Arlecchino servitore di due padroni

1987. Settima edizione

1987. Settima edizione, detta “dell’Addio”

Dopo quarant’anni di vita e circa 1.500 repliche, Il servitore di due padroni torna sul palcoscenico di via Rovello in un’edizione emblematicamente intitolata “dell’Addio” che Strehler allestisce appositamente per celebrare il quarantennale del Piccolo Teatro. La scena di Ezio Frigerio si spoglia ancora di più, resta solo il nudo palcoscenico con i suoi comici che si ritrovano, dopo anni, a recitare ancora una volta, insieme, alla luce di grandi candele di cera.

È, come diceva Goldoni, il teatro, il mondo, la vita.

 

Personaggi e interpreti

Pantalone Ettore Conti
Clarice Susanna Marcomeni / Giulia Lazzarini
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Giancarlo Dettori / Roberto Chevalier
Beatrice Andrea Jonasson
Florindo Aretusi Franco Graziosi
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli / Narcisa Bonati
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Enrico Bonavera
Camerieri Sergio Lomazzi, Riccardo Magherini
Il suggeritore Edmondo Sannazzaro
Un facchino Ettore Gaipa
Suonatori Anania Battagliola, Walter Battagliola, Anna Ferraresi, Valerio Geroldi

Scene di Ezio Frigerio
Costumi di Franca Squarciapino
Musiche di Fiorenzo Carpi
Movimenti mimici Marise Flach
Maschere di Amleto Sartori
Registi assistenti Carlo Battistoni, Enrico D’Amato
Assistenti alla regia Gianfranco Mauri, Fabio Sparvoli

Testo di Carlo Goldoni

Regia di Giorgio Strehler

Milano, Piccolo Teatro, 14 maggio 1987

Riprese

1988-89

Pantalone Ettore Conti
Clarice Giulia Lazzarini
Il Dottor Lombardi Enzo Tarascio
Silvio Giancarlo Dettori
Beatrice Andrea Jonasson
Florindo Aretusi Mario Valdemarin
Brighella Gianfranco Mauri
Smeraldina Marisa Minelli
Arlecchino Ferruccio Soleri
Un cameriere Enrico Bonavera
Un facchino Ettore Gaipa
Camerieri Antonio Carlucci, Sergio Lomazzi
Il suggeritore Alighiero Scala
Un facchino Ettore Gaipa

Milano, Piccolo Teatro, 14 maggio 1988

Nel 1989 lo spettacolo è ripreso a Milano, Parigi e San Paolo.

Strehler ne parla

Significati e ragioni di Arlecchino

Quali significati e quali ragioni ha questa rappresentazione di Arlecchino servitore di due padroni, di Carlo Goldoni, per l’anniversario dei quarant’anni di vita del Piccolo Teatro, la sera del 14 maggio?

Ha le ragioni di una testimonianza e di una fedeltà a qualcosa che ha accompagnato per quattro decenni la nostra vita di commedianti, nel nostro paese e nel mondo. Ed il significato di un grato, commosso saluto d’addio al pubblico della nostra città. Al nostro pubblico di sempre. Abbiamo chiamato questo Arlecchino “l’edizione dell’addio”, ed è un addio che noi diamo ad una nostra avventura teatrale antica, ma sempre rinnovata nel tempo. Noi, quelli che siamo rimasti di una compagnia nata nel 1947, ci sentiamo il simbolo dei tanti interpreti che hanno dato vita ai personaggi di un testo e di uno spettacolo certamente straordinario nella sua vitalità e nella sua capacità di rifarsi diverso, pur restando fondamentalmente lo stesso.

Se c’è un miracolo dell’Arlecchino, è proprio questo.

Avremmo voluto che, sera dopo sera, tutti i comici che vi hanno partecipato si alternassero nei ruoli che furono i loro.

