Arlecchino servitore di due padroni

1997. Decima edizione

1997. Decima edizione, detta “del Cinquantesimo”

Una nuova edizione di Arlecchino, per festeggiare il primo mezzo secolo di vita e avventure del Piccolo Teatro di Milano. In scena una compagnia di giovani – ex allievi della Scuola del Piccolo – che, rispetto all’edizione “del Buongiorno”, hanno trovato, spettacolo dopo spettacolo, al Piccolo e su altri palcoscenici italiani, la “maturità della scena”. A reggere le fila di questa nuova famiglia, due grandi attori e due amici, Ferruccio Soleri e Gianfranco Mauri, segno vivente di un testimone passato, di una storia che non finirà mai.

Personaggi e interpreti

Pantalone Giorgio Bongiovanni
Clarice Laura Pasetti
Il Dottor Lombardi Paolo Calabresi
Silvio Stefano Quatrosi
Beatrice Giorgia Senesi
Florindo Aretusi Sergio Leone
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Nicoletta Maragno
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Maxmilian Mazzotta
Camerieri Francesco Cordella, Maria Grazia Solano
Il suggeritore Alighiero Scala
Un facchino Luca Criscuoli
Suonatori Alberto Bertolotti, Gianni Bobbio, Alessandro Castelli, Ivo Meletti, Celio Regoli

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Franca Squarciapino
Musiche di Fiorenzo Carpi
Movimenti mimici di Marise Flach
Maschere di Amleto Sartori
Regista assistente Gianfranco Mauri
Assistente alla regia Stefano de Luca

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Piccolo Teatro, 14 maggio 1997

Riprese

1998

Pantalone Giorgio Bongiovanni
Clarice Laura Pasetti
Il Dottor Lombardi Paolo Calabresi
Silvio Stefano Quatrosi
Beatrice Giorgia Senesi
Florindo Aretusi Sergio Leone
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Nicoletta Maragno
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Luca Criscuoli
Camerieri Michele Bottini, Maria Grazia Solano
Il suggeritore Alighiero Scala
Un facchino Luca Criscuoli

Parigi, Théâtre de l’Odéon, 5 marzo 1998

Dopo una prima parte di tournée, che tocca, tra le altre città, Bogotà, Pavia, Milano e Mannheim, in autunno il lungo viaggio di Arlecchino ricomincia dalla Grecia, per attraversare Francia, Svezia, Italia, Spagna, Belgio, Germania e Portogallo. Tra le prime tappe, Atene, Salonicco, Rennes, Stoccolma, Ferrara, Trento, Perugia, Ascoli Piceno, Madrid, Napoli e Liegi.

In alcune recite, il ruolo di Clarice è interpretato da Nicoletta Maragno; quello di Smeraldina da Margherita Di Rauso; quello del Cameriere da Moreno Bernardi.

1999-2000

Prosegue la tournée iniziata nell’autunno 1998. Tra le tappe: Macerata, Milano, Digione, Genova, Potsdam, Lisbona, Barcellona, Reggio Calabria e Segesta.

Nell’ottobre 1999, Arlecchino riprende il suo viaggio, partendo dalla Corea, con la seguente distribuzione:

Pantalone Giorgio Bongiovanni
Clarice Pia Lanciotti
Il Dottor Lombardi Tommaso Minniti
Silvio Stefano Guizzi
Beatrice Giorgia Senesi
Florindo Aretusi Sergio Leone
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Margherita Di Rauso
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Luca Criscuoli
Camerieri Michele Bottini, Francesco Guidi, Nicole Vignola
Il suggeritore Alighiero Scala

Seoul, Munye Theater, 8 ottobre 1999

Lo spettacolo è ripreso a Kyoto, Tokyo, Udine, Prato, Tolosa, Chambéry, Dieppe, Le Havre, Pistoia, Milano e, nel giugno 2000, a Ravenna.

