldoni della maturità e della vecchiaia. Ci saranno attori francesi (G. visse trent’anni in Francia) e attori di lingua tedesca, un attore americano, attori italiani ma di lingua veneta e napoletana e cantanti d’opera. Ripeto: un grande circo umano, per raccontare il teatro e la vita di un uomo che fu solo teatro.

Meglio non dire altro su qualcosa che sta nascendo. A teatro solo i fatti contano. Proveremo questo spettacolo-festa-riassunto-atto d’amore e di fiducia dal mese di marzo fino a luglio del 1992. E in questo periodo daremo vita a un continuo Laboratorio/Seminario, durante le prove dei Mémoires, sui Mémoires, su Goldoni e la sua opera. Sarà una cosa seria, non i finti seminari e laboratori di cui è piena la retorica culturale di oggi. Inviteremo per dieci giorni, due settimane, coloro che dimostreranno interesse per questo tema e che vorranno vivere questa esperienza unica da tutta l’Europa e provvederemo a integrare la presenza viva alle prove con incontri, al mattino, sul lavoro in corso, sulla problematica goldoniana, saranno chiamati a parlare e insegnare tanti specialisti e teatranti e no che hanno qualcosa da dire su Goldoni e sul teatro del suo tempo.
Stiamo dando ancora una volta vita a una esperienza totalmente nuova, a un modo nuovo di dare teatralità a chi vuole riceverla. Stiamo oltrepassando ancora una volta di più i confini dello “spettacolo per lo spettacolo”.
Del resto, è il tema dominante di questi nostri ultimi anni di lavoro.
I Mémoires saranno recitati per la prima volta nel novembre del 1993, a suggello dell’anno Goldoniano. E saranno replicati per molti mesi, quanto più è possibile, dal novembre-dicembre 1993 e nel gennaio-febbraio-marzo del 1994. Qui, al Teatro Studio.

Testo per la conferenza stampa di presentazione della stagione 1992-93 – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Venticinque giorni per riscrivere i Mémoires

Avevo appena lasciato il Piccolo Teatro e mi ero ritirato in una villa stupenda che ci meravigliava – Tullio Kezich, Ludovico Zorzi e me – tutte le volte che la vedevamo da lontano. Non era mia: era semplicemente la villa di un ricchissimo conte di Milano. Essendo spiantato, affittava a un prezzo abbastanza modesto questo meraviglioso maniero che era anche eccessivo per noi, cui sarebbero bastate tre o quattro stanze. È lì che nacquero spettacoli come il Re Lear e un certo numero di fatti teatrali, fra cui la compagnia del gruppo Teatro-Azione e, soprattutto, nacque questo progetto che era praticamente televisivo. Si voleva creare una serie televisiva, in un certo numero di puntate, che riguardava le memorie della vita di Goldoni. Noi li chiamavamo i Mémoires perché è un titolo più comodo, meglio veicolato. Un uomo di cui non mi ricordo il nome aveva individuato con estrema gioia uno slogan che noi immediatamente facemmo nostro: «Sì, bisogna fare questa vita di Goldoni, perché è la vita di un uomo che nacque in una repubblica che moriva e morì in una repubblica che nasceva». Così quando cercavamo qualcuno per avere un po’ di soldi o un aiuto per realizzare questo progetto, dicevamo: «È una storia molto bella: è la storia di un uomo che nacque in una repubblica che moriva e morì in una repubblica che nasceva».

