Die Trilogie der Sommerfrische
(La trilogia della villeggiatura)

1974

A vent’anni dalla prima edizione, Strehler torna a confrontarsi con il trittico goldoniano. Il palcoscenico, ora, è quello del Burgtheater di Vienna, il più importante teatro di prosa austriaco. Se l’impostazione critica rimane quella del 1954, il nuovo spettacolo accresce invece il tono malinconico, quella sua poetica metafora di un mondo che inesorabilmente si avvia verso la propria fine. Le scene e i costumi portano, questa volta, la firma di Ezio Frigerio; tra gli attori, che recitano in lingua tedesca, Michael Heltau nel ruolo di Ferdinando e Andrea Jonasson in quello di Giacinta.

Personaggi e interpreti

Leonardo Frank Hoffman
Paolo Otto Tausig
Cecco Heinz Zuber
Vittoria Gertraud Jesserer
Ferdinando Michael Heltau
Filippo Manfred Inger
Guglielmo Rudolf Melichar
Giacinta Andrea Jonasson
Brigida Helma Gautier
Fulgenzio Johannes Schauer
Un servitore in casa di Filippo Heinz Raetz
Sabina Susi Nicoletti
Costanza Eva Zilcher
Rosina Christine Zimmermann
Bernardino Karl Paryla
Pasquale Philipp Zeska
Un servitore in casa di Costanza Walter Raha

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Ezio Frigerio
Assistente ai costumi Franca Squarciapino
Musiche di Fiorenzo Carpi
Direzione musicale Kurt Werner
Regista assistente Harald Reich-Ebner

Testo di Carlo Goldoni
Traduzione di Piero Rismondo

Regia di Giorgio Strehler

Vienna, Burgtheater, 9 novembre 1974

Strehler ne parla

Il mio vero rammarico

Ti ho già parlato di qualche mio rammarico: non avere intrapreso la carriera di direttore d’orchestra, non avere rappresentato abbastanza Molière, Marivaux. Ma il mio vero rammarico è di non avere lavorato abbastanza all’estero. […]
Nel ‘74, […] a Vienna, avevo fatto una edizione in tedesco della Trilogia della villeggiatura del Goldoni, con Andrea Jonasson nella parte di Giacinta: e mi fece molto piacere leggere, sotto la penna di critici autorevoli, che ero riuscito a “iniziare” gli attori del Burgtheater al temperamento italiano e alla levità delle interpretazioni goldoniane.

Io, Strehler. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986

Documenti

Andrea Jonasson. Le tre voci per Giacinta

Ciò che ho bene in mente dell’inizio è che era meraviglioso lavorare così e anche imbarazzante, perché era il ‘74-75 quando abbiamo fatto la Trilogia e il ‘73 quando abbiamo fatto Il gioco dei potenti a Salisburgo. Allora Giorgio e io eravamo innamoratissimi. Così ricordo questo lavoro fatto sempre sotto l’influenza di questo grande amore nostro.
Io però iniziavo le prove del primo atto, che deve essere abbastanza su […], con voce troppo fonda, troppo bassa, perché, quando interpretavo la Regina Margherita, Giorgio mi diceva sempre: «Tira fuori la tua voce bassa. Ricordati che devi essere una tigre». Credevo quindi di farlo contento, adesso, facendo Giacinta con una voce da grande tragedia. E invece si arrabbiava, mi urlava: «Ma cosa fai con questa vociaccia bassa! Tu sei una ragazza giovanissima, anzi cambia addirittura voce». […] La voce nelle Smanie per la villeggiatura è molto alta. Mi ha pregato poi di trovare un altro timbro nelle Avventure, una specie di media, e poi ancora un’altra voce per il finale.
Parlavamo spesso di Čechov […]. Mi disse: «Vedi, Il ritorno dalla villeggiatura sembra già le Tre sorelle di Čechov. Giacinta può essere benissimo Maša. E qui cerca di trovare una voce più calda, più profonda».
Per me queste prove, questo lavoro, rimangono momenti indimenticabili. Resta, però, che è molto difficile raccontare il teatro, perché il teatro bisogna vederlo, bisogna farlo. Anche Giorgio spesso diceva: «Non si può spiegare. Io stesso non posso raccontare il teatro, io lo faccio. Domanda a un poeta cos’è la poesia, cosa vuol dire con questa poesia. La poesia è qui, leggila, la capirai tu. Guarda lo spettacolo e lo capirai». Mi diceva anche: «Lo spettacolo lo facciamo insieme, nasce insieme».
Per esempio, questa invenzione dello scialle. Per scherzo, durante la prova – perché spesso mi vergognavo – mi diceva: «Lascia giocare la tua fantasia»… io avevo dunque uno scialle enorme, personale, portato da Vienna. Poiché soffrivo un po’ di cervicale, sopra quei busti, su quei nudi mi sono messa lo scialle. Poi, a un certo momento, non sapevo cosa fare con Leonardo e allora, per scherzo, l’ho preso con lo scialle. Egli mi gridò: «Bellissimo questo, fallo!». Chiamò la sarta e disse: «Portatemi uno scialle di tre metri, fatelo sparire in quinta e poi tu tira». Tira, tira e l’uomo non arriva mai, solo uno scialle […].