2001-02

Pantalone Giorgio Bongiovanni
Clarice Nicole Vignola
Il Dottor Lombardi Tommaso Minniti
Silvio Stefano Guizzi
Beatrice Marisa della Pasqua
Florindo Aretusi Stefano Onofri
Brighella Riccardo Magherini
Smeraldina Alessandra Gigli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Luca Criscuoli
Camerieri Michele Bottini, Mercedes Martini, Michele Radice
Il suggeritore Alighiero Scala

Bolzano, Teatro Comunale, 14 febbraio 2001

Ancora una volta Arlecchino si muove tra più continenti e diverse città. Se nel 2011 le tappe principali del suo viaggio sono Arezzo, Reims, Amiens, Narbonne, Marsiglia, Mosca, Varsavia, Wiesbaden, Gerusalemme, Palermo, Brescia e Milano, nel 2002 lo spettacolo va in scena a Cosenza, Bari, Foggia, Potenza, Rio de Janeiro, San Paolo, Gorizia, Belluno, Milano, Pechino, Varese e Cuneo.

In alcune recite, il ruolo di Clarice è interpretato da Sara Zoia, in alternanza con Laura Pasetti; quello di Silvio da Stefano Onofri; quello di Florindo Aretusi da Leonardo De Colle; quello di Brighella da Enrico Bonavera; quello di Arlecchino da Enrico Bonavera; i ruoli dei Camerieri da Maria Grazia Solano, Sara Zoia e Danilo Rovano.

Strehler ne parla

Perché Arlecchino, ancora e sempre

Perché Arlecchino? Ancora? Ma sì: ancora e sempre, come sempre è stato. Ma un altro Arlecchino, rinato dalle ceneri dell’ultimo, anche questo come sempre. È giusto ricreare un “altro”, nuovo Arlecchino di Goldoni, quando ce ne sono stati già almeno dieci, tutti identici e tutti profondamente diversi? Dal 1947, era il 24 luglio, la fine della nostra prima stagione. Fino ad oggi, il 14 maggio dei nostri cinquant’anni.

L’Arlecchino è un fatto straordinario nella storia del teatro mondiale. Questo spettacolo ci ha accompagnato per tutta la vita, rinnovandosi, volta per volta. Centinaia di attori lo hanno recitato. Ci sono degli spettatori che l’hanno visto nascere, poi, anni dopo, l’hanno visto rinascere; dopo, altri l’hanno riconosciuto, in Italia o nel mondo… Oggi, questi stessi spettatori ed altri ancora lo rivedranno, in occasione del nostro anniversario.

Forse un grande libro avrebbe potuto essere scritto su questa storia: la storia di un solo spettacolo, ripetuto, ma non ricopiato, quasi all’infinito.

Nessuno l’ha scritto e credo che nessuno lo scriverà. Ma se noi teatranti, per compiere il nostro meraviglioso e disperante mestiere, dovessimo aspettare quelli che scrivono, non ci sarebbe più una ribalta che si accende nel mondo.

Noi facciamo il teatro. Altri lo guardano. Altri ancora lo descrivono e lo ricordano. I più lo dimenticano. O credono di dimenticarlo; perché io penso che un atto teatrale d’arte, vitale, compiuto, rimanga dentro al pubblico come una memoria sepolta e non perduta.

Questa edizione dell’Arlecchino ha la caratteristica fondamentale di gettare luce su un “altro” Arlecchino. Ho dato al teatro del Novecento due Arlecchini, quando già si era spenta, non la memoria, ma la presenza di questa straordinaria maschera italiana. Moretti e Soleri: sono due nomi, ma scritti nel gran libro della storia dei comici del mondo, accanto a Bertinazzi, Thomassin e molti altri. Storia che vive. Questa nuova interpretazione è per me fonte di una trepidazione, di un fascino, di una curiosità, infinite. La compagnia sarà tutta di giovani ex allievi di una scuola che, senza clamore ma tenacemente, presta donne e uomini della scena al teatro italiano ed europeo. A reggere le fila di questa nuova famiglia, due grandi attori, due amici: Ferruccio Soleri e Gianfranco Mauri. Di Ferruccio, che posso dire, ancora, che già non sia stato detto o scritto, in tanti anni di vita trascorsi insieme sulle scene? Il mio Arlecchino è lui, personaggio ormai affrancato, libero dalla schiavitù del tempo che passa: eppure lui sa, ogni volta, rinascere sempre nuovo, sempre unico. Accanto a lui Gianfranco Mauri nel ruolo di Brighella, tende le mani a questi giovani dal gruppo dei “vecchi” del Piccolo.