Naturalmente non ottenemmo niente. Il film non si fece, ma noi affrontammo seriamente il progetto e ci mettemmo a scrivere. In una fase precedente la stesura delle sceneggiature, mentre stavamo ancora arrancando faticosamente per i meandri della Rai, io scrissi un primo trattamento molto breve e poi un secondo trattamento un po’ più lungo.
Tullio e io ci siamo ritrovati a lavorare insieme per vecchissima amicizia. Fu Tullio ad avere la formidabile idea di far venire con noi Ludovico Zorzi che io conoscevo dai tempi di Venezia. Tuttavia non avevamo mai lavorato insieme. Tullio era molto più legato a Zorzi di me. Zorzi arrivò e stemmo quasi una settimana a lavorare e a far finta di non lavorare, a parlare delle nostre pigrizie: «Ma a te non vengono mai dei giorni in cui non vuoi far niente? E stai lì soltanto ad aspettare che passino le ore…». Qualche volta non ci vedevamo per tutta una giornata e magari lavoravamo la sera.
Questa vita di Goldoni poneva dei grandissimi problemi. Un problema fondamentale che non abbiamo risolto né Tullio né io, anche in sede di sceneggiatura, era quello relativo alla lingua.
Il problema per noi era quello di trovare un linguaggio. Non lo trovammo. Non sapevamo come fare. In pratica, scrivemmo in italiano con un po’ di veneto. Come si poteva far parlare la gente di quel mondo e di quel tempo lì? Si fece il nome di Giovanni Comisso. Pensavamo che forse lui avrebbe potuto aiutarci a risolvere il problema linguistico. Forse avrebbe potuto aiutarci anche Zanzotto, ma preferimmo Comisso. Dovevamo trasformare questo materiale in un testo che si potesse recitare, scritto in una lingua che non desse l’impressione di essere semplice dialetto abbandonato a se stesso e privo di qualsiasi elaborazione. Comisso era un maestro eccezionale perché nessuno poteva capire il problema più di lui: tuttavia nemmeno lui sapeva risolverlo. Forse perché, in un certo senso, era un problema irrisolvibile. Comisso sembrava che fosse appena tornato da un luogo dove aveva visto Goldoni passare tranquillamente per strada in compagnia di Medebach. Comisso era venuto fuori dal quadro del tempo: era un uomo vestito come noi, con un bel profilo aristocratico, intelligente e vivo, che portava dietro di sé, dentro di sé, la storia di Venezia. Ricordo ancora oggi quando ci raccontò la storia del suo zio doge. Era un doge che aveva un servitore mezzo muto e mezzo folle che lo seguiva sempre e che ogni tanto in campagna, a una certa ora della sera, usciva fuori con un fucile e sparava in aria quattro colpi. A chi gli chiedeva il perché, rispondeva: «Perché non se po’ mai saver». Per mettere in guardia. Questo servo sparava nel vuoto a improbabili o probabili delinquenti che avrebbero dovuto assaltare la casa.
Raccontò anche la storia incredibile della berretta dell’ultimo doge. Il doge dava la sua berretta al servitore e diceva: «No gh’avemo più bisogno di questa», e finiva così la Repubblica veneta.
Tutte queste cose sembrano piccoli aneddoti ma erano vita. Le raccontò con una vivacità e un realismo che mi servirono enormemente tanto allora quanto adesso che ho riscritto i Mémoires. Li ho riscritti per disperazione, visto che nessuno ha voluto farli e che al posto dei Mémoires è stata fatta la vita di Molière. E, dopotutto, oggi, pensare che la televisione possa interessarsi di un argomento di questo genere è impossibile. Allora, in occasione del Bicentenario, scrissi questa lettura scenica, un testo “teatrabile”. Lo scrissi con una rapidità estrema, in venticinque giorni.
Naturalmente i problemi di allora permangono ancora oggi: il problema della lingua è ancora aperto. Ma la struttura di questi Mémoires è pronta; e io adesso non dovrei essere qui, oppure dovrei essere qui fra una prova e l’altra, perché dovrei stare già da un mese a provare i Mémoires, come era stato stabilito. Da adesso fino alla fine di giugno dovrei provare e, nello stesso tempo, tenere dei seminari nazionali e internazionali. Gruppi di persone, di giovani – quindici o venti per volta – dovrebbero assistere per una settimana alle prove dei Mémoires e la mattina frequentare alcune lezioni su Goldoni. Questo lavoro sarebbe dovuto andare avanti fino alla fine di giugno. Si sarebbe ricominciato ai primi di settembre e a metà novembre, penso, saremmo stati in condizione di poter andare in scena con questi Mémoires.
Si tratta di un piano enorme. Credo che si dovrebbe articolare in tre serate per poter far durare lo spettacolo due ore e mezzo per volta e non di più. La caratteristica divertente è che, essendo ogni parte conclusiva in sé, una persona, per esempio, può andare a vedere solamente la terza: vede Goldoni a Parigi e la morte di Goldoni. Poi può darsi che le venga voglia di sapere: «Ma com’è nato? Com’era quando era giovane?». Oppure uno spettatore capita a metà della vita di Goldoni – quando sta scrivendo le sedici commedie nuove o quando sta per andare a Parigi – e dice: «Ma io vorrei sapere come è andata a finire». E allora viene la sera dopo a vedere la terza parte. Ma anche se non viene, ha visto un pezzo della vita di un grande europeo che ha fatto e detto delle cose e di cui rimane il mistero di cosa ha fatto prima e di cosa ha fatto dopo. Lo spettacolo sembra lunghissimo perché è scandito in tre serate. Ma gli spettatori non sono obbligati a venire per tre volte consecutive. Possono andare anche a una sola delle tre serate.
La compagnia conterebbe centoventi attori: attori francesi, italiani – veneti e non veneti – attori tedeschi, un attore dovrebbe essere di lingua inglese, anzi dovrebbe essere un americano perché la cadenza americana è molto simile all’inglese tradizionale.
Un grande progetto che per ora è andato in frantumi ed è rimasto in sospeso: è scritto, è pronto e si può andare avanti. Vedremo quello che ci riserverà il futuro – spero prossimo – e quindi riprenderemo i nostri progetti – o non li riprenderemo – in rapporto allo svolgersi degli avvenimenti.

Intervento alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze in occasione della commemorazione di Ludovico Zorzi nel decimo anniversario della sua scomparsa, 16 marzo 1993; trascrizione pubblicata in Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Le Lettere, 2005