Non abbiamo potuto farlo. Perché molti di loro non ci sono più. Altri sono presenti, ancora nel teatro, ma in altri luoghi, in altri spettacoli. Ma siamo riusciti almeno ad indicare “simbolicamente”, con una relativa ma significativa alternanza, questo piccolo mondo di attori che si riuniscono, che avanzano negli anni, che si dividono e lasciano il posto ad altri, e talvolta si ritrovano.

Non sempre, non tutte le sere gli attori dell’Arlecchino saranno, infatti, gli stessi. Ma l’Arlecchino ugualmente sarà, davanti al pubblico, con la perennità delle opere d’arte del teatro, che restano anche al di là dei loro interpreti.

Per il resto, gli attori dell’Arlecchino 1987 sono stanchi. Hanno il diritto e il destino di essere stanchi. Alcuni di loro portano avanti questo spettacolo da decenni, altri l’hanno lasciato per poi riprenderlo in momenti successivi.

Tuttavia, essi non mostreranno la loro stanchezza, noi non lasceremo trasparire la nostra umana fatica, il peso degli anni sulle nostre spalle, come ogni vero commediante deve fare. Perché proprio questa è la nostra estrema dignità di servitori del teatro ed il segno della nostra umiltà, portata come un segno di onore.

Questa serata, queste serate, avranno dunque certamente un loro carico di tristezza e di acconsentimento alla vita che passa. E nell’ilare gioco di Arlecchino servitore di due padroni non potrà mancare il brivido e l’ombra del tempo.

Per primo la maschera gloriosa di Arlecchino fu di Marcello Moretti e dopo di lui di Ferruccio Soleri, artista altrettanto straordinario ed altrettanto unico. Innanzitutto a loro va la mia gratitudine.

Una sola attrice qui è nuova, Andrea Jonasson, che si è assunta il ruolo di tante prime attrici del Piccolo Teatro, quello di Beatrice, e che vuole semplicemente – e non è facile – dare il segno di una continuità del nostro mestiere in un’Europa del teatro che si sta costruendo più concretamente di quella della politica.

A tutti, ai tanti attori che, come nelle famiglie dei comici, si sono avvicendati in quattro decenni nei ruoli dell’Arlecchino, vanno il mio grazie e il mio affetto.

Chissà, Arlecchino servitore di due padroni, anzi, Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni (e ricordo che un tempo mi fu rimproverata come indegna irriverenza o bassa ricerca di successo plateale l’apposizione così legittima del nome di Arlecchino al titolo originale!) potrà anche rinascere un giorno. Con altri, in altri tempi, con cadenze forse tutte diverse. Forse potrà essere uno dei possibili “testi” con i quali si concluderanno i tre anni del primo corso intitolato a Jacques Copeau della nostra Scuola di Teatro, nella quale noi riponiamo tante speranze ed alla quale abbiamo dedicato e dedicheremo tanta fatica. Forse avrà inizio un Arlecchino di ragazzi, come noi fummo allora, quando nacque sulle nostre scene. O forse no. Ma questo Arlecchino servitore di due padroni il nostro pubblico non lo vedrà più. Esso non verrà ripreso, né “riciclato”, se mai può definirsi così la difficile e umile opera di mantenere in vita, senza far trasparire le rughe degli anni, uno spettacolo che ha segnato la giovinezza del Piccolo Teatro, la nostra, e che ha fatto acclamare per quarant’anni il teatro italiano nel mondo. Il Grande Mondo che Goldoni metteva sempre accanto al Teatro e che, grazie ad un altro lungo e paziente lavoro, ha conosciuto non solo questo Goldoni, giovanile ed ancora atteso al gioco delle maschere, ma anche l’altro suo volto, più profondo, più poetico e compiuto: quello delle Baruffe chiozzotte, della Trilogia della villeggiatura e del Campiello.