Ancora storia e vita. A loro si affidano questi giovani, che sono un piccolo nucleo della nuova famiglia che – nata da noi – costituirà il nuovo Piccolo Teatro, Teatro d’Europa, da domani anche Teatro Nazionale.

Un altro segno, non di celebrazione, come sempre un po’ funebre, ma di nascita.

Per il resto, l’Arlecchino sarà, come sempre, pieno di storia e di ricordi; ma anche di nuovi suoni, di nuove sorprese.

Sul nostro vecchio palcoscenico, così piccolo, così povero, ma tanto ricco di creatività, di bagliori e di grandi voci della poesia umana. L’abbiamo voluto là, proprio perché in quel luogo palpita la storia. Ai muri sono aggrappati infiniti ricordi, le stanze sono abitate; in ogni poltrona si è seduta una figura cara, in attesa o in ascolto.

Il nuovo, vecchio, futuro Arlecchino sta bene lì, nella sua culla di un tempo, quando recitavamo con maschere di carta in pieno luglio e la carta delle maschere si scioglieva sul nostro viso, con lunghe righe di nero…

Piccoli stracci che mettevamo con cura sul tavolino, dando loro una forma quasi perduta e che ritrovavamo l’indomani, pronte per sciogliersi di nuovo sui visi della nostra giovinezza.

Giorgio Strehler, Perché Arlecchino?, dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1996/97

Video

Strehler festeggia i cinquant’anni del Piccolo Teatro con quello che ne ritiene lo spettacolo simbolo.

Documenti

Jack Lang. Il costume di Arlecchino è un esempio di democrazia

Arlecchino ha attraversato i 50 anni di vita del Piccolo Teatro. Salta, corre, piange, ride. E noi con lui.

Quante persone sono rimaste, contemporaneamente, stordite e meravigliate, incuriosite dalla vita tumultuosa e piena di energia del Piccolo Teatro e del suo Arlecchino? Quanti non hanno desiderato conoscere e capire il segreto di tanta vivacità, di questa intelligenza sorridente, di questo fascino e di questa bellezza così generosi?

Io ho fatto parte, per lungo tempo, di questa schiera. Il mio stupore guidava la mia curiosità. Il mio desiderio di capire si sommava con la mia gioia di spettatore.

La mia frequentazione assidua del Piccolo Teatro, di Paolo Grassi, di Giorgio Strehler, ha fatto gradualmente cadere il mio desiderio di “voler capire”. Ho capito che tutto questo incanto, questa rivoluzione teatrale, non era altro che una questione di uomini, di uomini di buona volontà, di audacia, di passione e di talento. Non esisteva nessuna formula magica nascosta. Nessun trucco. Solamente genialità.

È questa genialità che abita il costume di Arlecchino, che si respira tra le sue mura, che anima le meravigliose équipe del teatro.

Questo costume è fatto di mille pezzi di colori diversi. È un esempio di democrazia. Noi siamo tutti degli individui. È il nostro incontro, sono i nostri scambi reciproci a costituire un modo di essere e di vivere insieme. Sulla base di questo costume, il Piccolo Teatro ha costruito la sua identità: come un mosaico che unisce rigore e improvvisazione, follia e saggezza, passione e programmazione, civismo e impertinenza. Questo costume è immune alle mode. Senza età, è sempre giovane. Sempre in movimento, impedisce ai conservatorismi di radicarsi. Alla scuola del Piccolo, io ho affermato la mia passione ed ho avuto conferma di una mia convinzione: la cultura è una questione di uomini.

Al di là dei discorsi e delle dichiarazioni, nulla può sostituire il loro talento, la qualità del loro impegno, il calore del loro agire.

Paolo Grassi e Giorgio Strehler hanno realizzato questa alchimia meravigliosa, hanno costruito un “teatro-costume”, fatto di mille pezzi e di mille energie.

Hanno fatto posto all’uomo spettatore, all’uomo attore, all’uomo cittadino. Se il Piccolo Teatro fosse stato solo un discorso sul teatro, certi potrebbero essere dubbiosi circa il suo futuro. Ma, siccome il Piccolo è soprattutto fatto di uomini e donne al servizio dell’arte, guidati dalla passione, possiamo essere certi di poter prendere appuntamento per festeggiare i suoi 100 anni.