Dal copione teatrale: l’inizio del primo episodio

[GS] Lo spettacolo di questa sera è la storia di una vocazione. È la storia della vita di un uomo. L’avevo scritta più di vent’anni fa, per raccontarla alla gente con un mezzo “non teatrale”. Una specie di romanzo per immagini e con le parole. Soprattutto immagini.
Ma le pagine sono rimaste pagine, chiuse in un cassetto. Quella storia non sono riuscito a farla nascere con gli strumenti per i quali era nata. Così un giorno, tanto tempo dopo, mi sono chiesto perché non avrei potuto tentare di raccontarla con il Teatro. Il Teatro può tutto. E la vita del signor Goldoni Carlo che io chiamavo G. è una Vita tutta di Teatro, tutta nel Teatro, tutta per il Teatro.
Il Teatro fu la verità dell’uomo G., la sua ragione e il suo destino.
Non è una biografia. Non è un saggio critico. Non è una commedia. È tutto questo insieme. Ma sopra ogni altra cosa è un atto d’amore, di fiducia nella teatralità. È anche un gesto di gratitudine per colui che ha creato il Teatro Italiano, indicandogli la sua strada più vera. Noi teatranti italiani di oggi nasciamo tutti da lui. Ecco perché, a tratti, mi è sembrato di trovare una qualche misteriosa autobiografia in tanti momenti, in tante avventure di palcoscenico di G.
Ed è tutto vero e tutto inventato. È tutto fantastico e tutto reale allo stesso tempo. Non so. Ma sono sicuro che “quella vita” di “quella creatura” fu anche così. E il racconto non lo tradisce nel suo fondo più segreto, oltre il tempo. La storia incominciava, incomincia così: con l’immagine di un teatro vuoto. Forse l’antica Comédie-Française. A Parigi (Si fa buio, Parigi).
Un grande teatro vuoto. La sala silenziosa, semibuia, con i palchi dorati, ciechi. I velluti un poco lisi. Lunghe panche nella platea, con piccoli cartelli numerati, scritti a mano, che si susseguono ora lenti ora rapidi come in una ricerca di qualcosa che non c’è più. Un sipario rosso, meravigliosamente dipinto con i suoi cordoni dorati e la sua frangia appena strappata qua e là si leva adagio in un alto silenzio.
Dentro: un palcoscenico abbandonato.
Il fuoco ha bruciato da una parte la scena. Guizzano ancora, qua e là, improvvise fiamme che si spengono e riprendono. Nuvole solenni sospese in alto sono annerite dal fumo che si dirada lentamente. Mucchi di cenere sul palco, disfatti da un vento invisibile. Uno scenario antico: una quinta crollata mostra ancora la magnificenza di un giardino principesco. Brillano pozze d’acqua, certo gettata in fretta, per spegnere il fuoco. Disordine a terra, lungo le tavole di legno, larghe e fermate con chiodi dalla grossa testa: pagine di antichi copioni, lustrini, fibbie, cappelli con piume e senza, qualche vestigia appesa ai muri. Le porte spalancate di piccoli camerini, ai lati, con le tappezzerie a fiori e, nei camerini vuoti, ancora l’impronta di una vita fuggita in fretta. Sono rimaste, agli specchi, figurine ritagliate, manifesti, memorie, ieri come oggi, qualche busta scritta e stracciata: «All’illustre comico, Alla divina, Alla truppa del Théâtre des Italiens, Paris».
Anche qualche cesta è rimasta, piena di biancheria, e là, in fondo, un bauletto pieno di “robbe” di teatro, tutto un ciarpame antichissimo, un armamentario di ogni possibile avventura teatrale: stocchi, bicchieri di latta, bastoni, corone di re di cartone, maschere scure, ora tragiche, ora ridicole. Tutto alla rinfusa, come spazzatura di secoli.
C’è un’atmosfera di tragedia sospesa, di catastrofe improvvisa, di qualcuno che non potrà più ricominciare come prima. Gente è passata, fuggita, e ha lasciato qualche traccia della sua presenza. Ma ora si sentono solo voci di una folla lontanissima. Il lento viaggio delle immagini, ora in circoli concentrici, continua implacabile…

Giorgio Strehler, Mémoires, copione dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato in Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Le Lettere, 2005

Dal copione teatrale: i capelli bianchi di Carlo Goldoni

Di colpo la luce di una giornata d’estate, dopo il gelo dell’inverno. Sole, vento, mare, sabbia. Un poco come la mattina di Rimini. Il teatro sembra lontano. Una tela sulla sabbia sostenuta da due canne per fare ombra. Nell’ombra chiara della tenda, G. in maniche di camicia aperta, a piedi nudi, gioca con la sabbia. Nicoletta è distesa vicino a lui e guarda in alto. Solitudine assoluta, una pace quasi incredibile, poi G. si rovescia sulla schiena, chiude gli occhi e mormora).

G. Nicoletta, quasi non posso credere. Quale dolcezza, dopo aver lavorato tanto, passare anche qualche giorno solo: «Senza fare niente»!

NICOLETTA (sollevando una mano con una conchiglia e fissandola curiosa) Guarda questa! Com’è bianca!

G. Bella. La portiamo via con le altre.

NICOLETTA (mettendo la conchiglia in una reticella piena di cose della spiaggia: bastoncini secchi, una stella di mare, qualche sassolino levigato) Sei felice?

G. (adesso costruisce un piccolo castello con la sabbia) Vorrei che non finisse più.

NICOLETTA (saggia ma triste) Sai che ti aspettano (prende una lettera senza busta). Scrivono dal San Luca. Dicono…

G.  (le strappa dolcemente la lettera, la fa in quattro pezzi e la fa volare via nell’aria) Lasciali dire. (Poi senza gioia) Lo so che mi aspettano (quasi con paura). Come sarà in quel Teatro? È molto più grande del… dell’altro. E poi, tutta quella gente nuova…

NICOLETTA Ma Falchi e sua moglie sono venuti via con te. E poi, qualcuno là lo conosci…

G. Sì, sì… Gandini era con Imer, ma adesso fa il Primo Amoroso… anche Majani. Rubini con l’Anonimo, l’ho incontrato. (Le appoggia la testa in grembo ben sapendo che non si può) Restiamo sempre qui.

NICOLETTA Adesso ti gratto (gli tira, adagio, i capelli).

G. (lasciandola fare perché gli è sempre piaciuto) Hmmmmmm! Buono. Più forte. (Improvvisamente) Ho i capelli bianchi?

NICOLETTA Quasi. Non proprio.