Con orgoglio annoto che il pericolo di un equivoco che poteva nascere – e che in parte è nato, in un primo tempo – da questa miracolosa esperienza della Commedia dell’Arte giocata per così dire sul vuoto, senza rete, senza tradizioni, per sangue e natura italica soltanto, non c’è stato; che oggi – non in Italia, ma nell’Europa e fuori dell’Europa – Carlo Goldoni è finalmente conosciuto, amato e recitato, forse anche capito, per ciò che di più imperituro e di poetico di lui resta. Ma tutto questo non è avvenuto per un caso della sorte. È per volontà nostra, per nostra tenacia e nostra ricerca, per lavoro nostro.

Per il resto, Arlecchino ha segnato un grande successo del Piccolo Teatro, ma ha anche avuto la sorte di arrestare, in certo qual modo, un altro possibile discorso sul tema della Commedia dell’Arte, che proprio con Arlecchino noi avevamo cercato di riscoprire. E che pochi altri – forse nessuno – hanno cercato veramente di portare avanti. Non è da escludere, dunque, che questo nostro addio all’Arlecchino ci spinga a riprendere un filo quasi interrotto perché tutto assorbito da un solo testo di Goldoni, quello cioè del lavoro iniziato con Il corvo di Gozzi e poi lasciato a lato per “necessità” teatrale. Per “successo”, perché nella mobilità dell’esperienza teatrale i successi, talvolta, diventano tirannici. Questo Arlecchino inizia al lume delle candele e finisce con le candele che si spengono, una per una. Non per il frutto di un’idea bizzarra di “regia”, ma per un fatto di vita, che appartiene alla realtà del lavoro quotidiano. Una sera, infatti, per caso, durante quella che noi chiamiamo “l’edizione dell’Odéon” di Parigi, proprio in quel teatro, nel corso dell’ultimo atto, si verificò un’interruzione di corrente. Il teatro rimase sprofondato nel buio. Buia la platea, buia la scena. Gli attori restarono perplessi ed anche impauriti, poi uno di loro ebbe l’idea di accendere una candela di un candelabro in scena. E, rapidamente, come se fosse concertato, essi cominciarono ad accenderne altre. Alcuni si spinsero nelle quinte, fin nei camerini, per cercare luce e tornarono e recitarono quello che doveva essere, quello che doveva essere recitato e portato a compimento davanti al pubblico, per il pubblico. Essi lo fecero, illuminandosi reciprocamente, in un gioco improvvisato e quasi disperato che ci commosse tutti.

Una sera, in un teatro del mondo, noi finimmo dunque questa commedia della gioia, finimmo tra le lacrime questa “cosa da ridere” e mai, credo mai, tutti coloro che c’erano, quella sera, sentirono più profondamente la gloria del teatro, il suo splendore contro tutto e tutti, nel buio della notte dell’uomo.

Addio vecchio Arlecchino, buongiorno a te, Arlecchino nuovo e a tutti gli Arlecchini che verranno nella vita di domani!

Su il sipario. Una volta di più.

 

Giorgio Strehler, Significati e ragioni di Arlecchino, dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni per le celebrazioni del 40° anniversario della fondazione del Piccolo Teatro, 1987

 

 

Documenti

Tre ricordi di Ferruccio Soleri

Strehler interpreta tutte le parti: donna, Arlecchino, gentiluomo, cameriere…

Strehler io l’ho ammirato sempre. Ero una briciolina immersa con pura felicità in un’atmosfera straordinaria dove la divisione dei tempi di lavoro ancora non esisteva e si provava 14 ore al giorno. E lui si faceva donna, Arlecchino, gentiluomo, cameriera… Io non ho imparato Arlecchino da Moretti, ma da Strehler.

Ferruccio Soleri, intervista di Gabriella Monticelli, “Epoca”, 16 aprile 1987

Un ritorno al Settecento

Ora l’azione sembra svolgersi nel nulla. C’è un cielo che non è un cielo. Non esiste più l’ambientazione del grande palazzo, non ci sono più neanche i siparietti, ma solo dei piccoli paraventi. Lo scenografo Ezio Frigerio ha ridotto tutto all’essenziale. E siamo illuminati dalla luce delle candele. Un ritorno al Settecento, un’atmosfera sognante.

