La trilogia della villeggiatura fu uno degli spettacoli cruciali di Giorgio Strehler al Piccolo. Nacque nella stagione ‘54/55 e fu seguito subito – accostamento significativo – dalla prima edizione del Giardino dei ciliegi di Čechov. Nessuno di noi avrebbe sospettato allora un Goldoni così. Sì, qualche intuizione la lettura di queste tre commedie (d’altronde poco note e scarsamente rappresentate, salvo la prima) poteva suggerirla. Ma Strehler ne fece una trasposizione così radicale, in un clima di decadenza europea che davvero sembrò impossibile, sulle prime, che si fosse servito solo dei testi di Goldoni, appena ritoccandone qua e là qualche frase arcaica e tagliando, ricucendo, in modo da trasformare le tre commedie in un unico e lunghissimo dramma in tre atti. In realtà nella trilogia (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), raccontando la storia di una estate di vacanza, Goldoni fa il ritratto, solo apparentemente bonario, di una società. E tra infatuazioni, tic, vanità, partite a carte, passeggiate, pettegolezzi di servi, dissesti finanziari, matrimoni di convenienza e impossibili amori, egli ci descrive, con una gaiezza distaccata, ma di fondo malinconico, non soltanto una società ma un tempo. Strehler mise in questo tempo una sorta di rintocco premonitore, qualcosa che assomigliava al suono misterioso – corda metallica spezzata, grido di gru – che echeggia a un certo punto, durante il secondo atto del Giardino dei ciliegi: un segnale che prefigura una fine, che annuncia la conclusione di un ciclo. Così La trilogia della villeggiatura diventava, oltre che la parabola d’una società e d’un costume destinati a sparire, un paradigma della vita umana, il dolce flusso di immagini d’una stagione felice, tenera e breve, sotto il sole di un’estate remota, all’ombra delicata di ombrelli bianchi, nel bagliore di madreperla delle lacrime femminili. Ricordo quella scena di Mario Chiari, quegli alberi frastagliati, i costumi leggeri e frondosi delle donne: e Valentina Fortunato che era Giacinta, la ragazza che rinuncia all’amore autentico perché chiusa negli schemi della sua convenzione: aveva un volto e trasalimenti da giovane signora ottocentesca, prigioniera d’un rigido matrimonio borghese.
A Vienna Strehler ha fatto un’operazione ancora più radicale. Forse, chi sa, per l’atmosfera mitteleuropea, per quel senso di grande stagione finita che circola intorno ai monumenti (fra cui il Burgtheater) dell’ex-capitale asburgica; e per la determinazione, in qualche modo romantica, degli attori, che non hanno complessi, come i nostri, nei confronti di Goldoni (in tedesco il testo è stato tradotto da Piero Rismondo, attento a rendere, più che la lettera, i ritmi, l’andatura della battuta). Fatto sta che questa Die Trilogie der Sommerfrische diventa ancor di più la prefigurazione di un dramma cechoviano. Nella prima parte della Trilogia (Le smanie), sullo sfondo della scena di Ezio Frigerio, realistica, ma che rievoca un Settecento lineare, prosciugato dalla memoria, anche questi interpreti si scatenano nel movimento veloce, cadenzato, con un metronomo invisibile appostato alla cerniera fra le battute, del concertato dialogico goldoniano. Entrate, uscite, gag, botta e risposta. E qui il momento culminante è lo scontro fra Giacinta e Vittoria, le due ragazze non propriamente rivali, ma gelose una dell’altra – magari soltanto per una questione di vestiti – e che sono destinate a diventare cognate.
Allora Andrea Jonasson e Gertraud Jesserer, ambedue esordienti al Burgtheater, sfoderano una grinta e un senso del tempo notevolissimi. Ma poi, nella seconda parte (Le avventure), quando la scena diventa, sullo sfondo, quell’ondulata campagna che richiama vagamente la Toscana, coi suoi cipressi; oppure quel paese di case colorate, di muri scrostati, fanciullescamente malinconici, e le luci si fanno tenere e crudeli (la scenografia è un elemento davvero strutturale in questo spettacolo) il gioco degli attori si fa più calmo, straziato, allusivo. Solo i servi e lo straordinario Ferdinando (lo scroccone, il parassita) di Michael Heltau mantengono il timbro di una caratterizzazione classica. Gli altri vagano nei toni dissipati e opachi, tristi e friabili come foglie morte, di un’inconscia incapacità a vivere, fra ridicola e gretta. E i personaggi animati dalle passioni, Frank Hoffman e Rudolf Melichar, rispettivamente come Leonardo e Guglielmo, i due rivali in amore, e l’intensa Andrea Jonasson come Giacinta, la donna contesa che ha già fatto dolorosamente la sua scelta (ma di rinuncia), continuano a divincolarsi inutilmente.
Ma poi arriva l’autunno (Il ritorno) e, dopo l’inconsistente avventura estiva, la vita si incarica delle sistemazioni, delle partenze. Quegli ombrelli luccicanti, quegli impermeabili lunghi e funebri, deliziosamente anacronistici e così necessari. Sono passate cinque ore di spettacolo ma anche un’intera esistenza. La grande nevrosi di fine secolo rimbalza all’indietro, tramite Strehler, da Čechov a Goldoni. Rimane solo un vecchio, alla ribalta, a spegnere le candele, come il decrepito Firs alla fine del Giardino dei ciliegi. Il pubblico impettito del Burg resiste impavido fino all’ultima battuta. Poi quando appare il regista alla ribalta gli grida bravo.
Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 12 novembre 1974