Jack Lang, Il costume di Arlecchino, dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 1996/97

Ferruccio Soleri. Arlecchino, la mia vita

Il mio incontro con il personaggio di Arlecchino è avvenuto quasi per caso, mentre studiavo da attore all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, con La figlia ubbidiente di Goldoni, saggio di un allora allievo regista, Giacomo Colli. Ero preoccupato: nato in Toscana, non avevo mai recitato in veneziano. «Non avere paura – mi ha detto il mio maestro Orazio Costa – verrà Marcello Moretti, l’Arlecchino di Strehler a metterti a posto».

Ma Moretti era sempre occupato con Strehler; venne solo alla prova generale e non mi diede alcun aiuto reale. Evidentemente, però, qualcosa in me l’aveva colpito se, quando si trattò di pensare a un sostituto, scelse proprio me. I miei rapporti con il Piccolo Teatro cominciarono l’anno dopo, quando frequentavo il terzo corso. Orazio Costa, che doveva mettere in scena al Piccolo La favola del figlio cambiato di Pirandello, chiese alla direzione della scuola di potermi avere con sé. Venni presentato a Strehler, che mi disse: «Ah, Soleri, l’Arlecchino dell’Accademia»; Moretti doveva avergli parlato di me. Dopo il diploma, mentre stavo recitando al Teatro del Convegno con Enzo Ferrieri, Missiroli, che allora era assistente di Strehler, mi chiamò (era il 1959) per chiedermi se ero disposto a partecipare all’Arlecchino, che stava per partire per una lunga tournée in Europa e in Africa del Nord. «La parte è quella del camerierino – mi disse Missiroli – ma cerca di sganciarti, perché se Strehler ha pensato a te e vuole che tu stia vicino a Moretti, vuol dire che ha qualche idea. L’anno prossimo, poi, ci sarà la tournée americana e il sostituto del ruolo principale è richiesto per contratto». Così mi imbarcai in questa avventura, ingannando il povero Enzo Ferrieri, dicendogli che avevo un’importante offerta cinematografica. Il mio nome, però, non doveva apparire in Italia in nessun modo, e quando arrivava qualcuno alle prove, il direttore di scena mi diceva di sparire. Recitando nel ruolo del cameriere della locanda, praticamente una comparsata, stavo in quinta a osservare Moretti. Vedevo la sua abilità, anche se non avevo la furbizia di capire le cose. Però assimilavo, magari senza accorgermene. «Stia in quinta Soleri – mi diceva Moretti –, così vede e impara. Non si sa mai». Alla fine della tournée, la televisione mi offrì un contratto per due mesi. Allora scrissi a Paolo Grassi, per chiedergli se per me c’era posto, nella stagione del Piccolo. «Non c’è – mi rispose Grassi –, ma posso offrirle la tournée americana di Arlecchino. Come camerierino, naturalmente». Dissi di sì, ma ero un po’ sfiduciato, perché Stefano Jesurum, che aveva già interpretato in alcuni spettacoli il ruolo di Arlecchino, mi aveva detto che Moretti aveva voluto parlargli. Proprio allora, mi arrivò una telefonata di Moretti: appuntamento in un bar vicino al Teatro Giulio Cesare. Parlammo e parlammo, di tutto e di niente, ma a un certo punto Moretti mi chiese a bruciapelo: «Cosa le piacerebbe fare nell’Arlecchino?». E io, sicuro: «Silvio». «E Arlecchino no?». «Ma lo fa lei quello» risposi. «E se ci fosse bisogno di un sostituto?». Così seppi di essere stato scelto, e che era arrivato il tempo di mettermi d’impegno a prepararmi ad interpretare un personaggio che mi era stato imposto da Costa e da Colli, e che mi veniva, in qualche modo, confermato da Moretti. Per la tournée americana, lavorai con Moretti solo per quindici giorni: provavo al suo posto, mentre lui dirigeva le prove e mi diceva: «Faccia così e così», ma non mi spiegava mai il perché delle richieste che mi faceva. Qualche volta, provai anche con Strehler, perché lui voleva mettere a punto la mia parte. Si rese immediatamente conto che ero diverso da Moretti. Mi diceva «Fai così e così», ma poi faceva marcia indietro, perché dovevo rientrare esattamente in un ingranaggio assolutamente stabilito. Ricordo ancora la mia prima recita a New York, in un giorno