G.  Comunque non sono come quella sera del nostro matrimonio. Quindici anni fa. Era d’estate, anche allora, e dalla finestra entrava il suono di una chitarra e un mandolino e le voci della gente (lascia fluire la memoria). Tu, eri giovane, con l’abito bianco e io stavo male. Ricordi?

NICOLETTA (un poco perduta anche lei nel ricordo) Non volevi stare a letto. Dicevi: «Non è niente, non è niente!». Invece avevi la febbre alta. Scottavi.

G. Ma dico, prendere il vaiolo proprio la prima sera di nozze! È il colmo, no? Per questo non volevo stare a letto da solo.

NICOLETTA Io non ti ho lasciato solo.

G. No. Ma stavi tutta vestita, seduta sul bordo del letto, e poi hai cominciato a grattarmi la testa, tirandomi i capelli. Come facevi a sapere che mi piaceva?

NICOLETTA (sorride senza rispondere).

G. E la musica, la febbre e… (di colpo sollevandosi e fissando al tesa di Nicoletta). Io ne ho tanti di capelli bianchi adesso. Ma tu no (le cerca tra i capelli). Quando ne troverò uno a te, te lo strapperò subito via!

(E si sente che c’è un legame segreto, profondo, fra Nicoletta e lui, nonostante… nonostante… G. l’abbraccia con tenerezza. Scende il buio nel vento. Quando la luce risale, sta venendo sera. Il luogo è lo stesso, ma con un sole pallido e le ombre sono ormai lunghe, sulla rena. Il riparo di tela e canne non c’è più. La tela è a terra, non tanto bianca. I due adesso l’arrotolano adagio, senza parlare. Lei prende una sporta di stoffa. Lui si alza e con un colpo di piedi distrugge l’ultimo castello. S’è levato di nuovo il vento ma è freddo e sommuove con un brivido la sabbia. L’estate è finita).

G. È passato tutto così in fretta! E lui, mi aspetta di nuovo (“Lui” è certo il Teatro che non lascia mai). Dobbiamo andare.

(I due, in piedi, nel crepuscolo sono una coppia d’amore. Come, quale e perché? Ma dura per tutta la vita. Questa volta il buio scende rapido, come un coltello).

Giorgio Strehler, Mémoires, copione dattiloscritto – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato in Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Le Lettere, 2005

Video

Il 23 novembre 1992, al Collegio Borromeo dell’Università di Pavia, Giorgio Strehler tiene una lettura pubblica del copione teatrale che ha tratto dall’autobiografia di Carlo Goldoni. Nel video, un momento della serata.

Documenti

Stella Casiraghi. La multiforme vita dei Mémoires

Commissionata dalla RAI, era nata da un ampio sforzo di documentazione per ricavarne un serial televisivo a puntate (in epoche diverse si parla di cinque, in altre addirittura di sette o dodici). Il manoscritto dell’originale trattamento, intitolato Memorie di Goldoni lette da Giorgio Strehler per servire alla storia della sua vita e a quella del suo teatro, sembrò irrimediabilmente perduto e, come ha ricordato più volte lo stesso autore sulla stampa e in dibattiti pubblici, il progetto non andò mai in porto.
Dopo la programmazione nel 1978 del film sulla vita di Molière diretto da Ariane Mnouchkine e cofinanziato dalla televisione italiana, il regista, per reazione, decide di riprendere e riscrivere la biografia del drammaturgo veneziano per il teatro.
Alla fine degli anni Settanta però, con Paolo Grassi alla Presidenza della RAI, nasce un’ulteriore occasione di concretizzare l’ipotesi di trasposizione televisiva, secondo quanto confermato dal regista Carlo Battistoni e dalla corrispondenza con il regista Luciano Perugia.
Gli assistenti ricordano con ironia le prove fiume a tavolino per fissare idee, definire metodi di lavorazione più simili al modello teatrale che non a quello televisivo, del tutto sconosciuto al Maestro. Si fantasticava di scritturare attori del calibro di Walter Matthau o Karl Malden, Eduardo De Filippo e Jean-Louis Barrault, di coinvolgere interpreti comici e drammatici, teatrali e cinematografici di fama internazionale.
Ma anche questa seconda tappa della storia s’arresta.
Strehler con tutta probabilità – rientrato al Piccolo dopo il suo volontario esilio – non se la sentì di fermare l’attività del teatro di via Rovello per un anno intero.
Negli anni Ottanta il regista, solo alla guida dell’Ente e stritolato da problemi di gestione, sembra aver definitivamente riposto in un cassetto il manoscritto sui Mémoires.
L’amato Goldoni continua comunque a essere oggetto costante di riflessione e ricerca personale.
[…] Solo a partire dal 1987, in lunghe interviste e appunti, Strehler torna a parlare del copione, non facendo più ormai riferimento a una versione sceneggiata quanto invece a una lettura scenica, a un romanzo teatrale ordinato per immagini, a un racconto in cui si mescolano sogno e diario personale.
Nei primi anni Novanta la questione si riapre. […]
Le carte originali fanno dedurre che la limatura del testo, gli apparati scenografici e la sequenza delle scene e dei temi fossero allo studio fin dagli inizi del ‘93, data dell’ultima decisione di rivedere definitivamente la versione teatrale.
[…] Dalle fonti epistolari risulta tuttavia che la macchina produttiva del Piccolo Teatro si fosse mossa in moto solo dall’estate del ‘97 per mettere in scena al Teatro Studio lo spettacolo alla fine della stagione successiva.
L’evento era previsto in una coproduzione dello Stabile milanese e del Teatro Biondo di Palermo nell’ambito del Progetto 2000 a cui Strehler dedicò gli ultimi anni della sua vita proponendo di «lanciare e stabilizzare» un ponte tra Nord e Sud, e proseguire su una strada di unità culturale del Paese, dandosi nuovi compiti d’arte, di formazione e di attività teatrale con un gesto di fiducia nei valori della creazione teatrale italiana ed europea, superando distanze geografiche e di culture».
Il piano di lavorazione ipotizzava la divisione dei sei episodi in una pièce lunga due o tre giornate, con cadenze di due ore e mezza per sera e ogni parte conclusa in sé, una compagnia di numerosi musici e tecnici insieme a ottanta attori di nazionalità diverse.
Negli archivi privati esiste anche un interminabile elenco di nomi di interpreti stilato dal regista che comprendeva gran parte degli allievi diplomati alla Scuola di Teatro del Piccolo mescolati a studenti di altre Accademie, oltre a Carlo Simoni per il ruolo di Goldoni adulto, Ernesto Calindri per Goldoni vecchio (che aveva sostituito nel ruolo Tino Carraro scomparso nel 1995), Valentina Cortese come Teodora Medebach, Carla Fracci e Giulia Lazzarini nelle vesti della moglie Nicoletta, Andrea Roncato scelto per la parte del padre, Narcisa Bonati per quello della madre, Ferruccio Soleri incarnazione dello storico Arlecchino Sacchi, Giancarlo Dettori per il nemico Gozzi (ma aveva parlato di lui anche per il ruolo di Casali), Andrea Jonasson per la quale era stato inventato il personaggio di un’attrice del Burgtheater, Enzo Tarascio per l’impresario Imer, Gianfranco Mauri per il conte Prada e tanti altri attori fra cui Franco Graziosi, Valentina Fortunato e Renato De Carmine.
L’allestimento era stato pensato in tre tempi di una ideale rappresentazione di teatro: il primo, scoperta del mondo e del teatro e dell’uno nell’altro; il secondo, racconto della sfida per dare un nuovo corso al teatro con inevitabili amarezze e tenerezze; e l’ultimo, affresco parigino, cronaca di un’epoca rivoluzionaria dentro la quale si svela una estrema, cocente delusione.
Strehler in definitiva non rinunciò mai a mettere in scena quel progetto che lo aveva accompagnato per un trentennio in una specie di esercitazione continua per raccontare attraverso le vicende del genio veneziano anche il suo personale itinerario di teatrante.