Era bellissimo il lavoro con Giorgio, perché da una cosa ne nasceva un’altra. Spesso, a casa, mi diceva: «Non ho idea». «No, tu hai un’idea ben chiara di cosa faremo oggi. Hai qualcosa in mente.» Naturalmente sapeva tutto, però mi diceva sempre: «Non so cosa fare, vediamo cosa succede in palcoscenico». Spesso iniziava le prove, e questo era bellissimo… Io andavo sempre in teatro con una grande paura, perché pensavo: «Adesso bisogna che tu gli faccia vedere cosa sai fare». […]
I tedeschi erano tutti, donne e uomini, innamorati di Giorgio; il pubblico viennese era ai suoi piedi, perché non aveva mai visto un teatro come il suo. La Trilogia era molto lunga, ma noi l’abbiamo divisa in due serate perché i viennesi non stanno fino a mezzanotte in teatro, perché devono prendere l’ultima metropolitana.

Andrea Jonasson, in Strehler in Europa: la Trilogia, a cura di Laura Ajmar, Milano, Archinto, 2001

Rassegna stampa

Le vite mancate della Trilogia

La trilogia della villeggiatura, lo ricorderanno gli spettatori non più ragazzini, fu un enorme successo del Piccolo Teatro, a Milano e a Roma negli anni ‘54-56. Strehler aveva inventato per quel suo Goldoni una soave malinconia di fondo che qualcuno imparentò a Čechov, una rilevanza di caratteri e di psicologie mai, dapprima, così acutamente scandagliati, un’intima drammaticità fatta di vibrate, modernissime inquietudini, che fecero epoca. A vent’anni da allora, e con attori non italiani, non è che l’impianto della Trilogia sia cambiato, né nei pochi tagli del copione (manca unicamente una partita a carte al second’atto), né nell’impostazione critica; semmai sono ancora aumentati i toni sommessi e smorzati, ancora più risentita è la satira alle debolezze e ai vizi dei protagonisti, ancor più pigiato è il pedale malanconico che in due finali d’atto (il secondo e il terzo) stempera il vago sentore di intime tristezze addirittura in un senso straziante di vuoto, di intense frustrazioni, di vite mancate.
È questa, in fondo, la chiave autentica per capire non già la cifra stilistica dello spettacolo, bensì il suo animo riposto, il suo fuoco segreto. […]
Dall’Italia venivano, per dar man forte a Strehler, lo scenografo Ezio Frigerio con la costumista Franca Squarciapino, e il musicista Fiorenzo Carpi. I primi due hanno raggiunto suggestivi effetti specialmente al secondo tempo, con quell’accenno toscaneggiante che ben giocava di contrasto, nella sua luminosa chiarezza, agli “interni” degli altri due atti così cupi, talvolta lividi. Carpi, poi, nei parecchi interventi musicali, ha inventato una barcarola che sapeva un po’ di Brianza, di brume, di nebbie. Superfluo dire della recitazione complessiva e dei risultati che Strehler ha saputo ricavare da questo concerto di voci in lingua tedesca. Senza far torto a nessuno degli altri interpreti, che d’altronde il lettore italiano non conosce, e che sono tutti eccellenti, ricorderò almeno il formidabile Michael Heltau, un Ferdinando di pungente stile, il travolgente Karl Paryla che è il crudele zio Pasquale, e soprattutto Andrea Jonasson, che nella vita è la compagna del regista italiano, e sulla scena ha dato alle contraddizioni della sua Giacinta una spinosa e irrequieta e tenerissima malinconia.