feriale. Venne annunciato al microfono che, in quella replica, Moretti era sostituito da Ferruccio Soleri. Il teatro aveva duemila posti: da dietro il sipario, dove stavamo già tutti pronti, con il braccio alzato nella caratteristica posizione del balletto, sentii duemila mormorii di disappunto. Il braccio mi cadde giù: mi sentivo come svuotato. Dalle quinte mi arrivò, perentoria, la voce di Grassi: «Soleri, perdio, il braccio!». Si aprì il sipario. Narcisa Bonati, che allora interpretava Smeraldina, ha sempre sostenuto che il pubblico mi fece un applauso di sortita. Ma io devo dire che non lo sentii proprio. Il primo atto andò così così; il secondo, con la scena del pranzo e del budino, interessò molto il pubblico; nel terzo, sentii che ce la potevo fare. Questa è stata la mia prima volta come Arlecchino. Indimenticabile. Nel 1961 morì Marcello Moretti e di Arlecchino non si parlò più. Ma nella stagione 1962/63, Grassi mi propose una scrittura di otto mesi per il Galileo di Brecht, dove interpretai il principe Giovanni de’ Medici giovane, lo storpio nella processione del Carnevale e un seminarista. Fu durante le repliche del Galileo che mi dissero che Strehler voleva riprendere Arlecchino, in una edizione particolare, a Villa Litta, all’aperto. Iniziai a provare con Virginio Puecher. Poi arrivò Strehler e cominciò a smontare tutto: «Ferruccio, qui la voce non va. Devi trovarla, devi rinforzarla». Mi diede da fare degli esercizi di sostegno, fra cui uno utilissimo: leggere il giornale senza mai fermarsi, senza respirare e senza punteggiatura, fino a quando mi reggeva il fiato, e poi da capo. È stato lavorando con lui che ho capito che cosa fosse Arlecchino e che cosa fosse stata la Commedia dell’Arte, ben al di là dei libri che avevo letto. Da parte mia, gli portavo la mia abilità nell’acrobazia, la mia voglia di fare, le mie caratteristiche, la mia gioventù. Ma la mia voce l’ho trovata solo nel secondo anno; prima ero troppo preoccupato dell’incontro con il pubblico e con la critica. Il mio Arlecchino lo devo a Strehler, che mi ha dato tutto. Strehler, invece, ha sempre idealizzato il mio rapporto con Moretti. Ha anche scritto che ce ne stavamo spesso da soli, a parlare insieme: in quei momenti gli sembrava che il vecchio Arlecchino passasse il testimone al nuovo. In realtà, proprio in quei momenti, Moretti mi diceva le cose che avevo sbagliato, che non avevo fatto bene. No, lo ripeto, il mio vero maestro è stato lui, Strehler. Difficoltà ne ho avute molte. La prima nasceva dal mio rapporto con la maschera. «Non fai ridere, non esprimi niente», diceva Strehler durissimo, e questo mi gettava nel panico. Ho cominciato a studiare la maschera davanti allo specchio. Lì ho capito che la maschera spingeva a interiorizzare quello che avrebbe dovuto sentire il corpo. Ero terrorizzato da questo; poi ho capito di avere un vantaggio: potevo guardare il mondo dal buco della serratura, mentre gli altri non potevano vedere le mie emozioni. La mia maschera era diversa da quella di Moretti (che ho portato per quattro anni) nel taglio degli occhi che io ho accentuato rendendoli più da gatto, in sintonia con il personaggio più acrobatico, più giovane che interpretavo. Per fare Arlecchino, ho lavorato duro, sempre sostenuto da Strehler. Arlecchino è la mia vita. Ho amato moltissimo il mio primo Arlecchino, quello di Villa Litta, quello dell’edizione cosiddetta “dei carri”. L’Arlecchino forse più bello, però, è stato quello della versione “dell’Odéon”. Ma il più commovente, il più vicino al senso vero della Commedia dell’Arte, è stato, senza dubbio, quello “dell’Addio”, pensato per il quarantennale del Piccolo e il più faticoso quello “del Buongiorno”, con i giovani della Scuola di Teatro. Strehler non mi ha mai detto «Ecco, ci sei. Ecco, è fatta», quando stavo cercando il mio Arlecchino. Solo mentre provavo l’edizione “dell’Addio”, mi ha detto una cosa che ricorderò per sempre: «Ferruccio, io non capisco. Tu invecchi, ma il tuo Arlecchino è sempre più giovane. Ma come fai?».