Stella Casiraghi, in Giorgio Strehler, Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, Firenze, Le Lettere, 2005

Tullio Kezich. Una cioccolata in giardino con Goldoni

Non posso dimenticare i giorni di Portofino nel 1970 quando ebbi l’occasione di propiziare uno straordinario incontro goldoniano, portando Ludovico [Zorzi, ndr] su per l’erta collina fin nella villa di San Sebastiano dove era locato Giorgio Strehler. Mentre Strehler e Zorzi parlavano dell’avvocato Carlo Goldoni, di Gozzi e di Medebach, avevo l’impressione che questi signori stessero fuori in giardino a sorbire la cioccolata e che sarebbe bastato un familiare richiamo per chiamarli in causa, per chieder loro un commento come se fossero a portata di voce. Ecco, io credo di aver assistito all’incontro fra i due più grandi goldoniani del momento, due grandi goldoniani che si riconobbero di primo acchito e cominciarono a parlare in termini talmente stretti e vicini da sembrare due veneziani del Settecento che conoscevano alla perfezione la propria città. È stato uno dei momenti di studio, di amicizia e di teatro più straordinari della mia vita.

Tullio Kezich, lettera a Sara Mamone e Siro Ferrone, riportata in Giorgio Strehler, Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Le Lettere, 2005

Siro Ferrone. L’identificazione tra Strehler e Goldoni

Due sono le strutture portanti che sostengono l’edificio incompiuto di queste Memorie in una continuità che, quasi ossessiva, percorre tutti gli episodi fino all’epilogo. Prima di tutto l’identificazione Goldoni-Strehler che sta al centro della drammaturgia e si riflette in una moltiplicazione e stratificazione seriale d’immagini. Poi, quale conseguenza e costante registica che materializza questa serialità, l’uso complesso e originale dei sipari multipli con cui il regista-autore descrive nel copione la scansione dello spazio scenico e, così facendo, anche la scomposizione della realtà in immagini raddoppiate e speculari.
Al centro di tutta la struttura sta dunque la dualità sintetizzata nelle sigle GS/G, quasi un unico sintagma che unifica il protagonista come Giorgio Strehler Goldoni. Nel binomio s’incarna il rapporto, continuamente capovolto, tra un padre (Goldoni vecchio) e un figlio (Giorgio Strehler), ma anche tra un figlio (il giovane veneziano non ancora diventato drammaturgo) e un padre (il regista da vecchio). A seconda delle circostanze, sfruttando il continuo ondeggiare della memoria nel tempo, l’autore-regista si situa dalla parte dell’uno o dell’altro ruolo, osservando la storia ora con la venerazione nei confronti del padre della drammaturgia italiana ora con la paterna e affettuosa simpatia per il debuttante avvocato scrittore, trattando paternamente il giovane Goldoni oppure guardando con compassione filiale il Goldoni senile. Questo fin dal Primo Episodio quando il rapporto è impersonato da un Goldoni figlio, adolescente e inquieto, e da un Goldoni padre, autorevole e bonario, di professione medico, ma affetto da vera passione teatrale.