Ferruccio Soleri, intervista di Claudio Altarocca, “La Stampa”, 14 maggio 1987

Arlecchino attraverso la memoria

L’edizione dell’Addio è straordinaria, trovo che sia una delle cose più belle che siano state fatte. Esistevano veramente solo le candele; c’era questo spazio nella memoria, nel ricordo, nella nebbia, nel niente… e questa vaga tristezza, che stava già percorrendo un po’ involontariamente Strehler, si era diffusa nell’atmosfera dello spettacolo visto come attraverso il filtro di una memoria, di un ricordo di cose vecchie e lontane. Ecco perché ha voluto tutti gli attori vecchi, gli attori “grandi” che, oramai, quasi troppo maturi per i loro ruoli, davano la visione di un ricordo quasi appannato dalla memoria e dal sentimento…

Ferruccio Soleri, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

 

Giulia Lazzarini. Arlecchino è eterno

Quando, nell’87, sono andata alla prima prova ero una Clarice un po’ avanti con l’età, però era l’Arlecchino dell’Addio, l’Arlecchino della nostalgia, l’Arlecchino delle candele accese, l’Arlecchino del «BASTA! E qui finisce e non si farà mai più». E allora era giusto saltarci dentro come omaggio ai suoi quarant’anni. Stando in quinta e vedendo lavorare Ferruccio, ho ritrovato un gioco, la forza dell’Arlecchino, e mi sono riscoperta a ridere, a commuovermi a certi lazzi, a certe entrate. Ho adorato Ferruccio. Ho capito cosa vuol dire la continuità. E questo è molto bello. Uno inizia una cosa e l’altro poi porta avanti la fiaccola perché l’Arlecchino è eterno, siamo noi che entriamo e usciamo.

Giulia Lazzarini, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Giancarlo Dettori. Arlecchino è il più grande sogno di tutti gli attori

Non c’è nella drammaturgia del mondo uno spettacolo che sia stato recitato così tanto da una moltitudine di cadaveri, oramai, di fantasmi e di vivi. L’Arlecchino è il più grande sepolcro d’anime di attori, è il più grande sogno degli attori viventi. Non c’è e non esiste luogo più sacrale, poetico e straordinario dell’Arlecchino. Con diverse motivazioni, è chiaro, che dipendono dall’intelligenza o dalla sensibilità individuale e chiunque ne abbia fatto parte non può non avere avvertito che entrava in un meccanismo cosmico.

Ho visto Laurence Olivier in ginocchio che baciava le mani a Marcello Moretti e Marcello che gli diceva: «Ma no, cossa falo, tolga via! No’l me dia basi». Ho visto Frank Sinatra e altri che appartengono ai grandi fenomeni di spettacolo del mondo e ho visto i grandi poeti inglesi come Pinter, Osborne, Wesker applaudire i quaranta minuti al Sadler’s Wells Theatre di Londra. Ho visto il pubblico di Mosca, quando andammo nel lontano 1960, che affidava al nostro spettacolo la speranza di un sogno di libertà. Questo spettacolo è un calvario poetico, una montagna incantata da superare e qualunque cosa diranno, diranno sempre qualcosa di riduttivo […]

Secondo me l’Arlecchino è la più grande lettura che sia stata fatta su un testo. Ho fatto l’edizione della Giovinezza in cui l’esuberanza, la forza e l’inquietudine erano chiave di volta. Ho fatto l’edizione della semi maturità, ho fatto l’edizione della maturità, ho fatto l’edizione in cui scene che non erano risolte (per esempio tra Beatrice e Clarice) hanno trovato una nuova, straordinaria composizione. Ho assistito alla grande creatività di Strehler, fino a quando, sull’altare di questo pulpito teatrale, di questa cerimonia quasi religiosa del teatro quale è l’Arlecchino, abbiamo fatto anche l’edizione straziante dell’Addio, in cui dei maturi attori giovani e delle mature attrici giovani raccontano la storia della vita e delle loro rughe in una tenera, ironica e malinconica atmosfera che fa presagire il senso di qualche cosa che si allontana per sempre. E ho potuto rivedere anche lo sberleffo beffardo riproducente l’inquietudine che questa tragedia poteva provocare dentro Strehler e dentro tutti noi.