Ferruccio Soleri, in Il Piccolo Teatro di Milano. Cinquant’anni di cultura e arte, a cura di Maria Grazia Gregori, Milano, Leonardo Arte, 1997

 

Alighiero Scala. Il suggeritore, l’anima dello spettacolo

I miei genitori facevano il teatro di carrozzone, per cui noi recitavamo e montavamo le scene; chi era libero suggeriva, e così ho imparato questo mestiere. Col tempo, questo lavoro è stato ricco di soddisfazioni.

Il passaggio da suggeritore, inteso come mestiere, al suggeritore personaggio, così come Strehler ha pensato di inserire nell’Arlecchino, è stato bellissimo; è un piccolo ruolo, ma è visto come anima dello spettacolo e mi dà modo di poter intervenire tranquillamente ogni qualvolta manca la battuta a qualcuno. È successo diverse volte, ne è uscito come un gioco, e da queste situazioni abbiamo tirato fuori parecchie gag.

Portando l’Arlecchino in giro per il mondo, il successo era assicurato; non so il perché, ce lo stiamo chiedendo ancora. Un successo enorme, con gli applausi che non finivano mai.

Alighiero Scala, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Rassegna stampa

Un “esercizio di stile” continuamente rinnovato

Quando Strehler, nel ‘47, lavorò sul canovaccio del Goldoni, le idee sulla Commedia dell’Arte e sulla riforma goldoniana erano poche e confuse. S’affidò ai ricordi di vecchi attori, ai libri degli eruditi, alle intuizioni della fantasia, perfino alle gag di Charlot e Totò. Poi, via via, Strehler, Moretti, Soleri e centinaia di interpreti davano forma a uno spettacolo nel quale s’incrociavano memoria del teatro e modernità: un Arlecchino “alla maniera degli zanni” ma come proiezione della lettura – necessariamente esclusiva – di un maestro della regia; un “esercizio di stile” continuamente rinnovato e trionfalmente esibito al mondo. L’edizione del Cinquantenario, consegnata agli ex-allievi della scuola del Piccolo intorno a Soleri e Mauri, nel ricordo del primo Arlecchino-Moretti, è di questo percorso di mezzo secolo la sintesi estrema: come tale, un concentrato di esperienze e di effetti, un ammucchiarsi financo esorbitante di “trovate”, una esibizione di pezzi di bravura fra maestri ed allievi, con situazioni risolte in chiave ironica, spunti per divagazioni parodistiche, sottolineate dai temi musicali di Carpi per ottoni e percussioni, ammiccamenti del suggeritore (il lunare Scala) al pubblico invitato a scherzare coi propri ricordi, le irruzioni degli attori in platea. E giochi d’ombre in controluce preceduti alla fine da un’emblematica burrasca (che è, ad un tempo, il 1789, il 1945, le strehleriane tempeste con Shakespeare o Brecht…); prima che Arlecchino “immortale” se ne scappi via per il mondo, inseguito dai personaggi-fantasma […]. L’impianto scenico, di Frigerio, è ancora quello spoglio – candelabri, paraventi, bauli – dell’edizione “dell’Addio” dell’87.

I due maestri, Soleri e Mauri, a parte, hanno vinto la loro prova del fuoco; Laura Pasetti, Clarice, maliziosa nel suo fare la tortorella; il Bongiovanni che era un Pantalone insieme antico e moderno; il Calabresi nei panni del Dottor Lombardi, la Maragno come scatenata Smeraldina.