L’ingerenza del punto di vista dell’io narrante è confermata dall’abbondanza di didascalie che contengono notazioni che non sono squisitamente teatrali (non danno indicazioni pratiche per l’azione scenica), ma piuttosto narrative. L’Arlecchino Antonio Sacchi, ad esempio, «parla in spagnolo. Non importa se è appena tornato dalla Lusitania. Per lui è lo stesso», mentre, subito dopo, l’apparizione di una «strega orribile, con cappello da strega e scopa da strega e gobba da strega» è raccontata con un’enfasi favolistica piuttosto che con attenzione alla sua funzionalità scenica. Ma anche gli accenni agli stati d’animo (le intuizioni di Goldoni sulla Rivoluzione francese, prima ancora di partire: «Non sa cosa, ma sa») oppure la sottolineatura delle profezie sociali e politiche («Le parole hanno schioccato come una frusta e qualcosa, per un attimo, è successo. Come un brivido, un presentimento. I visi sono quasi allarmati») scoprono continuamente il debordare della soggettività dell’autore nella sceneggiatura tecnica e di servizio.

Il tratto forse più caratteristico di questa sovrapposizione autobiografica è l’enfatizzazione del “male di vivere” goldoniano. La critica si è recentemente soffermata sui cosiddetti “vapori goldoniani”, quelle periodiche crisi, tipiche degli uomini e delle donne di teatro che talvolta – ma non è il caso di Goldoni – arrivano a trasformare il loro disagio nei confronti del “mestiere” pubblico in vere e proprie fughe dal palcoscenico, come fu per Eleonora Duse, verso più ritirati e solitari esili, ai limiti dell’ascesi. Neanche quelle di Strehler furono fughe verso l’ascetismo, ma certo, nelle forme più contenute di un laico contemptus mundi, anche lui sentì spesso il bisogno di esiliarsi rispetto al mondo dello spettacolo. E quando, al momento di lasciare il teatro Sant’Angelo per il San Luca, sottolinea che Goldoni «è pronto per un’altra fuga, una delle sue tante», ci pare di sentire risuonare in quella frase un’eco di valutazioni strettamente personali. Tanto più che il riferimento alla malattia nevrotica, quei citati «vapori», non solo appare fin dal Primo Episodio di questo copione quando il personaggio rievocato da Goldoni e da Strehler è ancora giovane, ma acquista un rilievo fortemente sottolineato: «Quella volta fui colpito, per la prima volta, da grave malattia. Soffrii, si può dire, sempre da allora, e fieramente, la malattia dei vapori neri; effetti ipocondriaci crudeli che mi lasciavano incapace di qualsiasi azione. Essi arrivavano all’improvviso e se ne andavano così, come erano venuti. E l’unico rimedio appariva il tempo e la dolcezza di coloro che mi stavano vicino». Ritorna quel motivo, quasi raddoppiato ed enfatizzato, grazie all’accostamento dello scrittore a un altro personaggio nevrotico, Teodora Medebac, quando, all’inizio del Terzo Episodio, i due sono rappresentati come «due malati di nervi [che] si guardano curiosamente, si studiano con un poco di amore un poco di odio», davanti a un palcoscenico sinistramente deserto, popolato solo da «un ometto con una specie di gabbanella grigia e un tricorno abbastanza malandato […]. Ogni tanto butta da un fiasco di paglia spruzzi d’acqua su mucchietti di segatura che poi sparge e raccoglie, sparge e raccoglie con la sua scopa. Immemore del mondo, l’ometto continua il suo lavoro. […] Pare quasi una marionetta senza fili». Come lui, più tardi, sempre in quel teatro vuoto, «Nel fondo, Zanetto passa con un campanello. Suona e chiama gli attori da una quinta all’altra». La scena, da deserta, si popola di nuovo, in un alternarsi di pieni e di vuoti che rispecchia felicemente la sequenza di esaltazione e depressione propria del mestiere comico. Così con un procedimento opposto – ma sempre rappresentativo della nevrosi teatrale – alla pienezza delle improvvisazioni acrobatiche fantasmagoriche dell’Arlecchino Sacchi e dei suoi bambini succede il mutismo e il nulla: «I comici sono rimasti soli. C’è una specie di rimpianto nell’aria, G. se ne accorge, perché anche lui è pensieroso, teneramente pensieroso». […]

Di queste alternanze di passione e depressione, di generosità e paranoia, è fatto il battito del cuore teatrale, dietro il quale si accampa il basso continuo dell’esistenza umana, ora tragica e ora soltanto grottesca. A questo secondo registro appartengono le scene da incubo onirico o da farsa grossolana che vedono Goldoni combattere contro i suoi nemici teatrali, il conte Carlo Gozzi e l’abate Pietro Chiari nella seconda parte del Quarto e all’inizio del Quinto Episodio; al primo registro appartengono la morte della giovane attrice Bacherini, annunciata nel bel mezzo di una messinscena tragica e in costume, cui segue una fuga goldoniana nel letto matrimoniale; il compianto funebre dedicato all’attore Angeleri, «ipocondriaco come lui» e suo «compagno di vapori»; la rappresentazione della crisi isterica di Teodora Medebac, «tramortita a terra […] distesa sulla schiena con un lamento continuo, muovendo la testa in qua e in là, ormai fuori di sé in preda a uno strazio che la scuote, la fa tremare, con i pugni chiusi che battono sul legno del palco»; a conclusione di questa crisi Strehler imbastisce un balletto rituale: «un piccolo corteo composto da un prete e quattro chierichetti, di passaggio per caso, dopo una “benedizione natalizia” da qualche chiesa vicina. L’assurdo e il tragico della scena, là, nel teatro impuro, il prete, i chierici bambini, i ceri, i turiboli con l’incenso, l’aspersorio e l’attrice in preda a una crisi nervosa»; come scrive Strehler, «tutto è tragico e ridicolo al tempo stesso».

