In quell’anno [1950, ndr], d’estate a Venezia allestimmo La putta onorata. Protagonista, oltre alla Brignone e Santuccio, magnifica coppia “criminale” di nobili infami, fu Marina Dolfin, la giovanissima figlia di Toti Dal Monte, la grande cantante che Simoni aveva voluto, un tempo, nelle sue Baruffe chiozzotte. Si consolidava, nella nostra famiglia, il ceppo veneto, rappresentato fino ad allora solo da Moretti e Battistella.
Strani e misteriosi gli incontri e i cammini nel mondo del teatro. Come nella vita.
Lo spettacolo fu recitato in Campo San Trovaso, là dove Max Reinhardt diresse [nel 1934, ndr] il suo Mercante di Venezia con uno strepitoso Benassi. […]
La putta onorata fu coronata, come si dice, da un ottimo successo di pubblico. Ma le enormi difficoltà delle prove all’aperto, di notte, con le case abitate intorno, le vendette delle radio accese a pieno volume “contro” gli invasori, cioè noi, nella calma di un campiello veneziano! Io, mi ricordo, domandavo: «Ma come ha fatto Reinhardt a provare qui Il mercante di Venezia?». E Salvini mi rispondeva, con accento toscano: «Evvia, allora li si cacciavan via!». «Come li si cacciava via?» facevo io. «No – diceva Salvini – non è che proprio li si cacciava via. Il Comune allora (era il fascismo) mandava tutte le famiglie delle case intorno in villeggiatura, a spese del Governo. Stavano via un mese. Tornavano, si vedevano gratis lo spettacolo, e si erano divertiti chissà dove».
I vantaggi teatrali della dittatura!
E l’acqua e le gondole. Cesco Baseggio, meraviglioso Pantalone, era il re di Venezia. Era Venezia in teatro. I gondolieri litigavano e cantavano l’Orlando furioso e l’Aminta. Passavano migliaia di gatti di tutti i colori nella notte. A me parve, il nostro, uno spettacolo di passaggio, di scoperta, in cui però i due mondi, patrizio e plebeo, avevano una nettezza di contorni non consueta. Tutti gli attori recitavano bene in dialetto e in lingua. E io, con la mia smania per lingua e dialetto, provavo gioia a quell’incontro di parlate italiche. Io, veneto d’altro lido, triestino (quindi bastardo per i veneti veri di Venezia), ho sempre pensato a questo cammino goldoniano che stavamo facendo anche come a una grande impresa linguistica.
Di tutto ricordo ancora un’alba aspettando il giornale. Eravamo ancora una generazione di teatranti che aspettavano il giornale con la critica, nelle stazioni ferroviarie o nei caffè vicino alle stamperie! In questo, i giovani d’oggi hanno capito molto prima. Ma noi ancora adesso proviamo un brivido per la carta stampata di un giornale che dice qualcosa che noi abbiamo fatto o bene o male, e se hanno detto che abbiamo fatto male, ci soffriamo. Siamo degli inguaribili ingenui e romantici. Dunque aspettiamo il giornale, e il primo che arriva è quello con una critica di Eugenio Ferdinando Palmieri, un uomo che stimavo, un critico acutissimo a cui tenevo molto. Si tratta di una stroncatura senza pietà. Avevo sbagliato quasi tutto e, cosa che mi fece più male, avevo tentato di copiare Giannini, un regista allora tra i più importanti che la scena italiana ha avuto e che è stato letteralmente ucciso, più tardi dalla stampa, in un momento per lui difficile. […]
La critica di Palmieri mi bruciò a lungo, ma non c’era né tempo né luogo per leccarsi le ferite. La stagione 50/51 doveva aver luogo e subito.
Il lavoro teatrale. 40 anni di Piccolo Teatro 1947-1955, Milano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Vallardi e Associati Editori, 1987