Ugo Ronfani, “Il Giorno”, 16 maggio 1997

Il teatro continua sempre

Dunque, Arlecchino. Era giusto ripartire da lì, dallo spettacolo che ha scandito per cinquant’anni la vita di questo teatro, dalla creazione di Strehler più nota nel mondo, affidata prima alla sublime abilità acrobatica di Marcello Moretti, e poi a quella, non meno prodigiosa, di Ferruccio Soleri. Attraversando gli anni, lo spettacolo è andato via via spogliandosi, fino a ridursi a una nudità scenica sporadicamente occupata da qualche tavolino e da qualche séparé. In questa bolla bianca, rischiarata dalle candele di proscenio, è rimasto, fragoroso e ilare, il gran gioco del teatro, anzi la sua gioia e il suo stupore. Nella vicenda goldoniana di Arlecchino, che va a servire contemporaneamente due padroni, rischiando cataclismi irreparabili, Strehler riversa il proprio amore per il teatro all’antica italiana, e per quelle maschere che, ai tempi loro, furono vita e mondo. Ma l’Arlecchino non esprime soltanto una tenerezza. È anche spettacolo di idee e di sentimenti. Non perché ci presenta il gioco del teatro nel teatro, con le irresistibili liti tra il suggeritore e la compagnia, ma perché ogni volta si carica di un rovello nuovo, di un’ombra della mente. Quest’ultima edizione […] contiene un brivido di malinconia autunnale, unito a una professione di fede nel teatro. Nel prefinale, quando le coppie si ricompongono e i contrasti si placano, un vento si alza e turbina per l’aria un mucchio di foglie morte: sembrerebbe la metafora del tramonto di una bella stagione, ma una voce ci annuncia che “il teatro continua sempre”.

Vedete come sa cambiare Arlecchino.

Osvaldo Guerrieri, “La Stampa”, 16 maggio 1997

 

I bianchi capelli del Piccolo Teatro

Forse il momento più commovente dell’Arlecchino di Carlo Goldoni che l’altra sera ha ufficialmente sancito i cinquant’anni del Piccolo Teatro, è stato quello in cui, dopo i volti stanchi e sorridenti dei giovani, Ferruccio Soleri, che è Arlecchino ormai da più di trent’anni e Gianfranco Mauri, che del locandiere Brighella è l’interprete storico, si sono tolti la maschera e il pubblico ha visto i loro capelli bianchi. Come per incanto, la storia del Piccolo Teatro si è d’un lampo visualizzata. Su quel minuscolo palcoscenico, infatti, Giorgio Strehler, salutato da una lunghissima ovazione, ci ha ricordato le generazioni di attori che hanno recitato in questo spettacolo. Ci ha ricordato gli interpreti dei diversi ruoli, molti dei quali in sala a guardare con commozione quelli che oggi recitano al loro posto e quelli che verranno non appena la vita dei secondi cinquant’anni del Piccolo comincerà. Un ideale scambio del testimone. Giustamente, dunque, la serata è terminata con la Serenata di Mozart che inaugurò il Piccolo cinquant’anni fa, e con l’abbraccio colmo d’affetto del pubblico per gli attori, per Strehler.

In scena, nell’essenziale, poetica ambientazione di Ezio Frigerio, pochi paraventi o pochi oggetti scandiscono le azioni, i diversi luoghi, di quest’ultimo Arlecchino, che, nella composizione stessa della sua compagnia, dichiara immediatamente la differenza vera dalle precedenti edizioni, del Buongiorno e del Bicentenario, dove tre compagnie si contendevano i ruoli, attorno al “maestro” Soleri. Qui, invece, la distribuzione è ritornata alla tradizione, ogni ruolo ha il suo interprete “nuovo”. Il risultato è una maggiore aggressività, che si addice a dei giovani attori ossessionati – come si ripete più volte in quel gioco fra “dentro” e “fuori” che costituisce una delle chiavi dell’Arlecchino –, dal “fare moderno, anzi contemporaneo”: una sorta di bonaria presa in giro che gli attori fanno di se stessi. Ecco, ancora una volta, quasi per magia, prendere corpo, nell’evolversi smemorato del gioco, gli insulti – “padan”, “formentan” fra i nuovissimi –, gli amori di questi personaggi al confine fra la Commedia dell’Arte e la commedia nuova e per i quali, in ben nove edizioni diverse, Strehler ha inventato e costruito tutta un’ossatura poetica. Regalandoci anche un finale inaspettato e carico di presagi: un temporale, un borbottio di tuoni, foglie che entrano dalle quinte insieme al vento che fa sbattere le porte e getta un interrogativo angoscioso su quella compagnia di comici sorpresa dal maltempo. Poi, ecco, lontana, brillare, al di là di un velario, la luce di una fiaccola, per guidare gli attori verso la loro meta, chissà dove…

Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 16 maggio 1997

 

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