[…] L’autore-regista assegna al sipario il compito di cadenzare l’alternanza di illusione comica e disillusione quotidiana, in altre parole di orchestrare il ritmo e il montaggio del suo copione e di organizzare l’azione scenica. Sipari distinguono infatti le diverse zone dello spazio che bisogna probabilmente immaginare collazionando il copione di Strehler con la pianta del Teatro Studio di Milano. Il pubblico si dispone sui gradoni e sui ballatoi a forma di U, la scena è dunque in platea finché non si solleva il primo sipario, il sipario della vita, il diaframma che chiudendosi esclude dal presente, ora senile e ora quotidiano, l’avventura liberissima e artificiosa del teatro, o che aprendosi ci trasporta invece in un palcoscenico dove trionfa l’immaginazione sognata-vissuta-rammemorata. Qui talvolta l’azione e la vita “ricreata” si moltiplicano per gemmazione. Sulla scena all’italiana cala, infatti, talvolta un altro sipario, questa volta però bianco e azzurro (è il velo del sogno), oltre il quale si può traguardare un’altra scena, in fondo alla quale si situa un altro sipario, ma questa volta visto da dietro, come se noi spettatori ci trovassimo nel retropalco, e quindi oltre quel sipario – quando si apre – si intuiscono le luci o le ombre di un’altra platea e di altri palchi. In questo modo lo spettatore sarebbe stato posto di fronte a una prospettiva speculare (pubblico-palcoscenico-pubblico) in fondo alla quale ci sarebbe stato lui stesso a sottolineare la struttura di una drammaturgia metateatrale, di volta in volta messa in moto o accelerata dal ritmo perpetuo di questi sipari, allo stesso tempo simbolici e funzionali, inseparabile ciascuno dagli effetti illuminotecnici come in uno dei primi montaggi a “dissolvenza incrociata” che troviamo nel Primo Episodio: «La voce si perde in sussurro di sonno vecchio. La voce si addormenta. E nel palcoscenico, come per miracolo, le spirali della macchina “per fare il mare” cominciano a girare. Prima adagio, poi sempre più velocemente, sempre più presto. E la barchetta si inclina sempre di più nel vento, e improvvisamente, dal sottopalco nasce uno spruzzo di coriandoli d’argento che si apre a ventaglio nell’aria. Di colpo si chiude lieve palpitando un sipario bianco e azzurro e il Teatro sparisce»; a questo punto la voce di Strehler narratore accompagna la dissolvenza: «Alta luce, con sole e aria. Mattina d’aprile. L’Italia nel sole e nel mare. Al centro della Platea/Vita/Teatro appare rapido l’albero scuro con una grande vela bianca di una barca immaginaria che si riempie di vento e un coro umano di donne uomini che si muovono in fretta in mezzo a bauli e ceste e tele dipinte, finti giardini e finte colonne tenute ferme da pesi di teatro e che stanno per salpare nel vento come aquiloni incredibili». Talvolta invece nella stessa platea è il tempo della vita economica e prosaica che si organizza, lì o in proscenio si muovono gli impresari aristocratici e borghesi (il conte Prada, il capocomico Imer) con cui Goldoni deve negoziare il suo lavoro, lì agisce o giace in poltrona il vecchio Goldoni tra un sonnellino e un ricordo, lì si muove anche il giovane Goldoni immerso nella vita prosaica dell’avvocato funzionario, mentre sul palcoscenico salgono – oltre il Sipario della Vita – una scena dopo l’altra, come regìe o sceneggiature suggestive, altri frammenti della vita rammemorata. In questo modo se la memoria si fa teatro è però il teatro con le sue risorse materiali e le sue tecniche illusionistiche (soprattutto l’illuminotecnica) a riorganizzare la struttura della memoria di cui i sipari sono i motori, quasi le palpebre di uno sguardo continuamente eccitato, il cui aprirsi e chiudersi fa succedere il giorno alla notte e nel quale si imprimono i sortilegi grafici e coloristici di una lanterna magica: «Il Sipario della Vita. Il primo di tutti. Neutro, quasi trasparente, di una materia delicata e mobile. Non velo. Stoffa con carta che può però palpitare un poco. Non rappresenta nulla ma può diventare un cielo anche con nuvole o una nebbia, un tramonto, una notte, un muro di interno semplice. È questione di uso e luce». Luce che è naturalmente decisiva ad aprire e chiudere ogni parentesi di sogno: «Si apre il Sipario della Vita e solo il cielo e la luna piena. Una piazza di Verona a notte. Come in un sogno»; «Appare un palcoscenico vuoto come lo sono tutti i palcoscenici vuoti del mondo, in una luce di mattina con pochi raggi di sole che penetrano da qualche finestra malchiusa. […] Poche sedie qua e là, un piccolo divano, una cassa da una parte, un pezzo di scena, appena inchiodato, e il suo misterioso disegno geometrico di legni incrociati con sapienza. Sul proscenio, un treppiede di ferro con una grossa candela accesa, manda poca luce. Polvere che brilla qua e là, nei raggi del sole».
[…] Il progetto irrealizzato di mettere in scena le replicate memorie sue e di Goldoni era, per Giorgio Strehler, prima di tutto l’estremizzazione di una poetica metateatrale, ma era anche la riaffermazione del teatro come luogo della memoria. Perché il teatro è prima di tutto la rappresentazione di una memoria che si costituisce a pegno di vita futura. Strehler si è messo nei panni di Goldoni non per ricostruire in modo filologicamente corretto la vita di Goldoni né per saggiare, sulla pelle e nella mente di un grande suo alter ego, il punto di vista dell’artista da vecchio, né per fare un consuntivo delle sue idee intorno a Goldoni. Aveva ripreso in mano questo romanzo autobiografico per scoprire – attraverso le testimonianze di un altro grande uomo di teatro – quale rivelazione e quale immaginazione creativa possano scaturire dalla memoria. Questi ricordi (suoi? di Goldoni?) sono le tracce della ricerca, per sua natura destinata a rimanere incompiuta, dei fuochi vitali che l’artista da vecchio ha tentato ancora una volta di attingere come un Prometeo nell’età senile. Per chi non vide mai i suoi spettacoli queste memorie possono servire a intravedere un riflesso della luce di quei fuochi.