Giancarlo Dettori, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Andrea Jonasson. Il più bello spettacolo del mondo

Il mio primo contatto con Arlecchino è stato molto prima che io “sognassi” di venire in Italia. Ero giovanissima, alla Schauspielhaus di Zurigo, recitavo Santa Giovanna dei macelli di Brecht, era forse lo stesso periodo in cui Strehler lo faceva qui, con Valentina Cortese; noi siamo là e arriva l’Arlecchino. Io non capivo una parola di italiano, eppure in platea, invasi tutti di una felicità incredibile, ci siamo detti: «Non abbiamo mai visto una cosa così grande in vita nostra!». Pareva di capire tutto, ogni parola; sono uscita da teatro e non sono riuscita ad andare a dormire subito, ho passeggiato per ore attorno al lago. «Ma come è possibile vedere una cosa così… Ma questo Strehler, questo Arlecchino che veramente ti rende così felice… E anche la malinconia… E le tende di Venezia che si aprono e diventano una stanza e si richiudono in un canale… È meraviglioso. Con poco, una stoffa e un paravento, ha costruito un palcoscenico! Magari poter recitare una volta con persone come quelli dell’Arlecchino…». Questo mi dicevo, camminando da sola per Zurigo quella notte. Sapevo di Strehler, ne avevo sentito parlare perché mi raccontavano del Galileo, dell’Opera da tre soldi, delle Baruffe e dei Giganti della montagna.

A Salisburgo, nel ‘73, per Il gioco dei potenti con Strehler, la vita cambia; lascio la Germania, lascio Zurigo, lascio Amburgo, lascio tutto e vengo in Italia senza parlare una sola parola di italiano. Sarà solo più tardi il mio primo lavoro qui, nell’Anima buona di Sezuan. L’ho rivisto là a Salisburgo l’Arlecchino, ed è stata di nuovo una grande emozione. Partecipava al Festival e, in quel meraviglioso teatro con quegli archi naturali scolpiti nella roccia, l’Arlecchino portava i suoi carri dei commedianti, che entravano in quell’enorme palcoscenico uno a destra e uno a sinistra e uno si fermava là, quell’altro laggiù; poi gli attori, tra gli archi nella roccia come in un vecchio castello, vagavano con le candele in mano alla ricerca di Arlecchino… era una cosa commovente e incantevole, piena di suggestioni.

«Va bene, è il più bello spettacolo del mondo», mi sono detta. E si vedeva la gente uscire da teatro con il sorriso e con le lacrime perché c’era anche quell’incredibile malinconia; la malinconia di un lontano passato, ognuno di noi sognava e desiderava rivivere i tempi di Goldoni, essere un’attrice di quel carro di comici… Credo di essere nata nel tempo sbagliato!

Un giorno Giorgio mi dice: «Noi facciamo Arlecchino per un’ultima volta, sarà il mio ultimo Arlecchino, quello dell’Addio; voglio farlo come un ricordo, con tutti i miei attori di un’edizione di molto tempo prima, con ancora Giulia Lazzarini, Dettori, Conti… e voglio che tu faccia Federigo Rasponi e Beatrice».