Giorgio Polacco, “Momento-sera”, 11-12 novembre 1974

Un’intera esistenza racchiusa in cinque ore di spettacolo

La trilogia della villeggiatura fu uno degli spettacoli cruciali di Giorgio Strehler al Piccolo. Nacque nella stagione ‘54/55 e fu seguito subito – accostamento significativo – dalla prima edizione del Giardino dei ciliegi di Čechov. Nessuno di noi avrebbe sospettato allora un Goldoni così. Sì, qualche intuizione la lettura di queste tre commedie (d’altronde poco note e scarsamente rappresentate, salvo la prima) poteva suggerirla. Ma Strehler ne fece una trasposizione così radicale, in un clima di decadenza europea che davvero sembrò impossibile, sulle prime, che si fosse servito solo dei testi di Goldoni, appena ritoccandone qua e là qualche frase arcaica e tagliando, ricucendo, in modo da trasformare le tre commedie in un unico e lunghissimo dramma in tre atti. In realtà nella trilogia (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), raccontando la storia di una estate di vacanza, Goldoni fa il ritratto, solo apparentemente bonario, di una società. E tra infatuazioni, tic, vanità, partite a carte, passeggiate, pettegolezzi di servi, dissesti finanziari, matrimoni di convenienza e impossibili amori, egli ci descrive, con una gaiezza distaccata, ma di fondo malinconico, non soltanto una società ma un tempo. Strehler mise in questo tempo una sorta di rintocco premonitore, qualcosa che assomigliava al suono misterioso – corda metallica spezzata, grido di gru – che echeggia a un certo punto, durante il secondo atto del Giardino dei ciliegi: un segnale che prefigura una fine, che annuncia la conclusione di un ciclo. Così La trilogia della villeggiatura diventava, oltre che la parabola d’una società e d’un costume destinati a sparire, un paradigma della vita umana, il dolce flusso di immagini d’una stagione felice, tenera e breve, sotto il sole di un’estate remota, all’ombra delicata di ombrelli bianchi, nel bagliore di madreperla delle lacrime femminili. Ricordo quella scena di Mario Chiari, quegli alberi frastagliati, i costumi leggeri e frondosi delle donne: e Valentina Fortunato che era Giacinta, la ragazza che rinuncia all’amore autentico perché chiusa negli schemi della sua convenzione: aveva un volto e trasalimenti da giovane signora ottocentesca, prigioniera d’un rigido matrimonio borghese.

A Vienna Strehler ha fatto un’operazione ancora più radicale. Forse, chi sa, per l’atmosfera mitteleuropea, per quel senso di grande stagione finita che circola intorno ai monumenti (fra cui il Burgtheater) dell’ex-capitale asburgica; e per la determinazione, in qualche modo romantica, degli attori, che non hanno complessi, come i nostri, nei confronti di Goldoni (in tedesco il testo è stato tradotto da Piero Rismondo, attento a rendere, più che la lettera, i ritmi, l’andatura della battuta). Fatto sta che questa Die Trilogie der Sommerfrische diventa ancor di più la prefigurazione di un dramma cechoviano. Nella prima parte della Trilogia (Le smanie), sullo sfondo della scena di Ezio Frigerio, realistica, ma che rievoca un Settecento lineare, prosciugato dalla memoria, anche questi interpreti si scatenano nel movimento veloce, cadenzato, con un metronomo invisibile appostato alla cerniera fra le battute, del concertato dialogico goldoniano. Entrate, uscite, gag, botta e risposta. E qui il momento culminante è lo scontro fra Giacinta e Vittoria, le due ragazze non propriamente rivali, ma gelose una dell’altra – magari soltanto per una questione di vestiti – e che sono destinate a diventare cognate.

Allora Andrea Jonasson e Gertraud Jesserer, ambedue esordienti al Burgtheater, sfoderano una grinta e un senso del tempo notevolissimi. Ma poi, nella seconda parte (Le avventure), quando la scena diventa, sullo sfondo, quell’ondulata campagna che richiama vagamente la Toscana, coi suoi cipressi; oppure quel paese di case colorate, di muri scrostati, fanciullescamente malinconici, e le luci si fanno tenere e crudeli (la scenografia è un elemento davvero strutturale in questo spettacolo) il gioco degli attori si fa più calmo, straziato, allusivo. Solo i servi e lo straordinario Ferdinando (lo scroccone, il parassita) di Michael Heltau mantengono il timbro di una caratterizzazione classica. Gli altri vagano nei toni dissipati e opachi, tristi e friabili come foglie morte, di un’inconscia incapacità a vivere, fra ridicola e gretta. E i personaggi animati dalle passioni, Frank Hoffman e Rudolf Melichar, rispettivamente come Leonardo e Guglielmo, i due rivali in amore, e l’intensa Andrea Jonasson come Giacinta, la donna contesa che ha già fatto dolorosamente la sua scelta (ma di rinuncia), continuano a divincolarsi inutilmente.
Ma poi arriva l’autunno (Il ritorno) e, dopo l’inconsistente avventura estiva, la vita si incarica delle sistemazioni, delle partenze. Quegli ombrelli luccicanti, quegli impermeabili lunghi e funebri, deliziosamente anacronistici e così necessari. Sono passate cinque ore di spettacolo ma anche un’intera esistenza. La grande nevrosi di fine secolo rimbalza all’indietro, tramite Strehler, da Čechov a Goldoni. Rimane solo un vecchio, alla ribalta, a spegnere le candele, come il decrepito Firs alla fine del Giardino dei ciliegi. Il pubblico impettito del Burg resiste impavido fino all’ultima battuta. Poi quando appare il regista alla ribalta gli grida bravo.

Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 12 novembre 1974

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