Siro Ferrone, in Giorgio Strehler, Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Le Lettere, 2005

Rassegna stampa

Tre sipari per infiniti scenari

Giorgio Strehler chiude l’anno di celebrazioni per il Bicentenario goldoniano rinnovando una promessa: portare in scena i Mémoires, l’autobiografia di Goldoni. […]
Strehler ha raccontato il viaggio nella vita e nel teatro di un adolescente ribelle, poi di un giovane avvocato insoddisfatto, di un autore di successo, di un uomo deluso. Un viaggio cui il regista ha dato colori e stupori come quelli delle pagine di Conrad nelle avventure sul mare, ne ha ricavato bozzetti da Commedia dell’Arte, in un carosello di dialetti: dal chiozzotto del padre burbero e segretamente patito di teatro, al napoletano Florindo de’ Maccheroni, il primo capocomico con cui Goldoni fugge ragazzino, alle cantilene delle servette che gli ispirarono capolavori.
In alcuni momenti – la chioma candida e un po’ lunga sul collo – il regista sembra un gentiluomo del Settecento, come quando imita il gesto riverente ma non servile del giovane Goldoni che ringrazia un conte intervenuto ai funerali del padre. Si abbandona poi alla fantasia e vede bauli «pieni di robba» per i costumi, immagina tre sipari di colori diversi che si aprono sugli episodi biografici, su stralci di commedie, su infiniti scenari.

Recensione di Claudia Provvedini della lettura al Teatro Studio di Milano, “Corriere della Sera”, 7 febbraio 1994

Un sogno lungamente inseguito e mai realizzato

Con alle spalle un enorme ritratto di Goldoni, proprio in quel Teatro Studio dove i Mémoires avrebbero dovuto andare in scena quest’anno (ma la produzione è stata rinviata per difficoltà economiche), per due ore e mezza Strehler ha letto e raccontato: «Avevo pensato a tanti sipari di diverse fogge e colori che avrebbero dovuto aprirsi, di volta in volta, rivelando fatti della vita di Goldoni e dalla botola centrale del teatro avrebbe dovuto apparire e sparire il grande letto matrimoniale dove lui viveva le sue parentesi serene con quella santa donna di sua moglie Nicoletta o dove si rifugiava quando lo prendeva la depressione, quei “vapori neri” di cui parla frequentemente e che hanno segnato profondamente il suo carattere».
Nella storia teatrale di Giorgio Strehler i Mémoires di Goldoni sono stati un sogno lungamente inseguito e mai realizzato. Nati all’inizio come un vero e proprio serial televisivo, diventanti in seguito, dopo un infinito tira e molla con la Rai, un testo teatrale, avrebbero dovuto articolarsi in tre serate «il Goldoni ragazzo, quello della maturità e quello della vecchiaia», spiega il regista. A fare da collante fra questi tre momenti, il suo totalizzante amore per il teatro, vera passione della sua vita.

Così, pagina dopo pagina, guidati da Strehler, che dà le voci ai diversi personaggi, ai diversi dialetti, senza fare distinzione fra uomo e donna, noi ripercorriamo le tappe della vita di Goldoni. Ecco il ragazzino che scappa da Rimini sulla barca del capocomico Florindo de’ Maccheroni, stufo della disciplina del collegio dove studia filosofia, ma già attratto dal fascino delle attrici e soprattutto della vita randagia dei comici di cui racconta aneddoti come quello, bellissimo, della morte del gattino della primadonna. Eccolo accompagnare il padre medico, grosso e indulgente, nelle sue visite e infilarsi nei letti delle ragazze con la scusa di curarle. E ancora, il drammaturgo delle sedici commedie nuove scritte in un anno di terribile fatica per riportare il pubblico a teatro; il tenerissimo incontro con la famiglia di Carlo Sacchi, il famosissimo Arlecchino; la morte del padre; l’incontro con la madre di Casanova; l’amore per la Medebach e per la Marliani; la riforma teatrale che lo porta a costruire i personaggi in carne e ossa; l’addio a Venezia che sembra non capirlo più con gli spettatori del San Luca che gli gridano di restare e lui che risponde «troppo tardi». E musiche e parole e addii e abbracci con Tino Carraro, che avrebbe dovuto essere il drammaturgo da vecchio.

Recensione di Maria Grazia Gregori della lettura al Teatro Studio di Milano, “l’Unità”, 8 febbraio 1994

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