«Non è possibile, non posso farlo». Strehler fino ad allora aveva fatto per me delle scelte che giustificavano il mio accento, ma qui, nell’Arlecchino… Il ritmo e la velocità! Era impossibile poi per un’attrice che – come me – parla così “duramente” (non tanto spero), impossibile quella velocità con cui parlano loro, quelli dell’Arlecchino! «Tu devi farlo, devi farlo…», mi diceva Strehler. Ero felice, ma con una tale ansia che mi mancavano le parole. Alle prime prove c’era D’Amato, Giorgio è venuto alla fine. Tra questi grandi professionisti che l’Arlecchino l’avevano fatto per una vita, io mi sono sentita come una principiante, come una che fa teatro per la prima volta! Lassù in sala prove mi è venuta una tale paura che mi mancava completamente la saliva […]. Quando è arrivato, Strehler mi ha dato delle lezioni fantastiche, ma è stato anche molto duro nel senso che mi ha torturato; era esigente, mi chiedeva di essere in competizione, di essere come gli altri soprattutto nei ritmi… «Stai tranquilla, Federigo Rasponi è una donna che finge di essere uomo, capisci, va benissimo un leggero accento come il tuo, può essere un difetto di “straniamento”» e credo che in effetti sia uscito proprio questo. Poi la mia voce è bassa, e meno male che la posso abbassare quanto voglio, quando lui me lo chiede… Giorgio, alla fine delle prove è venuto in palcoscenico dicendo: «È un Federigo Rasponi molto strano; è molto misterioso e ci si chiede da dove è venuto fuori questo ragazzo…»

In quell’edizione avevo la parrucca bianca stile Settecento, ma quando – dopo la tournée all’estero – abbiamo fatto la ripresa a Milano, non so perché ma durante una prova non avevo la parrucca; sotto il cappello avevo raccolto i miei capelli che mi scendevano sulle spalle, quando toglievo il cappello, come nell’Anima buona di Sezuan. «Ma è bellissimo, sembri uno dei Moschettieri. Tienilo così, fallo con i tuoi capelli che scendono giù», mi aveva detto Strehler.

Mi sono divertita moltissimo, ma è stata anche una gran fatica. Anche Ferruccio [Soleri], che è adorabile, era molto esigente; era attento a qualsiasi movimento, a come gli davi il “colpo” che doveva essere sempre giusto, il calcio giusto, e tutto doveva sembrare naturale, improvvisato, invece tutto era calcolato, studiato; ogni passo, il colpo con la pergamena, la fiamma, ogni entrata, il girarsi intorno… tutto matematico.

Sembra questo, un gruppo di commedianti che si mettono là e dicono «Adesso facciamo un gioco…». È uno spettacolo italico, però universale, e credo che possa andare anche nella giungla dell’Africa, anche là si divertirebbero come ci siamo divertiti noi, perché è lo spettacolo della gioia, del gioco come anche della disperazione, della fame, della furbizia, dei valori universali.

 

Andrea Jonasson, in Arlecchino in viaggio con quelli dell’Arlecchino, a cura di Agnese Colle, Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte – Civico Museo Teatrale “C. Schmidl”, 1997

Rassegna stampa

La perenne giovinezza della maschera

C’è un grande, vecchio carro sbucato dalla svolta della strada in fondo al Paese, che avanza un poco cigolando. Uno strano carro, pieno di cose e di gente e con una specie di Gran Pavese formato da variopinte vesti appese a prendere l’aria. Uomini e donne hanno l’aria un po’ stanca, ma allegra. Sorridono ai passanti, li chiamano a sé. Ora scendono dal carro, si danno da fare ad abbassarne le sponde, improvvisando un palco; poi indossano quei vestiti, erano costumi, afferrano degli strumenti musicali, e cominciano. Che cosa? A lavorare, stanno alzando dei cartelli. Uno dice: “Questa sera, si recita Arlecchino, servitore di due padroni”, e, l’altro: “Ultima recita”.

Ora, quel carro è idealmente entrato nel cortile di via Rovello. I comici, curiosando, hanno scoperto un palcoscenico vero e, già che ci sono, hanno cominciato a preparare. Sarà una recita vera, al coperto, con tanto pubblico. Si accendono i lumi sul proscenio, si calano sul volto le maschere. Musica, maestro, vai, Arlecchino. Lo so, hai cinquantasette anni, e tra i tuoi compagni ce n’è qualcuno che ha cominciato a recitarvi nel giugno 1954. Ma tu, Arlecchino, e tu, Pantalone, e voi, Brighella e Beatrice e Florindo e quanti siete, non avete rughe: siete i comici dell’Arte e vi siete assicurati la perenne giovinezza della maschera. E infatti le voci sono squillanti, i passi sicuri, i gesti pronti; tu, Arlecchino, non sbagli una piroetta o una presa, i piatti volano per l’aria e tu li afferri tutti, poi giochi con la mosca inesistente e apri le lettere che non sai leggere e dai borse di soldi a chi non ne deve avere. Tutto avviene come sempre: sospiri di giovani, travestimenti, reboante vociare di padri, affannarsi di servi, smanie e smancerie di innamorati, contrattempi ed equivoci esilaranti. E il teatro è magico e miracoloso.

 

Odoardo Bertani, “Avvenire”, 5 maggio 1987

Strehler è riuscito a rappresentare qualcosa di molto difficile: il tempo che passa

Se mai uno spettacolo di teatro si è trasformato in un mondo dentro al quale si può vivere, attraversando spazio e tempo, questo è l’Arlecchino che ieri sera ci è stato rappresentato in un’edizione che Strehler ha voluto chiamare “edizione dell’addio”. Sappiamo che gli addii, in palcoscenico, già nel momento in cui si pronunciano, stingono nell’arrivederci. È possibile che, qui a Milano, Arlecchino non si faccia più vedere. Ma è quasi certo che l’anno prossimo varcherà nuovamente l’Atlantico per partecipare al Festival Internazionale di New York. Soleri, a 57 anni, dice di pensare già a Pantalone. C’è da credergli?

Addio o non addio, in questa edizione del quarantennale, Strehler è riuscito a rappresentare, dentro allo spettacolo, qualcosa di molto difficile: il tempo che passa, la misura degli anni che si susseguono e si depositano sulla scena. La sua regia consiste semplicemente nel disegnare, con mano delicata di truccatore, le rughe piccole e grandi che sono fiorite su questo spettacolo “giovane” a rafforzarne i lineamenti. Perché il tempo che passa produce incrinature, ma sgombra anche il superfluo. La scena di Ezio Frigerio è il perfetto disegno di un denudamento: un fondale di tela grigia, un paio di tavolini, qualche paravento messo e tolto nei momenti giusti, due ceste da viaggio, di vimini. Niente suppellettili, niente scene dipinte, niente colori. Anche i colori del costume di Arlecchino sono opachi, come se la nebbiolina del tempo li avesse sfumati al pastello. E Arlecchino ha la vita più bassa del solito, le spalle più strette. La luce è raffigurata come luce dei candelieri e dei moccolotti di ribalta che un decrepito suggeritore accende e spegne borbottando al principio e alla fine di ogni atto. I simboli del tempo che è trascorso, le rughe messe in scena? Sono negli inceppi simulati da qualche attore, nella piccola baruffa tra il suggeritore e un interprete, nella dimenticanza di una cameriera che entra in scena senza la lettera che dovrebbe recapitare, nella minaccia fuori copione di Pantalone a Smeraldina dopo che costei ha pronunciato l’elogio delle donne (“Quella, da domani, via!”).

Enzo Tian, “Il Messaggero”, 15 maggio 1987

Arlecchino in levare

Strehler ha affrontato questo nuovo allestimento “in levare”. Ha proceduto per sottrazione, eliminando molti segni scenografici, affidando le ambientazioni alle indicazioni di un suggeritore di antico pelo (l’applaudito Edmondo Sannazzaro), arredando gli spazi soltanto con tre paraventi, due tavolinetti, dei candelabri. E ha puntato tutto sul ritmo (visto che la scommessa consisteva nel mostrare l’intramontabile giovinezza di tanti veterani); ha infittito il gioco delle scene e controscene, ha “antologizzato” gli effetti comici accumulatisi in quarant’anni di ricerche. E così, a parte il godimento di una non perduta freschezza, questo Arlecchino “in limine” è apparso come un punto di arrivo, la summa di una ricerca sulla Commedia dell’Arte ch’era partita, nel dopoguerra, quasi dal niente: brogliacci dei primi zanni, le invenzioni mimiche del tedesco Reinhardt per l’edizione-balletto degli anni Trenta, le fantasie del giovane Strehler, le gag rubate a tutti, anche a Chaplin, dell’ex allievo dell’Accademia Marcello Moretti; i fondalini dipinti degli attori ambulanti, le maschere artigianali di garza e cartone. Così nel luglio del ‘47, non senza le proteste dei puristi per lo “stravolgimento” del Goldoni; poi l’Arlecchino aveva cominciato a girare per il mondo, aveva messo su insegna in un campiello, s’era vestito di panni lenci e arricchito di nuovi lazzi, da favola di maschere era diventato (1963, a Villa Litta) storia “realistica” di teatranti, s’era tinto della malinconia e della miseria dell’esilio (1977, all’Odéon di Parigi).

E oggi la nudità dell’ultimo discorso. “Vorrei che questo Arlecchino fosse recitato col niente, dopo tanto grattar via, con la nostra maturità di oggi”. Venezia? Un fondale di brume (con le fiamme delle raffinerie di Marghera) dietro al palcoscenico nudo. La casa di Pantalone? Due valletti che reggono candelabri. La locanda di Brighella? Un volare di piatti e frittate dietro infocati paraventi. E un di più di convenzioni comiche, di citazioni da Goldoni ma anche di Diderot, un meccanismo da carillon e colpi di grancassa foranea. Le sgangherate e classiche gag delle bastonature, le liti omeriche fra Pantalone e il futuro consuocero, le svenevolezze canore fra Clarice e Florindo, la mosca mangiata, lo scambio dei costumi dei due padroni, i tremolanti budini, gli affondi della spadaccina Beatrice sotto le spoglie di Federigo: nulla, di quarant’anni di lavoro scenico, è andato perduto, eppure tutto sembra reinventato all’istante.

Andrea Jonasson è l’avventurosa Beatrice, ruolo ch’è stato della Zareschi, della Fortunato, della Cortese. Come non ammirare la passione e la serietà con cui si butta nel vortice delle maschere della Commedia? Quanto resta, nella sua dizione, di tedesco ci ricorda che l’Arlecchino fa parte ormai del Teatro d’Europa. Mascolinizzata, stentorea nel travestimento di Federigo, è tutta radiosa femminilità nel roseo costume di dama del finale. Di Soleri, diciamo soltanto che orgogliosamente, generosamente, in questo congedo ha superato se stesso, “protetto” dall’ombra del suo maestro Moretti.

Grandi solisti della comicità si sono confermati i signori “dalle teste canute”: Conti, coloritissimo Pantalone; Tarascio, corposo dottore; Gianfranco Mauri, impiastricciato Brighella; e Sannazzaro, il caro Gaipa. Tutto spasimi amorosi l’affettato Florindo del Graziosi; di gelatinosa irresolutezza il Silvio di Dettori; robustamente plebea la Smeraldina della Minnelli. E lasciamo in fondo la chicca, il bigné: la Clarice gorgheggiante e maliziosa di Susanna Marcomeni, che si è appropriata con ironia delle vecchie convenzioni delle amorose, e canta da Piccola Scala.

Ugo Ronfani, “Il Giorno”, 15 maggio 1987

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